Bergamo Film Festival, omaggio a Karpo Godina
Si è appena concluso 37° Bergamo Film Meeting con la prima retrospettiva in Italia al regista sloveno Karpo Godina e ben tre film dell’area balcanica tra i sette della mostra internazionale. Il secondo premio è andato a “Granice, Kiše – Confini, gocce di pioggia” di Nikola Mijović e Vlastimir Sudar
Da una parte la prima retrospettiva in Italia dedicata allo sloveno Karpo Godina e dall’altra tre film di area balcanica tra i sette della Mostra internazionale, con due premi finali. È il bilancio dell’appena concluso 37° Bergamo Film Meeting , che, come negli ultimi anni, ha guardato parecchio al cinema dell’est. Lo spazio dell’animazione è stato dedicato al polacco Mariusz Wilczynski e omaggi sono stati tributati al recentemente scomparso Jonak Mekas, statunitense d’origine lituana campione del cinema sperimentale, e al ceco Jan Svankmajer.
Se la vittoria è andata all’argentino “El motoarrebatador – Il borseggiatore” di Agustín Toscano, il pubblico ha assegnato il secondo premio a “Granice, Kiše – Confini, gocce di pioggia” di Nikola Mijović e Vlastimir Sudar, coproduzione Bosnia, Montenegro, Serbia, Svezia, Regno Unito. Il premio per la miglior regia è stato attribuito, dalla giuria presieduta dal regista bergamasco Paolo Franchi (“La spettatrice”, “Dove non ho mai abitato”), al romeno “Un om la locul lui – Un uomo onesto” di Hadrian Marcu.
In “Granice, Kiše – Confini, gocce di pioggia” il regista montenegrino e quello serbo, entrambi al primo lungometraggio, filmano una terra sospesa che guarda il mare, sul confine tra Croazia, Bosnia e Montenegro. È estate e arriva, per trovare i parenti, la bella e giovane Jagoda, portando un po’ di speranza ai cugini, ma anche a chi sta oltre frontiera. Un film con svariati stereotipi, tanto sole, tanta musica, atmosfera rarefatta e luoghi semiabbandonati. “Non fare foto alla Croazia”, dice la nonna alla protagonista, per farle capire come ci si muove. L’estraneità di Jagoda emerge dal modo di comportarsi e dalle letture, Jean Baudrillard ed Ernesto Laclau, quest’ultimo autore che anticipò l’ascesa di populisti e nazionalisti.
Il film romeno, un altro debutto, è rigoroso, molto inserito nel filone che ha come capiscuola Cristi Puiu e Cristian Mungiu. Un’opera scandita da piani sequenza che pedina il protagonista, il quarantenne ingegnere Petru (Bogdan Dumitrache), quasi sempre in scena. Petru si presenta andando dal pope per fissare in fretta una data per le nozze, poiché la fidanzata, il medico Laura, è incinta. Poco dopo la collega e amante Sonia è coinvolta in un grave incidente, ricoverata in ospedale e amputata di una gamba, mentre il collega Buzea muore. Così il personaggio si ritrova in bilico tra le due donne, due storie, indeciso se fare scelte definitive o barcamenarsi. Il regista Marcu è ambizioso, propone dubbi, ma la pellicola fatica a ingranare e coinvolgere e si affida troppo alla bravura dell’interprete che si porta addosso un personaggio non sempre simpatico e bisognoso di attenzioni (quando si scotta la mano con l’acqua bollente si mette una fasciatura esagerata). Altra costante di molto cinema romeno sono i complicati rapporti con le madri dei protagonisti.
Tra i sette in gara “Holy Boom – Sacro boom” di Maria Lafi, ambientato in un quartiere di Atene durante la settimana della Pasqua ortodossa, con quattro storie intrecciate tra loro. Alcuni teppistelli fanno saltare una cassetta delle lettere, uccidendo un uomo e mettendo in difficoltà varie persone. Si tratta della giovane Lena, che canta in un gruppo ed è fidanzata con Manu, un ragazzo nero che aspetta una busta di droga. Poi una giovane vedova albanese cui hanno sequestrato i documenti e deve cavarsela con un neonato. Infine la vicina sarta Thalia, che aveva dovuto dare in adozione il proprio figlio e non vede di buon occhio gli immigrati. Intanto il ragazzo filippino che ha innescato tutto non è consapevole di ciò che sta succedendo e corteggia una compagna di scuola. Prevale il meccanismo e il bisogno di tenere insieme l’ingranaggio, per quanto le storie siano abbastanza interessanti. La regista cerca un po’ l’inquadratura simbolo, ma riesce a raccontare l’insensibilità di società, le bande che schiavizzano persone e i pregiudizi radicati. Bella la scena in cui si succedono le varie situazioni a tavola, come se tutti i personaggi fossero nello stesso luogo.
