Bambini di Bjelave: la storia di Amer e Alen
Kenan e Haris Hasanagić hanno cercato per anni tracce di Amer e Alen Ljuša, i due cugini che nel 1992 partirono da Sarajevo per essere accolti in Italia assieme ad altri bambini dell’orfanotrofio di Bjelave. Invece di essere riportati in Bosnia alla fine della guerra, vennero dati in adozione. Si sono ritrovati l’estate scorsa, con l’aiuto di OBCT. L’intervista a Kenan Hasanagić
Il 18 luglio 1992 da Sarajevo, già sotto assedio da tre mesi, partì verso l’Italia un convoglio di 46 bambini tra orfani e minori con situazioni disagiate che stavano all’orfanotrofio, per metterli temporaneamente in salvo. Dopo il conflitto però non sono più rientrati in Bosnia ma sono stati dati in adozione nonostante alcuni di loro avessero i genitori biologici in vita. Tra di loro c’erano i due fratelli Amer e Alen Ljuša, che all’arrivo in Italia avevano rispettivamente 4 e 6 anni. Grazie a OBCT, sono riusciti a entrare in contatto con parte della famiglia bosniaca e cioè i cugini Haris e Kenan Hasanagić. L’intervista a Kenan.
Come mai avete deciso di cercare i vostri cugini Amer e Alen Ljuša, dopo tanti anni?
Sapevo che esistevano questi miei cugini, che un’operatrice dell’orfanotrofio di Bjelave era in contatto con tutti i bambini accolti in Italia nel luglio del 1992 ed era anche stata a trovarli al Centro Mamma Rita di Monza. Ma, ad essere sincero, allora non mi ero molto interessato a loro, da un lato perché ci eravamo frequentati pochissimo nei pochi anni che hanno vissuto in Bosnia e poi perché ero un ragazzino di soli 12 anni.
Sapevo che esistevano e punto. Solo quando mi sono sposato ho cominciato a cambiare, sono maturato e ho cominciato a pensare alla vita, a desiderare dei figli – oggi ne ho due, di 4 e 7 anni – così ho cominciato a pensare ai miei cugini come se fossero miei figli e ho deciso di cercarli.
Quando hai cominciato?
Nel 2009, con internet e la nascita dei social. Ho cominciato a cercarli su Facebook, in diversi gruppi: ho trovato gruppi di persone che erano di Sarajevo ma da profughe erano andate a vivere all’estero, gruppi di persone allora bambini e che stavano all’orfanotrofio e così via. Ho cominciato a scrivere loro, qualcuno mi rispondeva, qualcuno no. Fino ad un certo punto in cui si è fatto vivo Jasenko il quale mi ha detto che conosceva i miei cugini Amer e Alen perché stavano nella stessa stanza al Centro Mamma Rita dove erano stati accolti in Italia.
Per cui lui ti ha dato informazioni sui tuoi cugini?
Mi ha solo detto che uno si chiamava Luca e non più Amer perché glielo avevano cambiato al momento dell’adozione e che viveva in Lombardia. Per me questa è stata una notizia importantissima, avevo finalmente trovato una traccia. Tramite Facebook mi ha mandato alcune loro foto da bambini scattate al Centro, ma poi non mi ha più risposto. Non capivo se non si ricordava altro oppure se non se la sentiva di parlarne.
Allora ho deciso di fare un gruppo Facebook che ho chiamato "Luca Lombardia". Ho cominciato a cercare in tutti i profili di persone che si chiamavano Luca – non sapevo purtroppo il nuovo cognome da adottato – e che abitavano in Lombardia. Ad un certo punto sono anche stato bannato da Facebook, forse perché mi avevano tracciato e considerato spam o altro. Tutto questo è andato avanti mesi e mesi ma senza risultati.
Quindi hai lasciato perdere?
No! Ho continuato a cercare e sono incappato in un gruppo proprio di coloro che allora erano al Centro Mamma Rita, ma solo di quelli che erano già adolescenti mentre erano lì [non sono stati dati in adozione perché avevano superato i 12 anni di età ndr] i quali si ricordavano dei bimbi più piccoli, quindi anche di Amer e Alen, ma non sapevano dove fossero finiti una volta adottati. In pratica ogni tanto si faceva vivo qualcuno di loro, mi dicevano "sì mi ricordo di loro" ma niente di più. L’unico dal quale ho ottenuto un’informazione è stato Jasenko.
C’erano così tanti Luca in Lombardia… è stata una ricerca impossibile. Poi ho cominciato a riflettere sul fatto che quando erano arrivati in Italia erano molto piccoli e magari non si sarebbero nemmeno ricordati qualcosa delle loro origini o i nomi dei parenti.
Nonostante non ci riuscissi ero tranquillo perché certo che in Italia stessero comunque bene, vivessero meglio che non qui in Bosnia. Il mio unico desiderio era far loro sapere qualcosa di Sarajevo, la città in cui avevano per quanto poco vissuto. Volevo dire loro della morte del padre, il fratello di mia madre. Pensavo che fosse importante per loro saperlo.
