Bosnia Erzegovina, due mesi di proteste
I bosniaci continuano a manifestare, nonostante la pesantissima accusa di terrorismo rivolta ad alcuni partecipanti alle mobilitazioni del mese scorso. La sostituzione del ministro della Sicurezza, Fahrudin Radončić, apre i giochi in vista delle prossime elezioni politiche
Non mollano i manifestanti in Bosnia Erzegovina. Anche se le cifre recenti parlano di una partecipazione in costante calo, rispetto alle prime settimane, a Mostar, Tuzla, Zenica e Sarajevo si continua a scendere in strada, in una protesta che dura ormai da quasi cinquanta giorni.
“Sempre meno cittadini protestano a Sarajevo”, ha titolato la scorsa settimana Klix , uno dei più importanti portali bosniaci di informazione. Ma, a ben vedere, è inevitabile che la protesta sia entrata in una fase di stasi, dopo avere esaurito lo slancio iniziale e dopo avere incassato le prime vittorie presso le amministrazioni cantonali, le quali avevano deciso di accogliere alcune richieste formulate dai plenum dei cittadini .
Appuntamento a mezzogiorno
Nella capitale, qualche decina di manifestanti si dà appuntamento quotidianamente davanti al palazzo bruciato della Presidenza, a mezzogiorno in punto. Il traffico non viene più sospeso, da quando – il 7 marzo scorso – le forze di sicurezza hanno deciso di impedire alla cittadinanza di occupare l’incrocio tra Maršala Tita e Alipašina: ora chi protesta lo fa dal marciapiede, cartelli e fischietti al seguito, mescolandosi ai passanti che attendono alla fermata del tram. Gli altoparlanti alternano i proclami alla musica e, di quando in quando, un automobilista dimostra il proprio sostegno con qualche colpo di clacson.
A Mostar, nel corso delle ultime settimane, i manifestanti hanno dovuto scontrarsi con un’ostilità crescente da parte delle forze di polizia. Secondo le accuse degli organizzatori, le forze dell’ordine impedirebbero volontariamente alla protesta di spostarsi da Španski Trg a Mostar Ovest, per rafforzare l’idea che ad organizzarla siano soprattutto i bosgnacchi, contribuendo così a imporne una lettura etnica e a delegittimarla. Lo scorso 19 marzo, proprio a Mostar i manifestanti hanno ricevuto anche una visita di sostegno da parte di Svetlana Broz, direttrice di un’associazione civica di Sarajevo e nota nel paese anche per essere la nipote del presidente Tito, e del regista Gradimir Gojer. I due erano presenti nella città per la presentazione di un libro, scritto da Goran Sarić, dal titolo: “Ljepo gore klasici marksizma – ratni dnevnik” (I classici del marxismo bruciano bene – diario di guerra). “Ho fiducia che riuscirete a soddisfare le vostre richieste”, ha detto Broz, rivolgendosi direttamente agli astanti. “Avete il mio pieno supporto. Non lasciate che [i vostri politici] dormano in pace … continuate a fischiarli, senza sosta”.
Nel frattempo, le proposte che erano state “approvate” dalle singole amministrazioni cantonali languono nella grande zona grigia delle amministrazioni locali. Le assemblee cantonali hanno accettato le proposte dei plenum, ma poi nulla di concreto è stato realizzato. Anche i governi cantonali che avevano rassegnato le proprie dimissioni, come prevedibile, devono ancora essere formati. In qualche caso questo vuoto legislativo ha portato anche a soluzioni inedite. A Tuzla, Bahrija Umihanić, docente nella locale facoltà di economia, per formare un nuovo esecutivo ha deciso di assumere i singoli ministri attraverso un concorso pubblico aperto a tutti. Solo nel primo giorno di apertura del bando, sono state ricevute più di duecento candidature, secondo quanto riportato da Slobodna Bosna.
Il fattore Radončić
Se nelle strade bosniache la situazione sembra indebolirsi, nei palazzi governativi mai come in questo momento si avvertono le conseguenze della mobilitazione cominciata più di un mese fa. Il primo ad averne fatto le spese è il ministro per la Sicurezza, Fahrudin Radončić, dell’Alleanza per un futuro migliore in Bosnia Erzegovina (SBBBiH). Radončić è stato sostituito, nel corso della settimana scorsa, su iniziativa del Partito di azione democratica (SDA), che ha duramente contestato la sua condotta durante la crisi del 7 febbraio.
