Balcani – UE, la prospettiva dell’allargamento è sempre più lontana
L’UE ribadisce l’impegno ad integrare i Balcani occidentali, ma la prospettiva di un allargamento diventa sempre più distante. Schiacciati dalla conflittualità tra Occidente e Russia, i paesi del Partenariato orientale sembrano definitivamente fuori dai giochi
Questo commento è stato originariamente pubblicato su EURACTIVE Italia
Nella “relazione complicata” tra Unione europea e Balcani occidentali il 2021 non ha portato a svolte inaspettate o pirotecnici colpi di scena. Anzi. L’amore a prima vista, dichiarato con appassionato fervore al summit di Salonicco del 2003 – quando a tutta la regione venne promesso un futuro europeo di pace e prosperità – si è trasformato negli anni in un affetto sempre più meccanico e freddo, con brevi slanci e lunghe pause di riflessione.
L’UE ribadisce spesso che la promessa è ancora valida, come messo per l’ennesima volta nero su bianco nelle conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo sull’allargamento dello scorso 14 dicembre. Ma la prospettiva è spostata in un futuro che si fa sempre più lontano per i primi della classe – come Montenegro e Serbia. E incerto – se non senza speranza – per la Bosnia Erzegovina, la cui fragile struttura scricchiola sotto nuove minacce di conflitti etnici o il Kosovo, ai cui cittadini Bruxelles non si riesce a garantire nemmeno l’abolizione dei visti d’ingresso ai paesi dell’Unione.
Anche dove il consenso è unanime o quasi, questioni politiche interne e dispute bilaterali continuano ad impastoiare il cammino europeo della regione. Come quella tra Bulgaria e Macedonia del nord, che ha portato Sofia a porre il veto all’apertura della cornice negoziale con Skopje – e che ha bloccato di riflesso anche l’Albania, che procede sulla strada dell’integrazione a braccetto coi vicini macedoni. Un conflitto fatto di molto passato e poco futuro, con rivendicazioni storiche e culturali difficili da comprendere lontano dai Balcani. Il nuovo governo bulgaro, guidato dall’astro nascente Kiril Petkov, centrista e pragmatico, ha promesso un approccio innovativo e diverso, riaprendo le speranze di una soluzione dei contrasti già nei prossimi mesi. Ma anche in questo caso, senza alcuna certezza.
Qualche slancio, come detto, continua a smuovere le acque intorbidite dalla sfiancante attesa, anche per il timore che alla lunga le sirene interessate di terzi incomodi come Cina, Russia e Turchia possano avanzare i propri interessi nella regione. Alla vigilia dell’inaugurazione della presidenza semestrale francese, che parte dal prossimo gennaio, il presidente Emmanuel Macron ha usato un tono inaspettatamente deciso nei confronti dei Balcani, parlando di “speciale responsabilità” nei loro confronti e di voler “chiarire le loro prospettive europee”. Più concretamente, dopo due anni di mancati progressi, nei giorni scorsi la Serbia ha visto aprire nuovi quattro capitoli negoziali del “pacchetto verde” che include cambiamento climatico, infrastrutture, energia e trasporti, nonostante le preoccupazioni sul crescente autoritarismo del presidente Aleksandar Vučić.
A una visione d’insieme, l’UE appare rassegnata alla perdita di iniziativa politica e potere di trasformazione nell’area più vicina e sensibile del suo “estero vicino”, e di puntare ad un sostanziale congelamento dei rapporti con la regione. Gli stimoli europei non mirano più a modellare i candidati balcanici secondo principi democratici e supremazia dello stato di diritto, ma a garantire stabilità e collaborazione su dossier prioritari – come quello delle migrazioni – in attesa di tempi migliori.
Se i Balcani occidentali navigano in un mare in bonaccia, in attesa di un alito di vento, le acque del Partenariato orientale – l’anello di vicini europei a ridosso della Russia di Putin – negli ultimi anni vengono invece spazzate da raffiche sempre più burrascose.
Dei sei membri originali uno – la Bielorussia – si è perso per strada nei mesi scorsi, spinto dalla stretta autoritaria di Lukashenko sempre più lontano dall’UE. Due, l’Armenia e l’Azerbaijan, hanno riacceso nel 2020 le micce del conflitto armato per il Nagorno Karabakh, in uno scontro che ha portato alla sconfitta di Yerevan e ad almeno cinquemila vittime. Altri due, Moldavia e Georgia, fanno invece i conti da anni con il mancato controllo di parte del proprio territorio e la presenza stabile di truppe russe.
L’ultimo e il più importante, l’Ucraina, è nuovamente sull’orlo del conflitto aperto con la Russia, e da settimane i servizi occidentali denunciano una possibile invasione in grande stile da parte del Cremlino. L’UE non lesina le minacce di ritorsioni, come un possibile inasprimento delle sanzioni a Mosca, ma senza una chiara intesa su quali azioni della Russia potrebbero far scattare una reazione né sull’entità di un’eventuale risposta europea.
In una situazione così complessa, la decisione di tenere il sesto incontro del Partenariato – in occasione del Consiglio europeo di metà dicembre – e di rilanciarlo intorno alla formula “recovery, resilience and reform”, ha sicuramente il pregio di lanciare un segnale politico di rinnovata attenzione. La nuova cornice di cooperazione approvata da Bruxelles porta ai paesi coinvolti finanziamenti per 2,3 miliardi di euro, destinati a piccole e medie imprese, infrastrutture, mobilità, sviluppo sostenibile.
Per la prima volta, poi, il presidente azero Ilham Aliyev e il presidente armeno Nikol Pashinyan si sono incontrati sotto l’egida europea e non russa, uno sviluppo non scontato e foriero di possibili sviluppi positivi in Caucaso.
Nel complesso però, nonostante alcuni passi in avanti, la questione centrale, quella di una possibile prospettiva di adesione – anche in un futuro lontano – sembra ormai definitivamente abbandonata. Anche se a parole si rifiuta la pretesa russa ad una propria sfera d’influenza in Europa orientale e nel Caucaso, nei fatti i paesi del Partenariato si delineano sempre di più come una zona cuscinetto tra l’Unione europea e Mosca. Un’area grigia, che l’UE vuole tenere vicina, ma non tanto da risvegliare la gelosia minacciosa della Russia.
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