Bosnia Erzegovina, 25 anni dopo Dayton: il triplice dilemma
Se diagnosticare i numerosi sintomi nel loro insieme appare semplice, individuare l’origine primaria della stagnazione post-Dayton e avanzare la soluzione corrispondente non lo è affatto. Cosa, oggi in Bosnia Erzegovina, non funziona e perché?
(Quest’articolo è stato pubblicato in anteprima su Europea )
A 25 anni dagli accordi di Dayton che posero fine al conflitto in Bosnia Erzegovina, nelle analisi e nei dibattiti di queste settimane ricorrono le stesse parole di circostanza che aprivano le commemorazioni di cinque, dieci, quindici anni fa: un buon accordo per fermare la guerra, ma non per gestire la pace e costruire uno stato. La distanza temporale e l’ampia documentazione disponibile permettono ormai di storicizzare gli eventi che presero forma tra la base militare della cittadina dell’Ohio nel novembre 1995 e la ratifica a Parigi il 14 dicembre successivo. Ma il bilancio degli accordi è indistinguibile dal processo che ne è scaturito, le cui conseguenze continuano a pesare sul presente.
La Costituzione che componeva l’Allegato 4 dell’Accordo quadro generale resta in vigore, e con essa il proprio carico di disfunzionalità e diritti di cittadinanza limitati. L’ultimo serio tentativo di modifica costituzionale risale al 2009, ma è nel 2006 che si andò davvero vicini alla prima riforma: i cosiddetti “Pacchetti di Aprile”, sponsorizzati dalla diplomazia statunitense, prevedevano un’armonizzazione delle competenze tra il debolissimo stato centrale e le due entità, la Federazione di BiH e la Republika Srpska. Ma per l’intransigenza di alcuni partiti nazionalisti minori quel tentativo di riforma sfumò nel voto parlamentare.
Il tempo perduto, lo stato catturato
Visti in retrospettiva, gli anni 2010 rappresentano un’epoca perduta per la transizione verso un modello di stato più funzionale e democratico. L’onda lunga della crisi internazionale del 2008 ha aggravato le condizioni economiche del paese, esacerbando la polarizzazione sociale tra una popolazione sempre più impoverita e l’eterogenea classe di quelli che Asim Mujkić definisce “imprenditori etno-politici” , coloro i quali hanno accesso alle risorse di potere istituzionale. Nonostante diverse proteste sociali si siano susseguite nel corso degli anni – anche con punte di radicalità -, chi ha beneficiato di questo scontro sono proprio i tre principali partiti nazionalisti-conservatori corrispondenti ai tre popoli costituenti (SDA, bosgnacchi; SNSD, serbi; HDZ, croati). La loro egemonia si è consolidata fino ad oggi, cementando consenso e fedeltà grazie a meccanismi clientelari e di (sub-)state capture, e bloccando ogni cambiamento che potesse minacciare il loro controllo sugli apparati istituzionali e la loro rendita di posizione elettorale, servendosi dei generosi poteri di veto offerti dalla Costituzione.
A questo rafforzamento hanno contribuito due fattori. Il primo è la minore capacità di iniziativa degli attori della comunità internazionale – in primis USA, l’Alto Rappresentante (OHR), il Peace Implementation Council (PIC), il Rappresentante Speciale UE, ecc. – che tuttavia hanno mantenuto una presenza visibile nel paese. Questo ha generato in certi settori della popolazione la percezione che la comunità internazionale, invece di stimolare cambiamenti costruttivi, stia puntellando le autocrazie locali. Il secondo fattore è il deterioramento dei rapporti macro-regionali, dopo gli illusori effetti benefici delle transizioni degli anni 2000. Soprattutto con la presidenza Vučić in Serbia e quella di Grabar-Kitarović in Croazia, Zagabria e Belgrado sono tornate a incitare i “propri” nazionalismi centrifughi di riferimento, proprio mentre quello centripeto bosgnacco trovava rinnovato supporto ideologico e materiale da Ankara.
Triplice dilemma
Se diagnosticare i numerosi sintomi nel loro insieme appare semplice, individuare l’origine primaria della stagnazione post-Dayton e avanzare la soluzione corrispondente non lo è affatto, in un contesto dove risorse ed energie disponibili per un cambiamento sembrano diminuire costantemente. Qual è il problema principale? La costituzione stessa, che con le sue disfunzionalità strutturali (etno-crazia) va modificata a ogni costo, anche quello di reimbarcare comunità internazionale e leadership nazionaliste in un processo lungo e logorante? Oppure è l’élite politica corrente, dispotica e corrotta (auto-crazia) da sostituire accelerando un’alternanza, di qualunque tipo essa sia? O invece è il gioco di sponda tra politici locali e attori internazionali (stabilo-crazia) che va risolto? Ma a vantaggio e danno di quale delle due parti, con quali incentivi, e con quale legittimità?
Nessuna delle forze coinvolte appare sufficientemente determinata o con le idee chiare per risolvere questo triplice dilemma. Non lo è nemmeno la variegata società civile locale, che appare stanca e disillusa dai cambiamenti istituzionali, ma è affamata di bisogni materiali ed è attenta a tematiche troppo a lungo tralasciate: giustizia sociale, ambiente, diritti civili, (freno all’)emigrazione.