Per quanto tu fossi bambino, ti ricordi che rapporti avevi con loro?
Prima della guerra non avevamo avuto tanti contatti con loro e con i loro genitori. Non so il motivo ma la mia famiglia e la loro non si vedevano spesso. L’unica cosa che so è che l’allontanamento si è creato con la separazione tra la madre e il padre di Amer e Alen. So di averli visti qualche volta, ma non mi ricordo di aver passato tempo con loro, averci giocato o altro.
Poi, nell’aprile del 1992, è iniziato l’assedio di Sarajevo…
Sì e quasi subito siamo stati obbligati a sfollare da dove abitavo con la mia famiglia a Vogošća, che era a 6 chilometri dal centro, perché ne avevano preso il controllo i serbo-bosniaci [lo scorso 30 agosto Jovan Tintor, che durante la guerra era a capo del comando di crisi a Vogošća, è stato condannato in primo grado a 11 anni di carcere per crimini perpetrati su civili non-serbi ndr], verso Vratnik nella parte vecchia di Sarajevo dove abitava nostra nonna materna, e quindi anche la nonna di Amer e Alen per parte del loro papà. Lui abitava con sua madre e da quel momento ho cominciato a passare molto tempo con lui.
Era stato arruolato a difesa della città e quando tornava a casa dal fronte andavamo insieme alla Sarajevska Pivara [la Fabbrica di birra , che ha una sua fonte di acqua potabile profonda 350 metri e che durante la guerra salvò migliaia di cittadini dalla sete ndr] con un carrettino costruito apposta al quale appendevamo due grosse taniche da riempire d’acqua.
Abbiamo così cominciato a conoscerci, ad avvicinarci. Lui era un tifoso della squadra di calcio "Sarajevo" io invece del "Željo" [così viene chiamata la squadra Željezničar, sempre di Sarajevo ndr] e su questo ci beccavamo sempre con affetto… per la prima volta cominciavamo a conoscerci veramente.
Ti ha mai parlato dei suoi figli Amer e Alen?
Sì, sapeva che i bambini erano stati portati in Italia. Ma io ero un ragazzino e non ho mai chiesto molto né pensato tanto a questo fatto, avevo altro a cui pensare. Tutti noi eravamo convinti che loro stessero bene, al sicuro, mentre noi in Bosnia eravamo in guerra e dovevamo pensare alla pura sopravvivenza.
Poi però il 28 luglio del 1993 mio zio, che si chiamava Kenan come me, è morto al fronte nella parte est di Sarajevo. È caduta una granata a un metro da lui ed è morto sul colpo. Avevo già 13 anni ma ne sono rimasto molto scioccato, anche perché è accaduto nel momento in cui eravamo diventati molto affiatati. Io e mio fratello Haris amavamo stare ad ascoltare i suoi racconti del periodo di prima della guerra, quando mi parlava di uno zio e poi di un altro.
Dopodiché, pur con la guerra, noi bambini e ragazzi cercavamo di vivere normalmente, come se non fossimo sotto assedio. Ovviamente normale nella totale anormalità. Andavamo a prendere l’acqua o a procurarci del cibo, nascondendoci se si sentiva cadere una granata o correndo agli incroci per non essere presi dai cecchini… Insomma, ci adattavamo alla situazione.
Dopo la guerra, quando avete sentito parlare dei bambini che erano stati portati in Italia?
Ricordo che un paio di volte i media avevano parlato di loro e avevano anche pubblicato delle fotografie di quei bambini. Mia madre allora ha deciso di andare all’orfanotrofio Bjelave per chiedere informazioni. Quando è tornata a casa ci ha detto di aver saputo che erano ancora in Italia e che stavano bene, niente altro. Solo dopo un certo periodo abbiamo sentito che erano stati dati in adozione.
Sinceramente non avevamo visto in questo nessun problema, visto che il loro padre era morto e della madre non sapevamo nulla da anni. Abbiamo anche pensato che comunque sarebbero stati meglio là che non qui dove tutto era distrutto, non c’era lavoro, c’era tutto da ricominciare.
Poi non ne avete saputo più nulla?
Solo dopo un certo tempo, agli inizi degli anni 2000, in televisione hanno dato la notizia che c’erano dei genitori che cercavano i propri figli e che chiedevano venissero riportati a Sarajevo. Tra questi anche Uzeir Kahvić che cercava la figlia Sedina.
Così ho cominciato a seguire il caso, uscito varie volte sui media perché negli anni i genitori biologici hanno cominciato a rivolgersi alle autorità italiane e bosniache [si veda la prima parte dell’intervista all’attivista per i diritti umani, Jagoda Savić ndr], ma senza pensare di mettermi anch’io a cercare i miei cugini. Però, dato che mio fratello Haris finita la guerra nel 1996 ha deciso di andare in Italia a vivere, mia madre a un certo punto gli ha chiesto di provare a telefonare al Centro Mamma Rita a Monza, visto che sapeva un po’ di italiano, per farsi passare Alen e Amer e sapere come stavano. Non ci è riuscito, lo hanno solo informato che erano stati adottati.
