Bombe e non riforme
Il governo di Ankara allineato sulle posizioni dei militari. 10.000 i soldati impegnati nell’operazione militare nel nord Iraq, con l’obiettivo di combattere le basi del PKK. Poche le voci che osano mettere in discussione la legittimità dell’operazione militare
E’ ormai arrivato a 261 il bilancio delle vittime provocate dall’operazione "Sole" che ha portato diecimila soldati di Ankara tra le basi del PKK, sulle montagne del Nord Iraq.
L’operazione, secondo quanto ripetono da giorni i rappresentanti del governo, ha come obbiettivo "solo quello di ripulire la regione dalla presenza del PKK" e non mira a "creare una presenza stabile nella regione o ad interferire negli affari interni iracheni".
Ad una settimana dall’inizio dei combattimenti però, nonostante le rassicurazioni turche, si fanno sempre più frequenti i segnali di impazienza. Gli Stati Uniti, che dal novembre scorso in Iraq offrono un determinante apporto logistico all’esercito di Ankara, mostrano di essere preoccupati per il protrarsi delle operazioni. Il ministro della Difesa Robert Gates, ieri in visita ad Ankara, ha chiesto alla Turchia di abbandonare la regione "il prima possibile". Una richiesta alla quale ha risposto sibillinamente il capo di stato maggiore Gen. Byukanit: "Breve periodo è un concetto relativo, può significare un giorno oppure un anno".
Il governo di Bagdad, che inizialmente aveva definito i combattimenti "un affare tra l’esercito turco ed il PKK", mercoledì ha invece condannato l’operazione militare. A determinare il cambio di rotta, decisive sono state le pressioni provenienti dalle autorità curdo-irachene, che si sentono minacciate dalla presenza dei soldati turchi e traditi dall’alleato americano, accusato di aver stretto un patto con Ankara.
Sul fronte dell’Unione Europea invece, dopo le prime dichiarazioni nelle quali si raccomandava "un uso non spropositato della forza", non si registrano altre reazioni.
In Turchia l’operazione militare ha riportato di nuovo un clima di mobilitazione generale. "Duro colpo al PKK", "Siamo entrati in Iraq", "Diritti a Kandil", i titoli dei giornali accompagnati dal quotidiano e macabro aggiornamento del bilancio delle vittime. Il tutto condito da fotografie patinate che ritraggono tra le nevi irachene soldati "dal morale saldo e decisi a portare a termine il loro compito" e dotati di un equipaggiamento di ultima generazione.
Immagini ed informazioni di una guerra lontana, tutte rigorosamente fornite dallo Stato maggiore, essendo di fatto impossibile per i giornalisti raggiungere la zona delle operazioni. Sono solo le fotografie dei militari caduti, "martiri", e le immagini dei loro funerali nei quattro angoli del paese, a ricordare alla gente la brutale realtà della guerra.
Poche le voci che osano mettere in discussione la legittimità dell’operazione militare.
Il partito curdo DTP, dietro lo slogan "Erdogan assassino!" ha portato in piazza a Diyarbakir diecimila persone disperse dai lacrimogeni della polizia. L’ordine degli avvocati del Sud-Est del paese ha chiesto la fine della guerra. I soliti intellettuali dalle pagine dei soliti giornali chiedono che "dal linguaggio della violenza si passi a quello della pace" ammonendo sul rischio di vedere allontanarsi una soluzione per la questione curda.
Di fronte ad un conformismo che ribadisce ossessivamente "l’indivisibilità del paese" e che porta i parenti dei militari caduti a mascherare il dolore dietro il grido "lunga vita alla patria", ha fatto clamore il gesto della cantante Bulent Ersoy, un simbolo per i travestiti turchi ed un’icona della cultura popolare.
Nel corso di una trasmissione televisiva Ersoy, dopo il minuto di silenzio in onore dei militari caduti, ha gelato lo studio con le sue parole "La patria è indivisibile, i martiri non muoiono. Sono parole, cliché. Io non vorrei che mio figlio morisse così". Il giorno successivo, nonostante la levata di scudi che gli è costata un ammonimento da parte del Consiglio Superiore per la Radio e la Televisione – RTUK – e un’indagine della magistratura, Ersoy ha ribadito il suo pensiero: "Ho solo chiesto soluzioni invece di morti. Se mi dovessero punire per aver espresso il mio pensiero, sarebbe una pagina nera per la democrazia"
Nei giorni scorsi il primo ministro Erdogan ha di nuovo promesso, dopo l’operazione militare, "importanti aperture in campo politico ed economico".
A sua volta il presidente della Repubblica Gul, poco prima dell’inizio dei combattimenti, ricevendo una delegazione di intellettuali che chiedeva iniziative concrete per la questione curda, aveva assicurato che "anche i militari sono consapevoli che il problema non si può risolvere solo con la forza".
Da tempo ormai si favoleggia su un pacchetto di iniziative che il governo avrebbe pronto per "la questione curda". Un’amnistia per la base del PKK, magari l’esilio in un paese terzo per i suoi leader, un canale della Tv di stato destinato alle trasmissioni in curdo e iniziative per rilanciare l’economia nel sud-est del paese. Ed anche relazioni costruttive con le autorità irachene. Per ora di concreto c’è solo l’invito che Gul ha rivolto al suo omologo iracheno Talebani, per una visita ad Ankara nelle prossime settimane. Il resto fluttua nel mondo delle ipotesi.
La realtà è fatta di un’operazione militare che assume sempre più le sembianze di una gigantesca caccia grossa con l’obbiettivo di raccogliere il maggior numero di "terroristi messi in condizioni di non nuocere", per usare un’altro eufemismo dei comunicati ufficiali.
In precedenza altre ventiquattro operazioni militari hanno "ripulito" il Nord Iraq, senza per questo eliminare la realtà del PKK. L’ennesima prova di forza sarà forse, come sostengono alcuni commentatori, parte della politica "prima il bastone e poi la carota". Per il momento però le conseguenze del pragmatismo di Erdogan sono bombe invece di riforme ed il rischio di mettere a repentaglio i fragili equilibri iracheni.
Il totale allineamento del governo alle posizioni dei militari non ha però nemmeno portato alla soluzione dell’altra questione sulla quale è impegnato da mesi, quella del velo nelle università.
Dopo che Gul, significativamente nelle stesse ore in cui i militari varcavano la frontiera irachena, ha posto la sua firma alla riforma costituzionale votata dal parlamento, il destino delle studentesse velate è ancora immerso nell’incertezza. La maggior parte delle università del paese infatti, questa settimana ha rifiutato loro l’ingresso nei campus. I rettori aspettano che il governo riformi anche il regolamento dello YOK, l’Istituzione per l’Istruzione Superiore.
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