Berlinale, mai assente il sud-est Europa
L’Orso d’Oro del Festival di Berlino è andato quest’anno al film turco ”Bal – Miele” di Semih Kaplanoglu. Importanti riconoscimenti anche per cineasti dei Balcani. Una rassegna dal nostro corrispondente
Un film turco ha vinto il 60° Festival del cinema di Berlino. Una manifestazione da sempre attenta alle tematiche sociali e politiche e che da sempre ha dato spazio al cinema dell’area balcanica. Quest’anno erano in concorso il bosniaco "Na Putu – On the Path" di Jasmila Žbanić, già vincitrice nel 2006, il romeno "Eu cand vreau sa fluier, fluier – Se voglio fischiare, fischio" di Florin Serban e "Bal – Miele" di Semih Kaplanoglu. Tutti e tre hanno ricevuto una calorosa accoglienza e gli ultimi due hanno ricevuto i premi più prestigiosi.
Si è trattata di un’edizione di buon livello con palmares che rispecchia i valori emersi nelle dieci giornate di proiezioni. A prevalere le storie familiari, con tante scene di pranzi e cene, e, inusuale per un festival, parecchie commedie, come il francese "Mammuth" di Benoit Delépine e Gustave Kerverne, il norvegese "A Somewhat Gentle Man" di Hans Petter Moland e "A Woman, a Gun, and a Noodle Shop" di Zhang Yimou (degno rifacimento cinese di "Blood Simple" dei fratelli Coen). Per Roman Polanski, regista del film più bello della Berlinale, l’Orso per la miglior regia per "L’uomo nell’ombra", thriller politico vecchia maniera nello stile e fin troppo attuale nelle tematiche: un ex premier inglese avrebbe iniziato la propria carriera in modo poco chiaro.
"Bal" di Semih Kaplanoglu, terza parte della trilogia semiautobiografica (in ordine cronologico inverso, dalla maturità all’infanzia) comprendente anche "Yumurta – Uovo" e "Sut – Latte", era tra i meglio accolti del concorso e il suo Orso d’oro non è stato una sorpresa. Il quarantasettenne regista, al quarto film, ha ricevuto pure il premio della giuria ecumenica e ha confermato il bel momento del cinema turco. È la storia di Yusuf (l’impagabile Bora Altas, uno sguardo che non si dimentica), sei anni, che frequenta la prima elementare. Suo padre, Yakup, possiede un alveare e porta il figlio con sé nel bosco facendogli scoprire la natura. Le cose si complicano quando all’improvviso le api scompaiono e il genitore si inoltra nella foresta per giorni alla loro ricerca. Il bambino smette di parlare mandando nello sconforto la madre, che lo affida alla nonna che vive nel villaggio vicino quando una notte si verificano degli eventi magici. Kaplanoglu conferma lo stile, lento, poetico, rigoroso, di grande spazio agli ambienti esterni che erano già dei film precedenti. Il suo però è un cinema che non richiama folle e per il quale i distributori non fanno la corsa.
Coproduzione Turchia-Grecia anche "Pus – Haze" di Tayfun Pirselimoglu, incluso nella sezione Forum. Il terzo film del regista segue tre persone sole e alienate. Non c’è quasi narrazione, non c’è psicologia, rari dialoghi, non accade quasi nulla e quel poco non lo si vede. Se le intenzioni sono chiare, il risultato non lo è altrettanto. Sempre il Forum ha dedicato un omaggio a Nuri Bilge Ceylan, il maggiore regista turco delle ultime generazioni, proponendo il raro "Kasaba – La città", il suo primo lungometraggio del 1998.