Così sono passati dieci anni senza che io avessi fatto nulla di concreto per trovarli. E poi l’estate scorsa è successo tutto…
Cosa è accaduto, esattamente?
Nel 2011 Haris, che aveva continuato ogni tanto a cercare su internet qualche informazione sui bambini adottati, è incappato nell’articolo che avevate pubblicato voi di Osservatorio nel 2006 sulla ricerca di Sedina da parte del padre Uzeir, e sotto a quell’articolo ha lasciato un commento chiedendo aiuto per trovare i nostri due cugini Alen e Amer Ljuša.
Insomma, era uno dei tanti tentativi che facevamo ogni tanto cercando in rete, anche tra gli ex bambini che erano restati all’orfanotrofio di Sarajevo e che magari erano entrati in contatto con quelli che erano finiti in Italia.
Ad un certo punto si è anche fatta viva una donna, una certa Vanja, che mi ha mandato la foto di un bambino scrivendomi che aveva letto della mia ricerca e che anche lei ne stava cercando uno che aveva solo due anni quando era stato portato via da Sarajevo con quel convoglio del 1992. In un secondo momento si è rifatta viva dicendomi di aver trovato due profili su Facebook sicura che fossero i miei cugini. Li ho contattati e invece non erano loro. È stata una grande delusione, ci ha preso lo sconforto, sia a me che a mio fratello, mia moglie e mia madre. Soprattutto lei, che era così felice di aver saputo che avevamo trovato il modo di entrare in contatto con loro… e invece nulla, il vuoto.
Così Amer, cioè Luca, solo nel 2017 ha letto il commento di tuo fratello Haris sotto l’articolo e ci ha chiamati in redazione. Dopo nostre ricerche siamo riusciti a mettervi in contatto.
Grazie a voi ci siamo finalmente trovati, dopo anni che ci si cercava reciprocamente! La prima volta che Haris ha chiamato Amer/Luca, sua moglie Lorenza contemporaneamente era in videochiamata con me che stavo a Sarajevo. Così ho potuto vedere attraverso il cellulare di Lorenza mio fratello Haris che parlava in videochiamata con Luca. È stato emozionante.
Subito ci siamo chiesti reciprocamente se avevamo il profilo Facebook per sentirci via Messenger… Poi, visto che io so un po’ di italiano perché ho lavorato da stagionale in Italia, ho cominciato a chiedere a Luca "Come stai? Cosa fai? Guarda che faccia che hai oggi!". Lo bombardavo di domande mentre Haris mi continuava a dire "polako, polako! (piano, piano)".
Dopodiché Haris gli ha mandato alcune foto della sua famiglia in Italia ma anche di me e di nostra madre e sono rimasti d’accordo che sarebbe andato a trovare Luca, che stava in provincia di Milano. Avevamo previsto che partissi anch’io da Sarajevo per essere presente a quel primo incontro, ma purtroppo a causa del lavoro non mi era stato possibile organizzarmi in così poco tempo.
Tramite Luca abbiamo saputo che erano stati adottati da due famiglie diverse, ma che Amer ha cercato il fratello senza sosta, per trovarlo anni dopo l’adozione. Però Alen a quel primo incontro tra Haris e Luca non era potuto venire per problemi familiari ma erano rimasti d’accordo di rifarlo a breve.
A differenza di Amer, Alen, che aveva sei anni nel 1992, ci ha raccontato al telefono di avere dei ricordi di quando abitava qui e siamo rimasti d’accordo che ci saremmo visti a Sarajevo per continuare a parlarne a quattrocchi.
Avete mai saputo nulla di vostra zia, la madre di Amer e Alen?
Purtroppo no. Ne ho proprio parlato con mio fratello Haris e mi ha chiesto di cominciare a cercare informazioni, qui a Sarajevo. Prima della guerra vivevano in un’altra parte della città e non ci frequentavamo, poi i loro genitori si sono separati, poi è arrivata la guerra e mio zio è morto… La nostra speranza è di trovarla e così riuscire a rimetterla in contatto con i suoi figli, ora che li abbiamo trovati. Speriamo che voi, assieme alla Rai con cui avete fatto un servizio sulla nostra storia , possiate aiutarci ancora una volta. Sarebbe un’altra conclusione felice…
Per approfondire
Leggi gli articoli dedicati da OBCT a questa inchiesta:
"I Bambini di Bjelave: la ricerca continua", 6 settembre 2018
"I Bambini di Bjelave: un caso ancora aperto" e "I Bambini di Bjelave: alla ricerca di Sedina", del 12 e 21 settembre 2018
Guarda il servizio "Orfani di pace " realizzato a Sarajevo da Andrea Oskari Rossini di Rai in collaborazione con OBCT, andato in onda nella trasmissione "EstOvest"
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