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Borislav Pekić, uno dei Nobel mancanti

L’opera oceanica dello scrittore serbo e jugoslavo Borislav Pekić (1930-1992), tra i fondatori del Partito Democratico nel 1990, rivela ancor oggi nuovi tesori, grazie all’opera della Fondazione di Belgrado a lui dedicata

07/01/2014, Božidar Stanišić -

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Il ventennio della Fondazione “Borislav Pekić” di Belgrado, istituzione dedicata alla cura e pubblicazione dell’enorme eredità letteraria dello scrittore scomparso nel 1992, è un’occasione per ricordare Pekić, uno dei maggiori narratori, saggisti, drammaturghi e sceneggiatori serbi e jugoslavi.

Tempo fa, nella mia relazione ad una conferenza sulle opere di Danilo Kiš, provando a spiegare il perché delle dediche contenute ne “Una tomba per Boris Davidovič”, nominai anche Borislav Pekić. A lui Kiš dedicò il capitolo “La scrofa che divora la propria prole”, che tratta del destino di Gould Verskols, rivoluzionario irlandese che, dopo un tentativo di fuga dal lager stalinista di Karaganda, fu assassinato dai suoi persecutori in modo terribile. Qualcuno dei presenti mi chiese chi era Pekić. Risposi che serviva un’altra conferenza. Dire di Pekić: “E’ stato uno scrittore”, mi sembrava banale. Ripensai al ricordo che Pekić aveva lasciato dello stesso Kiš: “Negli ultimi momenti della sua vita, quelli che sono visibili per i viventi, un amico fedele chiese a Danilo se c’era qualche cosa che gli facesse dolore. Sì, aveva risposto. Che cosa? La vita, rispose Danilo.”

La vita e le opere

Borislav Pekić, 1964 (Wikipedia)

Borislav Pekić, 1964 (Wikipedia)

Ad eccezione di due romanzi (“Come placare il vampiro”, De Martinis, Messina, 1992 e “Il tempo dei miracoli”, Fanucci, Roma, 2004, entrambi tradotti da Alice Parmeggiani) per i lettori italiani la sua vasta opera narrativa, saggistica e teatrale è ancora sconosciuta. L’opera omnia di Pekić, in realtà, è un oceano. Da quest’oceano ancora emergono migliaia di pagine non pubblicate. Questo è il compito più importante della Fondazione voluta dallo scrittore nel tramonto della sua vita. In questi due decenni, il compito è stato portato avanti innanzitutto dalla moglie Ljiljana.

Pekić (Podgorica, 1930 – Londra, 1992), quando era studente al Terzo liceo di Belgrado, nel 1948, venne privato dei diritti civili e condannato a 15 anni di carcere e lavori forzati in quanto membro della vietata Lega della gioventù democratica. Passò il periodo della condanna, che più tardi venne ridotta a 5 anni, nelle prigioni di Niš e Sremska Mitrovica. Dopo gli studi di psicologia sperimentale a Belgrado, dal 1959 si dedicò a lavorare per cinema. Ottenne il primo successo con la sceneggiatura del film “Il giorno quattordicesimo” (regia di Zdravko Velimirović) che rappresentò la cinematografia jugoslava al Festival di Cannes. Dalla pubblicazione del suo primo romanzo “Il tempo dei miracoli” (1965), Pekić, per cui la scrittura era vita e la vita era scrittura, si dedicò solo alla prosa, ai testi teatrali e cinematografici. Per il secondo romanzo “Il pellegrinaggio di Arsenije Njegovan” (1970) ottenne il “Premio NIN” dell’omonima rivista belgradese, il cui elenco dei premiati contiene i nomi dei romanzieri più importanti della letteratura jugoslava del secondo dopoguerra. Nello stesso anno chiese alle autorità di raggiungere la moglie Ljiljana e la figlia Aleksandra a Londra. In un primo momento gli sequestrarono il passaporto ma, un anno più tardi, gli consentirono di emigrare a Londra.

Già nei primi anni dell’esilio incominciò la nascita dell’oceano Pekić: “L’ascesa e la caduta di Icaro Gubelkian” (romanzo pubblicato nel 1975, dopo quattro anni di silenzio forzato su Pekić); “Come placare il vampiro” (romanzo-resoconto sui totalitarismi, pubblicato solo perché a Belgrado arrivò come testo di partecipazione ad un concorso anonimo del 1977 dedicato a Danilo Kiš); la saga “La difesa e gli ultimi giorni” (1977); “Il vello d’oro”, la fantasmagoria romanzesca che racconta i pellegrinaggi infiniti della famiglia Njegovan, la storia serba e quella dei Balcani, in sette volumi (1978-86), paragonata all’“Ulisse” di Joyce, a “I Buddenbrook” di Mann e a “Punto contro punto” di Huxley.

