Belgrado-Pristina, retorica bellica
Con il nuovo anno le relazioni tra Pristina e Belgrado, che da accordi presi con l’UE dovrebbero gradatamente normalizzarsi, hanno registrato un trend preoccupante
Sembrava come quando la maestra porta nella sala insegnanti un gruppo di studenti disobbedienti che si sono picchiati in cortile: parla con ciascuno di loro, poi li riunisce tutti assieme e tutti promettono che in futuro saranno buoni e se ne vanno da scuola guardandosi di sbieco.
Allo stesso modo è finito l’incontro organizzato dall‘Alto rappresentante dell’UE Federica Mogherini col presidente e il premier della Serbia Tomislav Nikolić e Aleksandar Vučić e il presidente e il premier del Kosovo, Hashim Thaci e Isa Mustafa. Per la prima volta insieme attorno ad un tavolo, in una riunione straordinaria, unanimemente hanno dichiarato che continueranno il dialogo sulla normalizzazione delle relazioni tra la Serbia e il Kosovo che dal 2011 viene condotto sotto gli auspici dell’UE.
Quale normalizzazione?
In realtà di normalizzazione nel frattempo ne è avvenuta ben poca, nonostante una serie di accordi che le due parti hanno firmato. Da Capodanno ad oggi poi le tensioni sono aumentate soprattutto a causa dell’arresto in Francia dell’ex comandante dell’UCK, già accusato dall’Aja, e leader del partito di opposizione Alleanza per il futuro del Kosovo, Ramush Haradinaj.
E’ stato arrestato su mandato dell’Interpol in base ad accuse mosse dalla Serbia secondo le quali Haradinaj ha commesso crimini di guerra durante il conflitto armato del 1999 in Kosovo. Il governo serbo ha poi chiesto la sua estradizione ma la Francia ha deciso di tenerlo ancora in custodia, mentre la ministra della Giustizia della Serbia Nela Kuburović ha minacciato contromisure nel caso Haradinaj non venisse consegnato a Belgrado: “Risponderemo nello stesso modo alle richieste che la Francia farà nei nostri confronti”.
L’arresto di Haradinaj ha innescato un’accesa retorica tra Serbia e Kosovo: speculazioni sulla possibilità che venga consegnato al nuovo Tribunale per i crimini dell’UCK, proteste degli albanesi a Pristina e informazioni su nuove prove sui crimini dell’UCK che avrebbe raccolto la magistratura serba.
Il treno
In mezzo a tutto ciò l’Ufficio per il Kosovo e Metohija del governo serbo ha deciso di reintrodurre un treno diretto dal nord del Kosovo, abitato prevalentemente da serbi, verso Belgrado. Dal 1999 i serbi di quella parte del Kosovo potevano viaggiare in treno solo fino a Kraljevo, città che è situata a metà strada del percorso fino a Belgrado. Il motivo? La risposta è semplice: a causa di linee ferroviarie dismesse e treni in stato disastroso si impiegano più di 10 ore per percorrere la distanza di 340 chilometri da Belgrado al nord del Kosovo, che in automobile, e persino in autobus, si percorre in metà tempo. Persino la ministra dei Trasporti Zorana Mihajlović ha constatato che quella tratta ferroviaria non è economicamente sostenibile. Ciononostante, in pompa magna, il 14 gennaio scorso un treno che, precisato con particolare enfasi, è stato donato dalla Russia, è partito dai binari della stazione di Belgrado alla volta di Kosovska Mitrovica.
Il treno in questione per tutto il giorno ha impazzato sui social network, in particolare ne hanno discusso i cittadini serbi che simpatizzano con l’opposizione, mentre per gli albanesi del Kosovo ha rappresentato una vera e propria provocazione. Sui vagoni è stato scritto in venti lingue diverse “il Kosovo è della Serbia”, mentre gli scompartimenti erano stati decorati con riproduzioni degli affreschi presenti nei monasteri ortodossi del Kosovo. I giornalisti partiti col treno per immortalare il momento dell’arrivo del treno a Kosovska Mitrovica hanno scritto di accoglienze solenni nelle varie stazioni ferroviarie attraversate in Serbia e di viaggiatori intrattenuti con canzoni e giochi.
Stop
A Raška, nei pressi del confine con il Kosovo, il treno si è fermato. Sui media serbi è circolata la notizia che la rotaia che portava in Kosovo era stata minata e che l’unità speciale della polizia kosovara ROSU era stata dispiegata nel nord del Kosovo, nella zona dove vivono in prevalenza serbi, senza il permesso delle istituzioni locali e della NATO.
Dopo di che tutto è sembrato prendere le sembianze di un invito alla guerra. Il presidente della Serbia Tomislav Nikolić ha dichiarato che “se loro (gli albanesi) dovessero uccidere dei serbi manderemo l’esercito, andremo tutti in Kosovo, ci andrò anch’io, non sarebbe la mia prima volta”.
Dall’altra parte, da Pristina sono arrivate notizie secondo le quali Edita Tahiri, ministra albanese incaricata del dialogo sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo, avrebbe chiamato i funzionari internazionali di riferimento chiedendo venisse impedito l’arrivo del treno in Kosovo perché, con le sue scritte e iconografie, rappresentava un’evidente provocazione e negazione dell’indipendenza del loro stato.
Il presidente del Kosovo Hashim Thaci ha definito la mossa del governo serbo come l’avvio della scissione del Kosovo del nord, accusando la Serbia di “usare lo stesso modello che la Russia ha impiegato in Ucraina quando si è annessa la Crimea”.
I complimenti
Quel giorno sono arrivati poi da parte di tutti i complimenti al premier serbo Aleksandar Vučić, perché ha ordinato che il treno si fermasse su territorio serbo: si è andati dal vicepresidente della Commissione europea Federica Mogherini al ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.
Nessuno ha più nominato la ferrovia minata, né si è occupato di controllare che sull’Accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra Pristina e Belgrado non vi è scritto da nessuna parte che l’unità speciale ROSU non può muoversi liberamente su tutto il territorio del Kosovo, mentre il premier Vučić ha spiegato che si tratta di un “accordo verbale”.
Chi ha ottenuto meno vantaggi dalla questione del “treno russo” sono sicuramente i cittadini dei due paesi, in particolare i serbi del Kosovo, per i quali è stato ideato. Ora i vagoni e la motrice sono stati spostato su un’altra linea, verso le città della Serbia occidentale, ma l’intera vicenda è servita ai politici sia del Kosovo che della Serbia per rinforzare le proprie posizioni nei rispettivi staterelli.
Il presidente del Kosovo Thaci in quei giorni ha potuto tirare il fiato dalle critiche dell’opposizione che lo accusa di non essere in grado di “liberare” Haradinaj e impedire future accuse nei confronti di cittadini kosovari del Tribunale internazionale per i crimini di guerra dell’UCK. Ha al contrario dimostrato la sua risolutezza nel difendere il territorio del Kosovo dalle provocazioni che giungono dalla Serbia, anche quando queste giungono con un treno armato di slogan e immagini dei santi.
Dopo l’incontro con la Mogherini, e nonostante avesse dichiarato poco prima di concordare sulla necessità di fermare la retorica bellicista, Thaci ha accusato Belgrado di armare i serbi del Kosovo e di condurre una politica simile a quella di Slobodan Milošević, nonché di essere “diventato di nuovo l’epicentro della destabilizzazione dei Balcani occidentali con le richieste di creazione di una Grande Serbia”.
Dal canto suo Vučić, almeno fino alla stesura di quest’articolo, si è astenuto dai commenti, ha incassato punti come pacifista e “fattore di stabilità” agli occhi dei funzionari internazionali, cosa che gli è estremamente necessaria nel momento in cui si sta riscaldando l’atmosfera alla vigilia della campagna elettorale per le presidenziali alle quali ci si aspetta che Vučić prenda parte come candidato principale. L’inghippo è che questa recente crisi è stata innescata proprio dal suo governo con una serie di dichiarazioni e decisioni ancora poco comprensibili.
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