Bihać e migranti: tra caos e rischio catastrofe
Deportazioni verso Vučjak o verso i boschi al confine, quasi a voler invitare i migranti ad andarsene. Ma allo stesso tempo a chi è registrato e vive nei campi, viene impedita la libera circolazione. Un resoconto di Silvia Maraone, project manager di IPSIA, in questi giorni in missione di monitoraggio tra Bihać e Velika Kladuša
In questi giorni la polizia bosniaca, con l’aiuto delle forze speciali, sta proseguendo con rastrellamenti giornalieri dei migranti che non hanno i documenti – cioè non sono stati registrati da IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni ) per avere diritto di stare dentro i campi ufficiali di accoglienza – per spostarli a Vučjak. Vengono concentrati tutti qui o con l’uso di autobus oppure, se non ci sono mezzi a disposizione e il gruppo rastrellato è numeroso, facendoli camminare a piedi "accompagnati" dalla polizia per 8 km su per la montagna. Solo tra la sera di martedì e la prima mattina di mercoledì sono stati riempiti 5 pullman e altre decine di persone sono state portate a piedi, verso l’area di Vučjak che già conta tra le 1500 e le 2mila presenze in condizioni pessime.
A Velika Kladuša la situazione è abbastanza simile, come ci hanno riferito volontari di NNK – No Name Kitchen , ma con una nota particolare… La polizia pare abbia raccolto le persone che stanno fuori dai campi (dunque anche queste non registrate da IOM) per portarle verso il confine con la Croazia nella località di Šturlić, punto da cui di solito i migranti partono per tentare il “game” [così viene definito il difficile attraversamento dei confini], o addirittura a 10-15 km di distanza sulle strade forestali e poi lasciati in mezzo ai boschi. La sensazione dunque è che vi sia una strategia a livello cantonale nel dissuadere i migranti a stare nei pressi dei campi o vicino ai centri abitati.
Le condizioni di vita sono tali che spingono queste persone, che stanno a Bihać da tempo, addirittura a tornare indietro lungo la rotta. Un fenomeno che abbiamo visto in parte in Serbia dove IPSIA gestisce assieme a Caritas Italiana alcuni campi: stanno tornando persone che erano migrate in Bosnia mesi fa, anche perché le condizioni della vita nei campi in Serbia sono migliori e con l’arrivo dell’inverno le persone tornano per poter trovare l’accoglienza che in Bosnia non esiste.
Abbiamo raccolto testimonianze dai volontari di Tuzla, semplici cittadini o piccoli gruppi informali che aiutano da mesi le decine (alcune notti arrivano a 200) di persone che si accampano all’aperto attorno alla stazione, in condizioni insostenibili e senza alcun aiuto istituzionale come denunciano gli stessi volontari attarverso i media locali . Anche loro raccontano di aver assistito alla partenza di persone che hanno deciso di tornare indietro, verso la Serbia.
Personalmente, ne ho avuto conferma da un ragazzo incontrato a Bihać in questi giorni, ma che conoscevo già, che aveva appena subito il solito respingimento a catena prima dalla Slovenia, poi dalla Croazia. Mi ha raccontato di aver deciso di tornare indietro, al momento fino a Tuzla, perché non ce la faceva più.
Non so dire in quale percentuale, ma confermo che ormai si parla di gruppi di persone che non ce la fanno più a stare qui a Bihać, in queste condizioni e con l’inverno alle porte. È bene sottolineare che i campi di Bihać sono ora al pieno delle loro capacità. Nonostante per alcune strutture, come ad esempio il “Borići”, ci siano effettivamente spazi dove poter fare gli allacci per l’energia elettrica e l’acqua in modo da accogliere altre persone in container abitativi. Il “Borići ” ora ha 400 posti, tutti occupati, mentre potrebbe ospitarne altri 150 nei container. Ma il Cantone Una-Sana non ha concesso, ad IOM che li gestisce, l’autorizzazione a realizzare tali allacci. Dimostra che la politica cantonale è quella di mantenere i numeri concordati all’apertura dei campi e non andare oltre.
Ciò che inoltre sta provocando momenti di proteste e incidenti tra i migranti e la forza di sicurezza del campo è l’ordinanza del Cantone Una-Sana con cui è stata decretata la restrizione della libertà di movimento di queste persone, pur regolarmente registrate, nella cittadina. Significa che ora le persone non possono più uscire liberamente dal campo 24 ore su 24. Ora devono mettersi in fila, in lunghe attese, e passare una sorta di controllo per poi ottenere il permesso di andare a fare la spesa al supermercato e ritorno. Accade che in alcuni momenti la fila sia lunghissima e le attese estenuanti, o addirittura che la security blocchi loro l’uscita… così i migranti si sentono in trappola, come fossero in prigione. Da qui le proteste di due notti fa – che non hanno provocato incidenti o violenze – e di cui abbiamo la prova grazie a dei video che sono stati postati nei vari gruppi Facebook creati da attivisti che aiutano i migranti.
Sempre a Bihać, al campo “Sedra ”, che è un campo adibito all’accoglienza di nuclei familiari, da una fonte affidabile abbiamo saputo che in questi giorni viene loro impedito di andare in città, anche solo per fare la spesa, ma anche di andarsene del tutto (e dunque tentare il “game”). I migranti non capiscono più niente. Dicono: “Non ci vogliono qui, ma allo stesso tempo non ci fanno andare via”. Una situazione caotica, che ci è stata confermata anche dai volontari di No Name Kitchen , in cui tutto è male organizzato, mal gestito e soprattutto incoerente.
Inoltre, in linea con numeri e flussi che stiamo monitorando, al campo Sedra e al “Borići” ci sono uomini singoli che sono rimasti senza il resto della famiglia che sono stati presi e spostati al campo “Bira ” per liberare le stanze che occupavano precedentemente con l’intero nucleo. Come stiamo verificando, da metà agosto ad oggi l’aumento del flusso di famiglie lungo la rotta balcanica è reale e , osservando i dati della Macedonia, della Serbia e della Grecia, queste famiglie ora risultano essere in maggioranza di provenienza afgana, siriana e irachena.
Significa che sta avvenendo uno spostamento importante dalla Turchia verso i Balcani, lungo una rotta che è già di solito intensamente percorsa da famiglie e minori non accompagnati, sebbene dopo il 2018 il loro flusso si fosse assestato e da gennaio 2019 fosse emerso un grande flusso di uomini singoli provenienti soprattutto dal Pakistan. Da quest’estate invece, cioè da quando sono ripresi copiosi sbarchi tra la Turchia e la Grecia , si è fatto notare l’effetto a cascata sui paesi più a nord della rotta balcanica.
Infine, abbiamo anche realizzato dei monitoraggi nella zona di Lohovo, paese a sud di Bihać a pochi chilometri dal confine con la Croazia e sulla riva ovest del fiume Una, cioè la zona di intensi azioni di push- back (respingimenti). Abbiamo assistito al rientro verso Bihać di un gruppo di persone – sette ragazzi africani – che erano state respinte dalla polizia croata. Gli avevano portato via tutto, compreso gli zaini. E controllando le tracce lasciate nei boschi di quella zona, abbiamo effettivamente trovato segni che indicano che i pushback non si sono fermati. Abbiamo trovato tracce fresche di custodie e pezzi di cellulari distrutti, oltre a guanti di lattice e una mascherina e cioè ciò che di solito viene indossato dalle forze di polizia, non certo dai migranti in fuga. Tutto questo ci fa pensare che la presenza della polizia tra Croazia e Bosnia non sia diminuita.
*Silvia Maraone, project manager di IPSIA
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