Negli anni ottanta, infine, scrisse i romanzi “L’Atlantide” e “1999”, presentando una visione del futuro dell’umanità; il fantastico romanzo “Rabbia” diventò infine un best seller.

Scriveva inoltre di continuo testi radiofonici per le emittenti tedesche, spesso adattati in testi teatrali. Nella Jugoslavia degli anni ottanta, già colpita dalla crisi, le sue “Lettere dall’estero” arrivarono come la voce della ragione e “Gli anni mangiati dalle cavallette”, una prosa autobiografica, fece luce anche sui tempi bui del dopoguerra. L’interesse del pubblico fu risvegliato anche dal film “Il tempo dei miracoli” (1989), basato sul suo omonimo romanzo (regia di Goran Paskaljević, con Miki Manojlović).

Al ritorno a Belgrado, nel 1990, fondò il Partito democratico e la rivista “Democrazia” con un gruppo di intellettuali indipendenti.

Pekić nei ricordi

Una volta lo scrittore raccontò che, insieme ad altre cose, la ragione della sua fuga da Belgrado erano anche le “kafane”, nelle quali “la letteratura serba si ubriaca e muore”, e perché sua moglie Ljiljana, l’architetta, a Londra poteva guadagnare anche per lui. “Lei accettò la mia proposta credendo in una mia missione, e questo anche oggi mi sembra una cosa incredibile”, disse lo scrittore in un’intervista. E quella “missione incredibile” di Ljiljana Pekić si è prorogata dopo la scomparsa del marito. Pekić letteralmente risorge con ogni nuova pagina da lei redatta o ascoltata (lo scrittore non si staccava mai dal suo audio-registratore).

“A Pekić mancava sempre tempo”, disse Ljiljana in una delle sue interviste. “Di solito scriveva durante la mattina, guardava poco la televisione, leggeva e lavorava sempre contemporaneamente su più cose. A Londra avevamo un grande giardino e lui, quando non gli andava bene la scrittura, andava là, toglieva le erbacce o curava i fiori, ma sempre con l’audio-registratore appeso al collo. Quando si avvicinava alla fine di un suo libro, lavorava come un pazzo. Si alzava alle cinque e andava a letto a mezzanotte. Penso che sognasse interi racconti e drammi. Mentre scriveva “Il vello d’oro”, la sua opera capitale, leggeva i libri più incredibili, noiosi, frettolosamente notando i dati a lui necessari. Immaginate uno che legge la legge finanziaria serba per l’anno 1820?”

Lo scrittore Filip David, ricordando l’amico, scrisse: “Come redattore del programma di drammi televisivi della TV di Belgrado, negli anni settanta andavo spesso a Londra. Bora Pekić non mi permetteva di alloggiare negli alberghi. Durante quelle giornate ero ospite della sua cara e generosa famiglia… Appena arrivato, raccontavo a Pekić della vita a Belgrado, specialmente dei nostri amici comuni Kiš, Mirko Kovač, Glavurtić… Lui, semplicemente, non sapeva scendere sotto un alto livello professionale. Tutto ciò che faceva si trasformava in vero oro letterario.”

Anni fa un noto editore americano richiese a Pekić un romanzo. Doveva trattarsi di una tematica allora di moda, la catastrofe. Pekić scelse di scrivere di un’ipotetica epidemia di rabbia nell’aeroporto londinese di Heathrow. Gli mancava però la topografia dettagliata della struttura aeroportuale. Andava là, disegnava, notava le cose per lui necessarie. Non passò inosservato alle guardie della sicurezza. Spiegare agli agenti i motivi delle sue visite non era un’impresa facile, ma Pekić ci riuscì e addirittura gli regalarono una mappa dettagliata dell’aeroporto. Lo scrittore era felice come un bambino.

Il romanzo “La rabbia” non è mai stato pubblicato in America. L’editore rifiutò quell’opera, il cui numero di pagine oltrepassava quello previsto. Ma Pekić non voleva fare concessioni a nessuno.

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