Adesione UE, pochi progressi
Nel frattempo il processo di adesione UE del paese, candidato potenziale dal 2016, avanza a ritmi lenti. Il progress report della Commissione pubblicato lo scorso ottobre presenta un giudizio poco incoraggiante, avendo riscontrato progressi scarsi o nulli negli ambiti chiave: riforma del sistema giudiziario, lotta alla corruzione e al crimine organizzato, de-politicizzazione e professionalizzazione della pubblica amministrazione, riforma dei sistemi elettorali nei vari livelli. In quest’ultimo campo, si segnalano positivamente gli accordi che permetteranno, dopo 12 anni di stallo, lo svolgimento delle elezioni municipali a Mostar – si terranno il 20 dicembre -. Resta però la mancata implementazione di tutte le sentenze CEDU – ormai sono cinque, dalla Sejdić-Finci del 2009 alla Pudarić emessa appena lo scorso 8 dicembre – che hanno sancito il carattere discriminatorio della costituzione uscita da Dayton.
Le sentenze, ricordiamo, hanno riscontrato l’impossibilità di candidarsi per la Presidenza o per la Camera Alta del paese per i cittadini non appartenenti ai tre popoli costituenti – in quanto non-dichiarati oppure membri delle minoranze nazionali – ma anche per coloro che, pur appartenendo ai popoli costituenti, risiedono nell’entità in cui non è riconosciuta l’eleggibilità al proprio gruppo etnico – come nel caso di Pudarić, serbo residente nella Federazione di BiH, nella quale sono eletti solo i candidati bosgnacchi e croati delle suddette istituzioni statali -. Sebbene nel 2015 l’UE abbia rinviato la condizionalità sul caso Sejdić-Finci e affini, il nodo resta ben visibile all’orizzonte, e va risolto in vista di un’eventuale concessione dello status di candidato. Eppure la questione è scomparsa del tutto dall’agenda pubblica del paese.
Situazione fluida
Se quello appena chiuso è il decennio perduto, quello nuovo si apre con una situazione che si è fatta improvvisamente fluida, e che potrebbe persino aprire un’inedita finestra di opportunità per cambiamenti futuri. Le elezioni municipali dello scorso novembre hanno segnato un’inattesa battuta d’arresto dei tre partiti nazionalisti dominanti, che hanno perso posizioni importanti (tra cui i sindaci delle due principali città, Sarajevo e Banja Luka) a beneficio di forze civiche o partiti nazionalisti moderati. La percezione di malagestione sanitaria durante l’emergenza COVID ha incoraggiato un voto-sanzione contro le forze al potere come non si vedeva da anni. Molti ritengono ora credibile la possibilità di un’alternanza nelle elezioni politiche nel 2022, anche se vari fattori invitano alla cautela. La pandemia ha alterato campagna elettorale e affluenza, con le relative attività di cattura dei voti, che potrebbero tornare operative tra due anni. La sproporzione tra potere locale e aspettative di cambiamento rischia, come già successo in passato, di logorare le forze di opposizione o di spingerle ad adottare a loro volta agende etno-nazionaliste.
Qualche attesa emerge dal nuovo quadro internazionale. La vittoria di Joe Biden, noto per il suo legame ideale ed emotivo con la causa della Bosnia Erzegovina dai tempi del conflitto, ha rinfocolato le aspettative di un impegno USA a favore di una riforma costituzionale e di un approccio concertato con l’UE nei Balcani occidentali, dopo le pesanti frizioni dell’era Trump-Grenell. Ma restano dubbi che il nuovo corso di Washington si assuma rischi e costi di una tale iniziativa, che riporterebbe ai tempi di Clinton più che a quelli di Obama.
La confluenza tra mutati scenari interni e internazionali sta già producendo qualche piccola ma non trascurabile conseguenza. Lo scorso 10 dicembre Milan Tegeltija, il presidente del Consiglio Giudiziario Superiore (VSTV) ha annunciato le proprie dimissioni per un episodio di sospetta corruzione. Il VSTV è l’organo di autogoverno giudiziario in cui i rapporti della Commissione UE avevano ripetutamente riscontrato ingerenze politiche, mancata trasparenza e integrità, nominando lo stesso presidente, e individuandone il punto in assoluto più problematico nel deficit di stato di diritto del paese. Tegeltija, uomo di fiducia del leader SNSD e rappresentante serbo alla presidenza Milorad Dodik, è stato spinto dalla pressione pubblica e della comunità internazionale alle dimissioni, a cui potrebbero seguirne altre. Ma ha influito anche l’improvvisa vulnerabilità politica dello stesso Dodik, che dopo quindici anni di strapotere nella Republika Srpska e condizionamenti sull’intero sistema politico-istituzionale del paese, sembra avere accusato il colpo della sconfitta elettorale. Potrebbe anche essere l’inizio di un effetto domino, ma le tessere sembrano tante e distanti tra loro. E soprattutto, mancano idee e accordi per costruire qualcosa di nuovo.
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