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Berisha: un anno di errori

Secondo il direttore dell’organizzazione non governativa Mjaft ("Basta"), l’Albania sta cominciando a pagare caro un anno di governo Berisha. Gli attacchi nei confronti dei media e delle istituzioni indipendenti, il grave fardello economico. Nostra traduzione

21/11/2006, Redazione -

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Di Erion Veliaj*, Tirana, per BIRN, Balkan Insight, 2 novembre 2006 (titolo originale: "Comment: Berisha’s Year of Blunders Already Cost Albania Dear")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall’Asta

Dopo circa otto anni passati all’opposizione, un golpe fallito e centinaia di migliaia di dollari spesi in consulenti americani, Sali Berisha è tornato in carica come Primo ministro dell’Albania nel luglio 2005.

A quell’epoca l’economia albanese godeva di un boom che durava da cinque anni, e le istituzioni indipendenti si stavano rafforzando.

Dopo un anno del suo governo, l’economia si è fermata e gli organi indipendenti hanno subito un colpo dietro l’altro.

Sfruttando la consueta tattica di far ricorso ad una politica personalizzata, Berisha ha cominciato con un attacco al sindaco di Tirana, Edi Rama, che è anche il nuovo leader del Partito socialista, all’opposizione.

Berisha ha lanciato una campagna mirata a privare le autorità locali dei poteri municipali e a trasferire le competenze al governo centrale. Ciò include aree come le licenze edilizie, i piani regolatori e i lavori pubblici.

Berisha ha anche innescato un conflitto col servizio civile, con i media indipendenti, col sistema giudiziario, le università, l’imprenditoria privata ed infine, ora, col Presidente.

Le agenzie dell’Unione Europea e della Banca mondiale hanno tutte espresso preoccupazione per le intenzioni dichiarate dal Primo ministro, di voler "ripulire" la pubblica amministrazione, apparentemente al fine di ridurre la corruzione.

Ciò è stato visto in primo luogo come uno spreco degli investimenti dei finanziatori stranieri, che per diversi anni hanno sostenuto le spese per la formazione professionale degli impiegati pubblici.

Secondariamente, ciò sta accollando al governo un grave fardello economico, dato che esso deve risarcire tutti coloro che hanno finora vinto cause per essere riammessi nella pubblica amministrazione.

Le emittenti televisive indipendenti ed i giornali che hanno tentato di occuparsi di questi temi sono stati fatto oggetto di minacce, di sfratto dalle loro sedi o di chiusura da parte della polizia finanziaria.

Il governo ha nuovamente politicizzato il Consiglio delle trasmissioni radiotelevisive, prima imparziale, e ha assunto il pieno controllo sulle reti televisive pubbliche.

Il risultato è stato che molti importanti giornalisti e scrittori si sono uniti ad Azione Civica, una coalizione di ONG e di giornalisti nata per protestare contro il crescente clima di autoritarismo nei media.

Il tentativo fallito di Berisha di destituire il Procuratore generale ha accresciuto le tensioni politiche.

In mancanza di argomenti validi, Berisha ha fatto ricorso al tentativo di fare pressioni sul Presidente Alfred Moisiu in quello che è stato definito "Albatrosgate" – il maggiore scandalo nella storia recente dell’Albania.

Il nome si riferisce alla decisione del governo di chiudere la compagnia aerea Albatros, di proprietà del nipote del Pesidente, al fine di accrescere le pressioni sul Capo dello Stato perché desse il suo appoggio alla destituzione del Procuratore generale.

Forte del sostegno internazionale, il Presidente Moisiu ha deciso di non accondiscendere.

Dopo aver perso diverse battaglie su questo fronte, Berisha sta ora tentando di distogliere l’attenzione dalla sua pubblica umiliazione denunciando che i giudici, i media, la società civile ed il Presidente stesso sono tutti "nel letto della mafia".

Il ministro dell’Economia nel frattempo può solo alzare le spalle di fronte alla caduta del tasso di crescita del PIL, e al crescente numero di disoccupati. La tattica di Berisha, di intimidire pubblicamente le imprese che si rivolgono ai tribunali piuttosto di accondiscendere alle richieste dei suoi solerti esattori delle tasse, non si è dimostrata efficace.

Mettere auto della polizia all’ingresso di ogni fabbrica di birra, e intralciare il movimento delle navi di proprietà di imprese non allineate col governo, si è rivelato controproducente.

Perfino la scintillante iniziativa per attrarre investimenti stranieri, denominata "Albania a un euro", è stata ampiamente discreditata come un azzardo speculativo, organizzato ad esclusivo beneficio del partito di Berisha. Non ha ancora attirato nessun serio investitore.

Il crescente malcontento per la penuria d’acqua di quest’estate, per i black out delle linee elettriche dello scorso inverno, per le epurazioni nell’Accademia nazionale delle Scienze, e per il tentativo di esercitare controllo sulle Università e perfino sulle case editrici, molto probabilmente si rifletterà nelle elezioni locali dell’anno prossimo.

Comunque, gli scandali sui certificati di nascita contraffatti – e l’insistenza del governo perché le elezioni si tengano col gelo del pieno inverno – non promette bene per elezioni libere e regolari.

Certo Berisha ha un record in fatto di gestione di elezioni chiacchierate. Le ultime da lui rette, nel 1996, fruttarono un risultato di più dell’80 per cento dei voti a suo favore, guadagnandosi in seguito la nomea di elezioni più gonfiate dell’Europa post-comunista.

Berisha ha ora pochi alleati internazionali, e uno degli ultimi è andato perso con la recente sconfitta dei conservatori in Austria. La sua decisione di sostenere le forze USA in Iraq, Afghanistan e Libano non gli ha guadagnato i favori delle autorità americane a Tirana.

In politica interna, i suoi ripetuti tentativi di infrangere la legge hanno corrotto la nozione stessa di "campagna anti-corruzione". Tutto ciò lascia Berisha in una pessima situazione.

Mentre il suo ultimo tentativo di lasciare un’impronta nella storia si avvicina al fallimento, l’Albania è a un bivio. Fortunatamente, non è lo stesso Paese che era a metà degli anni ’90, e riuscirà a riprendersi.

*Erion Veliaj è direttore esecutivo del gruppo politico Mjaft ("Basta")

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