Karpo Godina
Karpo Godina, nato a Skopje nel 1943, è stato grande protagonista della scena cinematografica della Jugoslavia come direttore della fotografia e regista e, dal 1991 in poi, punto di riferimento per la Slovenia indipendente anche come docente.
Autore di soli quattro lungometraggi, “Splav Meduze – La zattera della medusa” (1980), “Rdeci boogie ali Kajti je deklica – Boogie rosso” (1982), “Umetni raj – Paradiso artificiale” (1990) e il documentario “Zgodba gospoda P.F. – La storia del sig. P.F.” (2002), più diversi cortometraggi e il film a episodi “Mi manca Sonia Henie” (1972, diretto anche da Milos Forman, Tinto Brass, Dusan Makavejev e Frederick Wiseman), è stato ed è voce importante di una lunga stagione. Tra i film proposti nella rassegna il folgorante “Rani radovi – Primi lavori” di Želimir Žilnik che nel 1969 vinse l’Orso d’oro a Berlino e consacrò l’“onda nera” del cinema jugoslavo e di cui Godina fu l’operatore. Un film girato in Vojvodina, energico, diretto, fatto di parole e di lavoro, sul contrasto delle fatiche nei campi e un gruppo di giovani borghesi aspiranti rivoluzionari che leggono libri e intraprendono il cammino nel mondo proletario.
Contiene parecchi elementi attuali anche un altro film in rassegna di cui Godina fu operatore, “Occupazione in 26 fotogrammi” (1978), di Lordan Zafranović, una delle più dure ed esplicite rappresentazioni della Dalmazia. Siamo a Dubrovnik, occupata dall’Italia fascista. Si comincia durante il carnevale, segno della venezianità della città, e si approda all’ingresso a Dubrovnik dei fascisti che spargono sulla strada terra italiana in senso di sfida e appropriazione. In mezzo alle svastiche, i fascisti si lasciano andare alla dissoluzione, affidando agli ustaša il compito di eliminare, anche in modo efferato, ogni possibile oppositore, ebrei e comunisti per primi. In una Dubrovnik spettacolare e mai cartolinesca, non tutti gli italiani stanno con Mussolini, come dimostra la famiglia di Baldo e del figlio Niko (che provocatoriamente gira una fotografia del duce a testa in giù). Per Zafranović fascismo e nazismo sono espressione della decadenza borghese e di un ritorno alla violenza primitiva.
Onda nera
I tre lungometraggi di Godina, realizzati nell’arco di un decennio, si ricollegano direttamente all’Onda nera, che a sua volta aveva come precursori il Neorealismo italiano e la Nouvelle vague. E subiscono anche molteplici influenze dai sopracitati film di Žilnik e Zafranović. Altra influenza riconoscibile è il cinema ceco e segnatamente Milos Forman per certi toni di dramma e di commedia un po’ beffarda. Parecchi debiti si riconoscono anche all’ungherese Miklos Jancso, oltre che per gli spazi e i paesaggi della pianura (puszta della Pannonia o Vojvodina che siano), per il tentativo di conciliare individuo e collettivo dentro la Storia e di cogliere il tempo reale. Anche senza i lunghi piani sequenza caratteristici di Jancso. Quello di Godina, che guarda a quei vertici senza raggiungerne le vette, è sempre un cinema dialettico. Ci sono elementi ricorrenti, la politica, lo scontro tra borghesi e rivoluzionari e le arti. Ne “La zattera della medusa” ci sono la pittura e la poesia, in “Boogie rosso” la musica e il cinema, in “Paradisi artificiali” il cinema, anche se è il teatro il filo che contribuisce a collegare la trilogia.
