Bosnia Erzegovina: disinformazione e portali anonimi
In Bosnia Erzegovina sono migliaia i portali anonimi che inquinano il web, seminando disinformazione. Difficile individuare soluzioni, se non quella di alfabetizzare il più possibile ai nuovi media. Un commento
In tema di disinformazione nei Balcani occidentali, negli ultimi anni in Bosnia Erzegovina si è verificato un fenomeno particolare. A differenza dei paesi vicini, dove dominano bot e troll, in Bosnia vi è un picco di portali anonimi che producono e diffondono false narrazioni. Il numero di portali anonimi, o siti web senza un chiaro proprietario o senza una redazione visibile e senza informazioni di contatto, è stimato in migliaia: una cifra sproporzionata per un paese di 3,5 milioni di abitanti. La natura degli articoli su questi siti, che vanno dalle manipolazioni politiche alle teorie del complotto, mostra chiaramente che è in atto una tendenza pericolosa.
C’è poco che si possa fare per rallentare la loro crescita e influenza. A differenza di bot e troll sui social network, che possono essere facilmente rimossi (come è avvenuto ad aprile, quando Twitter ha rimosso più di 8.000 account falsi che presumibilmente agivano a favore del partito SNS della Serbia), i siti web sono molto più difficili da rimuovere del tutto da Internet. Dimostrare ad un particolare server di hosting che il contenuto distribuito da qualcuno sui siti ospitati sia contrario alla sua politica è di per sé un processo da incubo: quindi esempi come Antimigrant.ba, un sito che diffonde razzismo e odio verso le persone migranti in Bosnia, e la sua rimozione da Internet, sono pochi e rari. Persino Antimigrant.ba è stato alla fine sbloccato ed è ancora operativo, a dimostrazione che i portali anonimi sono uno dei canali più resilienti per diffondere disinformazione.
Un altro elemento su cui questi siti hanno puntato fin dall’inizio è il fatto che i social network come Facebook non disponevano di un sistema di allarme o di un modo per verificare i contenuti diffusi da questi portali anonimi, criticità che ora dovrebbe essere alleviata dato che Facebook ha annunciato che implementerà un programma di questo tipo anche in Bosnia, insieme all’AFP e al portale locale di debunking Raskrinkavanje. Rimane da vedere se tutto questo si dimostrerà efficace, poiché la disinformazione generata da portali anonimi può trovare altri canali come i gruppi Viber, particolarmente apprezzati dai cittadini più anziani, poco abituati a verificare i fatti e meno critici nei confronti delle informazioni trovate online.
I portali anonimi aggirano anche l’autoregolamentazione, unico mezzo rimasto per garantire che l’informazione online rimanga reale e obiettiva. I media online rientrano nella supervisione del Consiglio della stampa e dei media online (VŠZ), un organismo non governativo che garantisce l’attuazione del Codice sulla stampa e sui media online della Bosnia Erzegovina e che funge da ponte tra i cittadini e gli organi di stampa stessi su qualsiasi questione riguardante la veridicità dei contenuti pubblicati. Tuttavia, il punto critico dell’autoregolamentazione sta, appunto, nell’"auto": il Consiglio della stampa non ha mezzi legali per costringere un qualsiasi portale a ritirare o correggere informazioni false, cosa infinitamente più difficile se detto portale è di proprietà e gestione anonima, confinando così il Consiglio, nel migliore dei casi, ad un ruolo semi-consultivo.
Una rete di disinformazione come questa su larga scala va a ulteriore scapito del già fragile panorama mediatico del paese, dove le redazioni – a corto di fondi, personale e formazione – tendono a sostenere, più o meno apertamente, una parte politica. La disinformazione penetra anche nei media tradizionali, poiché i giornalisti, a corto di tempo o alla ricerca di storie sexy, non controllano le loro fonti. Sebbene esistano un paio di portali watchdog come il già citato Raskrinkavanje, poche persone li conoscono e si fidano di loro. Tutto ciò solleva la questione di cosa si possa fare per fermare il diluvio della disinformazione.
Per quanto la risposta più logica sarebbe quella di togliere l’"auto" dalla regolamentazione, anche questo è un territorio pericoloso. Pensare ad esempio ad un’agenzia statale come la RAK, che regolamenta strettamente i media elettronici tradizionali come radio e TV, sarebbe ugualmente a rischio di manipolazione politica se la sua direzione venisse eletta, ad esempio, da una commissione parlamentare. Anche un’eventuale legislazione che richieda la registrazione obbligatoria di ogni singolo portale, o la possibilità di ricorrere legalmente contro i contenuti pubblicati, rappresenta un sentiero scivoloso. Lo si può vedere in Albania, dove nel dicembre 2019 il governo ha approvato due leggi che sostanzialmente pongono i portali online sotto il controllo dello stato.
Le leggi, opera del Partito socialista albanese del primo ministro Edi Rama, puniscono qualsiasi presunta violazione dell’"interesse del paese" o della "pubblica sicurezza" con una multa fino a 830.000 euro e il blocco della testata: il tutto senza processo. Ininfluenti sono state le contestazioni da parte di numerose associazioni internazionali come il Centro europeo per la libertà di stampa e dei media – ECPMF, la Federazione europea dei giornalisti e Reporter senza frontiere. Allo stesso tempo, questo è un esempio lampante di ciò che accade quando il contrasto alla disinformazione diventa uno spazio di strumentalizzazione politica. Invece di proteggere cittadini e professionisti dei media, a farsi ancora più radicato è il potere delle élite al governo.
Esiste quindi una soluzione percorribile? Un’opzione potrebbe essere la creazione di un organismo indipendente composto da giornalisti, esponenti della società civile, professionisti della sicurezza e altri che sarebbero in grado di relazionarsi con i servizi di hosting e le autorità straniere e richiedere la rimozione di ogni portale anonimo coinvolto in attività di disinformazione. Un altro approccio, molto più a lungo termine, richiederebbe uno sforzo organico del sistema educativo in favore dell’alfabetizzazione ai media e del pensiero critico. Tuttavia, entrambe queste idee potrebbero sembrare troppo radicali in un sistema rigido, chiuso all’innovazione. Più probabilmente, purtroppo, si andrà avanti così, poiché i portali anonimi continuano a dare i loro frutti.
Aleksandar Brezar è un giornalista attualmente a capo della rete Southeast Europe/Western Balkans presso Democratic Society e co-conduttore di Sarajevo Calling, un podcast sugli affari del sud-est europeo, incentrato in particolare sulla politica contemporanea dei Balcani occidentali. Questo articolo è stato scritto nell’ambito del programma regionale “Western Balkans: Understanding and Preventing Anti-Western Influence”, implementato dall’International Republican Institute di Sarajevo.
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