Il “Berlusconi della Bosnia Erzegovina” è così la prima vittima eccellente, tra i politici di rilievo nazionale, della rivolta popolare. Non che questo gli abbia provocato troppo fastidio, apparentemente: la sfiducia è stata l’occasione per lasciare la maggioranza di governo e passare all’opposizione, una mossa obbligata in vista delle elezioni politiche del prossimo ottobre. Da questa posizione privilegiata, il leader della SBBBiH potrà cercare di accrescere la propria popolarità attaccando i partiti al governo, accusandoli dei fallimenti della legislatura attuale e tentando di rubare voti all’SDA di Bakir Izetbegović, presentandosi come la migliore alternativa al partito di riferimento storico per i bosgnacchi (bosniaco musulmani) della Bosnia Erzegovina.
Da questo punto di vista, l’SBBBiH è il partito che ha cercato di capitalizzare maggiormente la mobilitazione delle scorse settimane. Fin da subito, Radončić ha infatti tentato di trarre profitto dalle proteste, presentandosi come l’interlocutore più conciliante nei confronti delle istanze della folla. Mentre la Presidenza bruciava, egli era stato l’unico ad apparire in televisione dichiarando che sì, la violenza andava condannata, ma che “mentre tutti denunciano gli atti di vandalismo, dovremmo anche chiederci quali sono le loro cause: i ragazzini che bruciano i palazzi del governo sono i figli di genitori che non riescono a guadagnarsi il pane da più di dieci anni”. Ora, libero dalla responsabilità di essere parte della maggioranza, Radončić può giocare con accresciuto vigore la carta dell’uomo nuovo, che si erge a interprete del malessere della cittadinanza, rinnovando i propri attacchi contro l’SDA. E puntando, presumibilmente, al posto di membro bosgnacco della Presidenza del paese.
"Izetbegović non ha nessuna possibilità di vittoria nelle prossime elezioni", ha dichiarato infatti Radončić al croato Večernji List, poco dopo essere stato sostituito. "Ha promesso ai cittadini una politica che non ha saputo portare avanti. Ha favorito la divisione dei bosgnacchi e ha rovinato l’SDA. Ora è sufficiente farsi una birra per finire nella ‘lista nera’ del partito", ha accusato. E, ritornando sulle violenze del 7 febbraio scorso: "Certo che le condanno", ha ribadito, "ma io – in quanto membro dell’opposizione – ho una diagnosi ben precisa al proposito: il rogo della Presidenza è il rogo simbolico dell’era Izetbegović in quanto rappresentante dei bosgnacchi, che ora cercano un nuovo nome che sia capace di trainarli fuori da questa catastrofe economica e politica". Il guanto di sfida, insomma, è lanciato. La campagna elettorale è già aperta, quanto meno sul fronte bosgnacco.
Accuse di terrorismo per i manifestanti
Ma il nome dell’ormai ex ministro della sicurezza non è l’unico a traballare: sulla graticola potrebbe finire presto anche Goran Zubac, il capo dei servizi di sicurezza, la SIPA, già duramente criticato all’epoca del caso Mehmedović per il suo modo molto personalista di gestire l’apparato di sicurezza della Bosnia Erzegovina. Zubac è attualmente oggetto di un’inchiesta, da parte della procura bosniaca, che è chiamata a fare luce sui motivi per cui, il 7 febbraio scorso, egli si è rifiutato di schierare la polizia speciale a protezione della Presidenza. L’accusa è di negligenza grave nello svolgimento delle proprie funzioni.
Oltre a Zubac, altri cittadini bosniaci sono chiamati – per ora – a rispondere degli avvenimenti del 7 febbraio scorso di fronte alla giustizia. La polizia bosniaca, nel corso delle prime settimane di marzo, ha infatti arrestato un totale di sette persone, tutte di Sarajevo, le quali sarebbero coinvolte a vario titolo nel rogo che ha distrutto la Presidenza. Per loro l’accusa, pesantissima, è di terrorismo, dovendo rispondere del reato di "attacco all’ordine costituzionale", previsto dall’articolo 156 del Codice penale bosniaco.
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