“La zattera della medusa” inizia con una lunga inquadratura sul celebre quadro di Théodore Géricault, simbolico della ressa per salvarsi, la lotta per la sopravvivenza, anche a scapito degli altri. Siamo in un non precisato momento all’inizio degli anni ’20 del Novecento. Due giovani e belle insegnanti, l’estroversa serba Ljiljana, abituata a trovare il modo di procacciarsi denaro, e la slovena Kristina, sono colleghe nel villaggio di Petrovo, nella campagna della Vojvodina. Quando arriva in auto un gruppo di artisti politicizzati, esponenti dello “zenitismo serbo”, un’avanguardia del tempo, si aggregano a loro. Partono in viaggio nella regione, insieme al Gigante, l’uomo più forte dei Balcani, allestendo spettacoli di strada. Si parla del poeta sloveno France Prešeren, di Marinetti e dell’incendio del Narodni Dom a Trieste. Una riproduzione de “La zattera della medusa” è appesa al muro sopra piccola foto di Lenin, ma un orologio ne porta l’effige con falce e martello come lancette.
Il dopoguerra, ma il secondo, anche qui siamo in un momento indefinito tra il 1948 e il 1955, è ambientazione anche di “Red Boogie”, altro road-movie dolce amaro nel quale si dibatte di arte e rivoluzione e si finisce, come già “La zattera della medusa”, con una sequenza in bianco e nero. L’orchestra della radio nazionale, diretta da Max, è mandata a intrattenere i lavoratori (“Intrattenimento sotto costrizione” chiosano) delle campagne. Si tratta di una punizione, comminata dall’Agitprop e controllata dal commissario Jan, per la loro preferenza verso il jazz, considerata musica occidentale, anziché per la musica tradizionale. Si va dalla Vojvodina alla costa adriatica vicino a Izola. I protagonisti sono il sassofonista Peter e il trombettista Joseph e uno dei due finirà male, scomparso mentre nei paesi si canta “Bandiera rossa” e si combatte contro la dorifora, parassita delle patate.
Il terzo e ultimo lungometraggio di finzione di Godina, presentato al Festival di Cannes nel 1990, costruisce una storia inventata partendo da un episodio reale, l’incontro tra il futuro grandissimo cineasta Fritz Lang e il pioniere del cinema sloveno, Karol Grossman. “Umetni raj – Paradisi artificiali” parte nel 1935 da Los Angeles, dove il regista di “Metropolis” è giunto dopo essere fuggito dalla Germania nazista. Mentre legge i fumetti per “diventare un regista americano” e avverte un terremoto, un giornalista lo intervista e lo fa ripensare al passato. Inizia così un lungo flash-back ambientato in Slovenia, a Javoje, tra il 1914 e il 1915. Il giovane soldato Fritz si ritrova ospite dell’avvocato Karol Gatnik, appassionato di cinema. Si instaura un’amicizia, che si protrarrà nonostante l’allontanamento, fatta di lunghe chiacchierate. Godina usa brevissimi inserti di film di Lang, “I Nibelunghi” o “Metropolis”, per suggerire come i suoi lavori futuri saranno debitori a Gatnik per alcune idee.
Del 2002 è il documentario “La storia del signor P.F.”, dove il signori Floriancić è un inventore fantasioso cresciuto a Bled. L’intervista in tv si interseca con quella nei suoi luoghi e l’utilizzo di immagini in bianco e nero del passato. Famiglia originaria di Bressanone, nonno sindaco e albergatore, P.F. ha registrato oltre 400 brevetti, anche strampalati, e sembra un personaggio di finzione. La sua vicenda è anche un modo per ripercorrere la storia di tutto il Novecento.
Ha completato la retrospettiva il ritratto “Karpopotnik – Kapotrotter” realizzato nel 2013 da Matjaž Ivanišin, noto anche per il recente “Playing Men”. Un viaggio con tappe in cinque villaggi della Vojvodina, dove Godina aveva girato il corto “Zdravi ljudje za razvedrilo – Litany for Happy People” (1971), mostrando le diverse culture e popoli che vivono nella pianura tra il Tibisco e il Danubio. Immagini di oggi e di ieri fluiscono come se il tempo si fosse cristallizzato, un lavoro tra l’antropologia, l’etnografia e la poesia.
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua