Belgrado, a lezione di queer
A Belgrado si è conclusa la seconda edizione del corso di Studi queer, in cui si è discusso di prospettive anticonformiste, identità marginali e pratiche emancipatorie. Osservatorio ha incontrato il coordinatore del corso, il filosofo e attivista Dušan Maljković
Per capire, almeno intuitivamente, che cosa significhi queer nell’ambito della teoria e della pratica sociale, basta ripercorrere in breve la storia della parola stessa. Originariamente epiteto anti-gay (queer in inglese significa strano, non conforme, anormale), dagli anni ‘90 in poi il termine è passato a indicare quelle forme di sapere e di agire sociale che mettono in discussione l’eteronormatività (cioè la naturalizzazione dell’eterosessualità quale ‘normale’ espressione delle relazioni sessuali) e, più in generale, ogni tipo di norma dominante. La parola queer si è così ‘emancipata’ dalla sua accezione negativa e discriminatoria. Allo stesso modo, le teorie e gli approcci queer si pongono come finalità politica quella di aiutare individui e gruppi, oppressi poiché considerati ‘anormali’, ad emanciparsi riaffermando il valore delle proprie identità.
In Serbia si è cominciato a discutere di teorie queer nei primi anni 2000, in particolare con una serie di seminari tenuti nel 2001 dal teorico Miodrag Kojadinović. Dopo una pausa di 10 anni, nel 2011 è stato inaugurato il corso in Studi queer, organizzato dal Centar za Kvir Studije presso l’Istituto di filosofia e teoria sociale di Belgrado. La seconda edizione del corso si è conclusa di recente. I suoi 28 incontri, ai quali hanno preso parte decine di studenti e studentesse, hanno abbracciato argomenti che spaziano dallo sviluppo delle teorie queer al rapporto tra queer e sessualità, religione, politica, arte e scienze naturali (link al programma: www.cks.org.rs/2012/11/program-kvir-studija/). Osservatorio ha incontrato il coordinatore del corso, Dušan Maljković, per fare un bilancio dell’esperienza.
Qual è l’importanza degli Studi queer per il contesto locale, ovvero per la Serbia di oggi?
Gli Studi queer sono importanti in primo luogo per l’attivismo, perché hanno introdotto delle novità. Le forme dell’attivismo locale sono spesso un copy&paste di quelle occidentali, il che è molto problematico proprio perché implica il mancato rispetto del contesto locale. E’ il caso, ad esempio, del Pride, che molti pensano vada realizzato a tutti i costi secondo modalità occidentali e americane, invece di riflettere su come lo si potrebbe ripensare per renderlo più efficace.
In secondo luogo, sono importanti per chi lavora nel mondo accademico. E’ uno spazio che si apre nella cornice dell’Università di Belgrado, che è piuttosto conservatrice e non promuove questo tipo di contenuti. Inoltre, abbiamo provato a includere una dimensione ulteriore, ovvero che gli Studi queer siano anche un luogo sicuro per le – chiamiamole così – minoranze sessuali. Un luogo dove le persone, dopo le lezioni, possano conoscersi e passare del tempo insieme.
In terzo luogo, l’importanza si vede anche nel fascino, un po’ sospetto, che gli Studi queer suscitano nel contesto regionale, come quando la gente dice “Avete gli studi queer in Serbia!” oppure “E’ grandioso che ci siano”, e così via. In queste affermazioni riconosco la nostra interiorizzazione del cultur-razzismo, ovvero della tesi che ‘noi poveri serbi non possiamo combinare niente di buono’. E’ una cavolata, non vedo perché debba essere così. Non ci sono ragioni per pensare di noi stessi che siamo un popolo inferiore, cittadini di seconda classe.
In che modo gli Studi queer possono contribuire al miglioramento del sistema educativo serbo nel contesto della riforma di Bologna?
Ho l’impressione che qui la riforma di Bologna, che è già un male di per sé, venga anche male implementata. Riforme di questo tipo, purtroppo, hanno come effetto che l’università smette di essere il luogo in cui si produce sapere, e diventa invece il luogo in cui si preparano i futuri quadri all’ingresso nel mercato del lavoro. Quindi le alternative acquisiranno sempre maggiore importanza. Ho la sensazione che l’università abbia abbandonato del tutto il progetto di generare sapere, che noi invece cerchiamo di mantenere vivo in alcune ‘nicchie’, cercando di dare forma a un’alternativa.
Nel progetto ho scritto esplicitamente di essere contrario alla ‘bolognizzazione’. Con questo ho inteso promuovere l’idea che i materiali di studio non vanno ridotti al minimo, che siano possibili lezioni che durano a lungo, che si ammettano discussioni estese, che si possa fare dell’attività teoretica seria anche durante le lezioni. E, ancora, l’idea che nessuno sia soggetto a obblighi e doveri, che non esista questo tipo di costrizione. Infine, un altro dato importante: si tratta di un corso gratuito. Così, in risposta a chi sostiene che il sapere è merce e quindi debba essere a pagamento, abbiamo voluto offrire un corso gratuito. Che è una forma di democratizzazione dell’educazione.
Molti dei partecipanti agli Studi queer apprezzano questa modalità, e hanno constatato che le discussioni sono molto più serie che all’università ‘ufficiale’. Tuttavia, non ho l’ambizione che il corso entri in concorrenza con essa. Piuttosto, spero che esso si affermi prima di tutto come complemento, come luogo in cui si lavora con modalità differenti.
Durante il corso hai tenuto una lezione su queer, sinistra e movimento dei lavoratori. Qual era la tesi centrale?
La tesi centrale è che la posizione queer non è necessariamente di sinistra; essa può anche allinearsi con la destra, ma nel momento in cui questo succede essa diventa, in termini generali, una corrente conservatrice e reazionaria. E che questo allineamento non sempre è consapevole. Lo si è visto nel contesto del movimento gay mainstream, che dalla sinistra radicale si è indirizzato verso un discorso liberale-conservatore i cui valori di riferimento sono valori conservatori quali il matrimonio e la famiglia. La mia tesi è che bisogna tornare, in un certo senso, alla tradizione di quel movimento, che negli anni ‘70, in particolare in America, metteva in discussione proprio queste istituzioni borghesi in quanto istituzioni che partecipano al sistema capitalista.
Se vogliamo davvero produrre qualcosa di progressivo, allora dobbiamo aderire al discorso di sinistra, integrando la questione di classe, la questione della razza, e così via. Chi si è occupato di studiare la storia del movimento gay ha notato che questo tipo di alleanza era una costante in Inghilterra, come ad esempio la nota coalizione tra minatori che sfilavano alle parate gay e attivisti omosessuali che partecipavano agli scioperi sindacali. Questo ha portato a dei risultati. Talvolta mi domando: se noi attraverso il Pride ci alieniamo l’intera classe lavoratrice serba, allora a che cosa serve il Pride, e a che cosa andiamo incontro?
Come descriveresti il problema del Pride in Serbia?
Da queste parti esiste una specie di fatalismo del Pride, ovvero che ‘deve svolgersi a tutti i costi’. Ma insistere con questo atteggiamento è deleterio. Ho l’impressione che negli ultimi tre anni si siano prodotti solo effetti negativi, e questo è un dato che va analizzato seriamente. Ma per analizzarlo seriamente abbiamo bisogno della teoria, per non adottare acriticamente modelli che non fanno altro che riprodurre discorsi occidentali sui diritti umani, e anche per non arrivare a chiederci, increduli, come faccia la gente ad essere così primitiva e refrattaria all’europeizzazione. Incolpare il popolo perché tu, per qualche ragione, non sei riuscito a mobilitare e sensibilizzare le persone… è una totale assurdità.
Per definizione, gli approcci queer mettono in discussione ogni forma di istituzionalizzazione. Anche la propria?
Qui i pareri sono discordanti. Comprendo bene il problema dell’istituzionalizzazione di qualcosa che si presume essere critico delle istituzioni. Ma non è la stessa cosa se dalla nostra cattedra critichiamo il capitalismo oppure se non lo critichiamo, proprio mentre è in corso il processo di inclusione nel sistema capitalistico mondiale, a prescindere dal fatto che quella cattedra, per via di quel processo, diventa essa stessa parte del sistema. Ciò che conta è mantenere un punto di resistenza, quand’anche si trattasse solamente di elaborare un’alternativa. Perché solo attraverso questo tipo di pensiero si può produrre qualcosa. Se manca, non si può fare nulla.
Ovviamente esiste una controtesi che dice “sì, ma il pensiero alternativo e la critica sono già parte integrante di un sistema che si presenta sempre come critico, e via dicendo”. Sono d’accordo. Sì, certamente, il sistema può permettersi che nell’ambito accademico circolino slogan marxisti, e che addirittura si invochi la rivoluzione come fa, ad esempio, Žižek. Tuttavia, senza quel tipo di pensiero non saremmo in grado di concepire alcuna alternativa pratica a ciò che sta accadendo. Poco importa che al momento questo pensiero sia integrato nel sistema; in futuro, esso potrà davvero porsi come alternativa, generando così una nuova prassi. Ma questo può succedere soltanto in conseguenza di una teoria precedentemente elaborata.
Se si istituzionalizza non sarà più queer, ma si aprirà uno spazio per elaborare qualcosa di diverso. Non escluderei la possibilità che a un certo punto il pensiero queer si esaurisca ed emerga una nuova struttura concettuale. Ma il fatto stesso che esista l’approccio queer, che ci invita a riconsiderare le norme dominanti, le idee preconcette sulla sessualità e molto altro ancora, mi fa sperare che la formazione di un’alternativa sia possibile. Poco importa se si chiamerà queer oppure no.
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