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Boris Pahor, il figlio di Trieste

Oggi, 26 agosto, lo scrittore Boris Pahor compie 100 anni. Per questa occasione, pochi giorni fa, il sindaco di Trieste gli ha consegnato la civica benemerenza. Una città, una minoranza, una nazione. Un approfondimento di Stefano Lusa

26/08/2013, Stefano Lusa - Capodistria

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Boris Pahor viene ancora percepito come un bardo della slovenità, uno che al di là della qualità letteraria delle sue opere, è riuscito a portare la Slovenia, le sofferenze ed i traumi di un popolo, sulla scena internazionale. Oggi è lo scrittore sloveno più tradotto e più celebre all’estero. Attualmente è addirittura più conosciuto, al grande pubblico, del poeta romantico France Prešeren, considerato la pietra miliare della letteratura slovena moderna.

Di Pahor, in patria, sino agli anni Novanta si sapeva poco o nulla e le sue opere non sembravano dover entrare nelle antologie della letteratura slovena. Lui, del resto, negli anni Settanta era stato bandito dalla Jugoslavia socialista. Assieme ad Alojz Rebula, un altro romanziere della minoranza slovena in Italia, ebbe l’ardire di pubblicare a Trieste una lunga intervista con lo scrittore Edvard Kocbek, esponete di spicco della resistenza slovena d’impronta cattolica. Kocbek, che nell’immediato dopoguerra aveva ricoperto incarichi di prestigio, ma senza effettivo potere, nelle strutture del regime comunista. Parlò per la prima volta dello sbrigativo e sanguinoso massacro dei collaborazionisti, che alla fine del conflitto caddero nelle mani delle truppe jugoslave. Fu un vero e proprio scandalo e uno sgarro che non venne perdonato ai due scrittori giuliani.

Dovettero passare parecchi anni per far uscire dall’anonimato, quello che sembrava essere null’altro che uno schivo professore d’Italiano di un liceo sloveno di Trieste. I primi riconoscimenti gli vennero dalla Francia, grazie all’impegno del filosofo Evgen Bavčar, poi la consacrazione in Italia, avvenuta con la partecipazione a “Che tempo che fa”, il celebre programma televisivo di Fabio Fazio.

Pahor, agli occhi del pubblico di Rai 3, non poteva che apparire come un bizzarro personaggio: un cittadino italiano, sopravvissuto ai campi di sterminio, che scrive in sloveno e che parla di antifascismo e delle sofferenze che al suo popolo hanno inflitto gli italiani.

Gli sloveni percepirono quei pochi minuti passati in prime time televisivo, su una rete nazionale, come un vero e proprio trionfo. Finalmente qualcuno diceva al grande pubblico quello che buona parte degli sloveni avrebbe da sempre sognato di dire in faccia agli italiani.

Boris Pahor eroe nazionale sloveno

Pahor, a quel punto, era diventato un eroe nazionale, una nuova icona del panorama culturale e politico del paese. Per lui, molti anche senza averlo letto, cominciarono addirittura a sognare il Nobel per la letteratura. Non mancarono di fioccare inviti di ogni sorta che lo videro negli anni fare l’ospite d’onore in raffinate manifestazioni culturali e persino nelle sagre paesane. Era diventato la voce critica di un paese in cui non aveva mai vissuto e su cui aveva molto da dire. Quello che sembrava tormentarlo era l’assenza di patriottismo degli sloveni.

Per Pahor era inconcepibile che gli sloveni vendessero agli italiani sul Carso terreni e case, che alle elezioni amministrative a Pirano avesse vinto un immigrato ganese e che non si dimostrasse sufficiente decisione nel rivendicare l’appartenenza alla Slovenia della penisola di Salvore, che era stata a suo tempo parte del comune catastale di Pirano.

Le parole del grande vecchio non cambiarono le cose, ma vennero per lo più ascoltate con rispetto. I suoi inviti a puntare maggiormente sul patriottismo, comunque, sembrano essere stati raccolti dal nuovo capo dello stato Borut Pahor.

Per far partire le prime, timide, critiche allo scrittore triestino s’è dovuto attendere che si buttasse nell’agone politico, spezzando audacemente qualche lancia a favore del carismatico leader del centrodestra, Janez Janša. Nonostante ciò, per molti, anche nel centrosinistra, rimane “un grande europeo”. Un uomo che si è battuto per i diritti della sua minoranza in Italia e che ha saputo contrapporsi al fascismo, al nazismo ed al comunismo.

Sicuramente Pahor rimane un uomo del suo tempo ed un prodotto della sua città: Trieste. Un personaggio nato 100 anni fa, nel pieno delle temperie nazionaliste che coinvolsero il confine orientale. Tutto, nella sua riflessione, sembra ruotare attorno all’incendio del Narodni Dom, l’elegante edificio progettato dall’architetto Max Fabiani, eretto a simbolo della presenza “slava” nel capoluogo giuliano. Quel rogo segnò simbolicamente l’avvio del programma fascista di “bonifica etnica” che avrebbe voluto rapidamente cancellare la presenza slovena e croata dal allora Regno d’Italia.

L’identità nazionale

Nella riflessione di Pahor traspare la costante paura che l’identità nazionale slovena possa andare perduta, che gli sloveni possano scegliere di diventare qualcos’altro. L’idea che la slovenità possa sciogliersi, per convenienza o sotto le pressioni esterne, in ogni modo, sembra essere una costante tra gli intellettuali sloveni. La nazione, sin dall’Ottocento si sentiva come un vaso di coccio compresso tra i due grandi vasi di ferro del nazionalismo tedesco ed italiano. Poi, ai tempi della Jugoslavia, la repubblica si sentì minacciata dallo jugoslavismo integrale, che non sarebbe dispiaciuto a Belgrado.

Al di là di tutto, però, secondo alcuni, Pahor in questi anni è servito alla Slovenia. La sua ingombrante presenza avrebbe infatti rotto il predominio culturale “lubianocentrico”, che si era sviluppato negli ultimi decenni. La sua figura, convinta che l’Italia non avesse ancora fatto i conti con il periodo fascista e non avesse riparato i torti subiti dagli sloveni, è servita a spostare il baricentro della riflessione nazionale dal centro alla periferia e a far ridiventare Trieste nuovamente una delle capitali morali dell’intellighenzia slovena contribuendo a riformare l’idea dell’esistenza di uno “spazio culturale unitario” che oltre al territorio nazionale si estende anche nelle aeree in cui vivono le minoranze slovene.

Sarà il tempo a dire se Pahor, con quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro, Necropoli, in cui descrive la tragica esperienza di internato nei campi di concentramento, entrerà a far parte dei grandi della letteratura slovena, o se su di essa lascerà maggior segno l’elegante prosa di Drago Jančar o gli scritti che esaltano il meticciato balcanico in salsa slovena dell’irriverente Goran Vojnović.

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