Tornando al concorso, doppio riconoscimento per l’esordiente romeno, che ha ricevuto l’Orso d’argento – Gran premio della giuria e il premio Alfred Bauer per l’innovazione. "Eu cand vreau sa fluier, fluier – Se voglio fischiare, fischio", primo lungometraggio di Florin Serban, è ambientato tutto in un carcere minorile in mezzo alla campagna. Il film, protagonisti gli esordienti George Pistereanu e Ada Condeescu, è scritto dal regista con Catalin Mitulescu (autore di "Come ho trascorso la fine del mondo") a partire dal romanzo di Andreea Valean. A Silviu, giovane criminale, mancano pochi giorni prima di essere scarcerato quando riceve la visita inattesa del fratellino. Questi gli comunica che la madre è ritornata all’improvviso e se lo vuole portare con sé in Italia. Alla notizia Silviu reagisce malissimo, dando l’impressione che abbia qualcosa contro l’Italia (dopo "Francesca" di Bobby Paunescu torna a godere di una brutta immagine in un film romeno). Si scopre poi dell’infanzia complicata dai continui trasferimenti e abbandoni da parte della madre. Così l’adolescente, che si sente responsabile del fratellino che ha cresciuto da solo, vuole evitargli lo stesso destino di disorientamento. Non trovando un’altra soluzione, Silviu cerca di convincere la madre prendendo in ostaggio la bella assistente sociale, Ana, della quale si è innamorato, e ottenere ciò che vuole. Il direttore del carcere si mostra fin troppo benevole nei suoi confronti, forse perché il ragazzo ha un passato di buona condotta, e gli consente molto. Ottenuta la promessa della madre, Silviu ha ancora un sogno da realizzare: si fa consegnare un’auto e va verso il villaggio vicino per bere un caffè con Ana e darle il primo bacio, ma per lui c’è il ritorno alla dura realtà. Il film è carico di tensione (anche per l’efficace utilizzo dei rumori di fondo), fa affezionare lo spettatore ai personaggi principali ed è diretto con mano che sa quel che vuole, nonostante le piccole ingenuità e qualche difetto di sceneggiatura.
La religione, l’estremismo e il rapporto di coppia sono i cardini del film della Žbanić, "Na putu", rimasto fuori dai premi. Se il suo debutto, "Grbavica – Il segreto di Esma", era uno sguardo al femminile sui dolori della guerra e le sue conseguenze, stavolta il conflitto resta molto sullo sfondo. L’esperienza comune in guerra è però quella formativa per chi l’ha attraversata, i legami stabiliti in armi restano saldissimi e riemergono nelle difficoltà. Luna (Zrinka Cvitešić, che era anche tra le Shooting Stars, le attrici emergenti della Berlinale) è un’assistente di volo che vive (in un appartamento centrale, lungo la Maršala Tita a Sarajevo) con Amar (Leon Lucev), un addetto alla torre di controllo dell’aeroporto della città. Sembra andare tutto bene, sono una coppia moderna, si amano, desiderano un figlio, frequentano amici come loro. Lui però viene sorpreso a bere superalcolici sul lavoro e sospeso dalle sue mansioni e iniziano i guai. Un incidente stradale causato dalla distrazione mentre la coppia va in gita con due amici è la causa dell’incontro con Bahrija, ex commilitone di Amar. L’uomo ha la barba lunga da wahabita e sua moglie è avvolta in un velo integrale. "L’hai vista? Sembra un ninjia!" esplode Luna che marca subito le differenze. Il compagno si lascia però affascinare e, complice la perdita del lavoro, va in un campo di fondamentalisti religiosi sul lago Jablanica a insegnare informatica ai bambini. Il suo soggiorno si prolunga, tanto che arriva a Sarajevo Nada per portarla a trovare il suo uomo. Riesce a vederlo solo brevemente e lo sente molto lontano. Il suo rientro nella capitale equivale a un ritorno da un pianeta alieno dove donne e uomini sono rigidamente separate e le prime fanno il bagno nel lago vestite e nascoste dalle tende. Per di più, mentre prima la coppia desiderava un figlio e si stava preparando all’inseminazione artificiale, Amar comincia a sostenere la necessità di sposarsi e condanna i rapporti prematrimoniali. La tensione tra i due cresce sempre di più. In occasione di una festa vanno a pranzo dalla nonna di Luna, profuga di Bijelina e l’anziana sottolinea con rabbia la differenza tra chi ha fede e prega senza farsi prendere dagli eccessi e chi si è fatto suggestionare e accecare. E se non si può qui rivelare il finale, la regista completa il lavoro sul doppio binario del confronto all’interno della coppia e quello all’interno della società. Il secondo punto è un po’ troppo programmatico, mentre la dinamica più intimistica funziona di più: Luna e Amar si allontanano a causa della religione, ma potrebbe essere stato qualsiasi altro "intruso" a mandarli in crisi.
Il film della Žbanić è coinvolgente, seppure abbastanza prevedibile nello sviluppo della seconda parte. E il cinema della regista sarajevese resta più interessante per quello che dice (forse un po’ troppo rivolto all’Occidente) che per come lo dice. Tra l’altro si intravede una rivalità anche di contenuti con l’altra cineasta bosniaca di punta, Aida Begić, che non a caso indossa il velo e l’ha fatto mettere alla protagonista del suo "Snijeg". Le due anime della Bosnia che si confrontano anche sullo schermo, tenendo presente che la Begić non è per niente una fondamentalista.
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