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Bihać: il purgatorio alle porte dell’Ue

Al confine tra Bosnia Erzegovina e Croazia, centinaia di persone in fuga da paesi come Afganistan, Iraq, Siria, Pakistan dormono in palazzi abbandonati o per strada. Una rete solidale di associazioni locali e italiane assicura loro un minimo di sussistenza. La testimonianza di una volontaria

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La "Onlus One Bridge to Idomeni " è nata durante l’esodo di centinaia di persone dalla Turchia, attraverso la Grecia, verso il nord Europa, e dopo la firma dell’accordo Ue-Turchia che ha bloccato migliaia di persone lungo la rotta balcanica, ha organizzato missioni di volontari a Idomeni (Grecia), poi in Serbia e da giugno 2018 è attiva in Bosnia Erzegovina. Il racconto si riferisce ad una missione di inizio luglio 2018 a Bihać dove One Bridge to Idomeni collabora con la Ong italiana Ipsia e la Croce Rossa locale (Crveni križ grada Bihaća ) nel "Dom", cioè un accampamento informale nato all’interno di uno stabile diroccato messo a disposizione dalla municipalità, dove al momento (soprav)vivono 800 delle 2.500 persone migranti presenti nella cittadina.

Il film del 2005 di Woody Allen "Match point" si apre con un monologo: «Chi disse “preferisco avere fortuna che talento”, percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte, in una partita, la palla colpisce il nastro e, per un attimo, può andare oltre, o tornare indietro. Con un po’ di fortuna, va oltre. E allora si vince. Oppure no, e allora si perde.»

Penso a quelle parole mentre sono in viaggio verso Bihać, pallina tanto fortunata da poter superare la rete col sedere comodamente poggiato su un sedile e nella borsa un pezzo di carta che mi rende immune alla vera disperazione.

Questa cittadina ai margini dell’Europa è limbo e purgatorio per 3.000 anime, palline rimbalzate dalla parte sbagliata del campo. In questa strana partita che chiamiamo vita, qual è in fondo il confine invisibile che separa il mio partire ed il loro dover restare, se non un crudele gioco della sorte?

Uomini, donne e bambini attendono, contenuti ma non accolti, in uno stabile fatiscente e sovraffollato. Sopravvivono, tra mura fradice di umidità e spalancate al freddo e alla pioggia. Alcune famiglie sono in viaggio da più di 3 anni e non so quale meta potrà mai ripagarle della sofferenza di vedere i propri figli considerare questi contesti di vita disumani la loro normalità.

Vorrei che sul campo del diritto ad avere un’esistenza felice e dignitosa non ci fossero reti, non ci fossero barriere e gerarchie.

Lo vorrei per Alì.

Alì mi ha salutato dicendomi "ci vediamo in Italia". Ho risposto con un sorriso amaro alla sua ingenuità, ma la consapevolezza dell’effettiva difficoltà di realizzazione del suo progetto mi ha riempito lo stomaco, pesante come una colpa. Io vado, ma tu stai qui.

Io Alì lo vorrei rivedere sul serio, mi è piaciuto da subito. Quando ci siamo conosciuti pioveva e lui ai piedi indossava ballerine bianche, da femmina, ma non sembrava dare molto peso alla cosa. Ci osservava con i grandi occhi verdi senza parlare, un po’ intimidito. Ma gli sono bastati pochi minuti per prendere confidenza e conquistarci con quella sua capacità di dire poco, ma al momento opportuno, e di anticipare un tuo pensiero, facendosi trovare nel posto giusto. Il giorno dopo mi ha invitato a mangiare con la sua famiglia, di cui ho adorato l’ostinata vivacità della sorella più piccola e ammirato la mite dolcezza della più grande, caratteristica conservata con chissà quanta determinazione in questi anni di sforzi e miserie.

Alì per tre giorni ha indossato la stessa maglia da calcio, sulla schiena la scritta Neymar, probabilmente la stessa che indossano con la facoltà di poter scegliere molti bimbi della sua età qui in Italia. Per quel niente che ho fatto per lui mi ha donato grazie sinceri che non saprò mai ripagare del valore che hanno.

Per diventare volontario o volontaria OBTI basta iscriversi al gruppo One Bridge to Idomeni – Volunteers e da lì seguire le #callforvolunteers.

Vorrei poter rassicurare Mushda: non è come vedi, il mondo non è così sbagliato!

Ho conosciuto Mushda insieme ad altre bimbe di età diversa: Diana, Uranus, Handan. Quando scoprono il mio nome esplodono tutte in trilli di entusiasmo: Arianna sembra essere un nome molto comune in Afghanistan e tutte hanno almeno una parente o conoscente mia omonima.

Tanto basta a rendermi degna di fiducia: mi prendono per mano e mi portano a sedermi sull’erba con loro. Intanto raccontano: i campi dove sono state, cosa facevano, di quella loro amica che ora è da un’altra parte, ma non sanno dove. E fanno tante domande: hai il fidanzato? Qual è il tuo colore preferito? Come si chiama la tua migliore amica? Quanti anni ha tuo padre? E mi toccano le mani, i capelli, i bracciali e mi fanno complimenti: sono sveglissime e io le adoro.

Mushda mi chiede se sono musulmana (perché dice che "lo sembro"): alla mia risposta negativa alza verso l’alto spalle e palmi e dice "It’s ok, it’s ok! We’re all the same!". Quanta ragione hai Mushda: possiamo essere amiche, rispettarci l’un l’altra, anche se non siamo uguali. Tanti adulti qui non l’hanno ancora capito, sai? Mushda è un concentrato di saggezza e pensieri giusti formato 11 anni: la guardo incantata, piccola e adulta allo stesso tempo, normale in questo contesto anormale, pura in mezzo allo sporco, positiva in mezzo alle avversità.

Sul mio telefono un nostro selfie. Lei, in primo piano, guarda la fotocamera con un sorriso furbo ed un sopracciglio alzato: deve essere un’espressione che ha visto fare in rete da qualche ragazza più grande. Guardo con affetto quei visini innocenti e non riesco a fare a meno di pensare che sono toste, che ce la faranno, anche se so che nel lungo cammino che affronta un migrante i pericoli attaccano senza distinzione di merito.

Vorrei non sentire gelare il sangue nelle vene ogni volta che accendo il telegiornale.

Perché là fuori, da qualche parte, c’è Samir. Samir è partito con i genitori e i 5 fratelli, il pomeriggio di sabato: le notti buie e prive di senso, tutti stretti in una tenda, sono state troppe. Samir è sicuramente il ragazzino più sveglio che io abbia mai avuto la fortuna di conoscere, ed ha un cuore grande.

Dopo 3 anni di viaggio tra Afghanistan, Serbia e Turchia parla 5 lingue, che mescola all’occorrenza per farsi capire e per essere utile agli altri inquilini di quella casa maledetta. Gli ho detto che è Google traduttore del campo, per farlo sorridere io almeno una volta: il suo piglio da presentatore ed il suo carisma ci avevano già strappato tante risate che sembrava il caso di ricambiare!

Ma cosa ci fai qui Samir? Saresti una star di Disney Channel, un candidato a Oxford, un rubacuori di prima categoria. Se fossi nel mondo che conosco io, ed avessi tutte le cose che è normale abbia un ragazzino della tua età, saresti un vero leader, un fiore all’occhiello della tua realtà. Avresti una marcia in più di tutti.

Dove sei ora Samir? A fare la fame per nasconderti in un bosco, in mezzo alle piante e agli animali? Rinchiuso in un camion senza acqua nelle mani di trafficanti che potranno fare di voi ciò che vogliono, scappare coi vostri ultimi averi? Nella cella di un carcere, colpevole del grave reato di cercare una vita migliore?

Vorrei sapere che ti verrà data quell’unica opportunità, tra le mille che ti sono state negate. So che saprai coglierla per diventare l’uomo eccezionale che già si intuisce dietro i tuoi occhi.

 

* Volontaria nella terza spedizione in Bosnia Erzegovina di One Bridge to Idomeni presso il "Dom".

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