Baia Mare, i vinti della transizione
Un reportage da Baia Mare, al confine tra Romania, Ucraina e Ungheria. L’incontro con chi si batte al fianco dei vinti della transizione
Si dice che il cielo che sovrasta Baia Mare sia particolarmente intenso, e che una volta la città sia stata colonizzata da alcuni pittori d’avanguardia alla ricerca di colori insoliti e luminosi; quegli stessi colori che, riflettendosi sulla neve ghiacciata di un inverno a -20gradi, hanno accompagnato il nostro viaggio tra i campi rom al confine con l’Ucraina.
Siamo sulle pendici dei Munții Maramureșului, nella regione di Maramures, Romania nord-occidentale. Letteralmente “Grande Buca” per via delle sue ricche miniere d’oro, Baia Mare è terra di confine, lontana dalla più movimentata e moderna Bucarest, dove la vita scorre secondo i ritmi di un capitalismo distorto e accelerato. Qui all’incirca 115.000 anime convivono e si confrontano con le differenze residuali e gli effetti ancora persistenti di periodi storici mai veramente sopiti, in una particolare combinazione di rurale e moderno.
Tra i polverosi palazzoni della città nuova, e le antiche botteghette di placinta incastrate tra spogli centri commerciali, la sensazione che si avverte è quella di un tentativo mal riuscito di rialzarsi, di confrontarsi con la modernità: nell’urbanistica, nella vita economica, politica e sociale sembra essere mancata una qualsiasi fase intermedia capace di favorire il passaggio tra una cosa e l’altra.
La ciminiera più alta d’Europa svetta sui kombinat, gli ex edifici che ospitavano gli operai impiegati nell’industria socialista. Il nostro è un viaggio che si inoltra dentro le zone d’ombra di questo passaggio, è una testimonianza dai confini meno comprensibili di un cambiamento radicale, dove ancora non sussistono schemi o forme definite, laddove è ancora possibile qualsiasi cosa.
La stazione
E’ la stazione ferroviaria di Baia Mare il luogo in cui le zone d’ombra iniziano ad emergere, è qui che questi confini iniziano a pesare sulla nostra coscienza.
Una bambina è ferma immobile nel bel mezzo di un incrocio, il sacchetto di colla ben stretto tra le mani, i piedi nudi sulla neve sporcata dalle marmitte delle macchine. I clacson suonano e i dischi dei freni stridono, ma la bambina continua a ondeggiare senza rendersi conto del pericolo. Rimaniamo col fiato sospeso finché, lentamente, riesce a raggiungere il bordo del marciapiede. I passanti continuano indifferenti per la loro strada: normale amministrazione qui a Baia Mare.
Li chiamano “i ragazzi della stazione”. Randagi di strada strafatti di colla che per sopravvivere svendono il corpo e aspettano qualche pasto caldo fornito dal furgoncino dell’associazione Voluntari Somaschi. Sono moltissimi: rom, moldavi, ma anche ungheresi. Li si vede attendere impazienti l’arrivo del treno per poi rincorrere qualche viaggiatore con la speranza di racimolare qualche spicciolo per la colla.
La colla è una ferita che qui ha le dimensioni di una piaga sociale. Solventi per scarpe del costo di 2 lei inalati in modo sistematico fino al collasso cerebrale. La colla fa passare la fame, fa passare il freddo, fa passare le giornate. E’ un porto sicuro, un migliore amico con cui condividere le proprie paure.
Qui ad occuparsi di questi ragazzi è la Fondazione Somaschi fondata da Padre Albano, senza la quale a Baia Mare sarebbe difficile parlare di assistenza sociale. Oltre a fornire una forma primaria di sussistenza, l’Associazione, attiva da ormai dieci anni sul territorio, si occupa dell’organizzazione di una vasta gamma di attività volte all’inclusione sociale dei gruppi svantaggiati, che spesso e volentieri coincidono con le minoranze etniche presenti in Romania. Sarà Bogdan Ilutiu, presidente dell’associazione, ad accompagnarci per 5 giorni nelle zone più remote della marginalità, dove ogni giorno si combattono ad armi impari la ghettizzazione, il razzismo, la paura.
Incontriamo Bogdan per la prima volta in un’osteria della città vecchia. E’ la sera del 15 gennaio, e fuori la temperatura sfiora i -10 gradi. E’ un freddo secco, che ghiaccia i polmoni a ogni respiro; la neve ricopre completamente ogni superficie percorribile e rende impossibile camminare senza rischiare l’osso del collo.
“Siete stati fortunati” esordisce Bog, “la settimana scorsa abbiamo toccato i -24”. Parla bene l’italiano Bogdan, e non è l’unico qui. Accanto a lui siede Cristina, che scopriamo essere una team manager dell’associazione Somaschi. Ceniamo con calma, iniziando a conoscerci tra i sapori contadini della cucina romena. Tra un cucchiaio e l’altro di ciorba de burta il senso del nostro incontro si allarga, sconfinando in considerazioni che non avevamo previsto. Alla domanda di raccontarci le conseguenze sociali del processo di transizione iniziato dopo la caduta del regime nel 1989, Bog risponde con calma e lucidità.
“Dopo la caduta del regime”, racconta, “il cambio di sistema economico e l’inizio delle privatizzazioni innescarono un processo terrificante, a cui nessuno di noi era preparato. Baia Mare era un centro monoindustriale dedito all’estrazione mineraria, e una grossa fetta della popolazione era impiegata o in questa industria, o in quella tessile. Mia madre perse il lavoro e dovette reinventarsi, come altre migliaia di persone qui a Baia Mare. In tantissimi emigrarono in cerca di fortuna, e ben presto gli ex centri monoindustriali come questo diventarono città fantasma. La deprivazione e i continui tagli ai servizi pubblici peggiorarono infine la già difficile situazione tra la parte della popolazione maggioritaria e quella minoritaria”.
“Quelli più colpiti furono sicuramente i rom” interviene Cristina. “Se prima il regime garantiva loro la possibilità di lavorare nelle fabbriche, ora la situazione rende impossibile ogni tentativo di inserimento. Manca il lavoro, mancano le forme d’assistenza e i programmi di scolarizzazione. Qui il capitalismo ha creato differenze sociali enormi, lasciando indifese grosse fette di popolazione e marginalizzando i gruppi minoritari”.
Cristina ha lavorato per anni alla Caritas, crescendo professionalmente al suo interno, per poi decidere di licenziarsi e di iniziare un nuovo percorso con la Fundatia Somaschi di Padre Albano.
“Con Somaschi ho avuto la possibilità di andare veramente alla radice del problema, e di rendermi conto di quanto sia impossibile combattere la segregazione attraverso semplici progetti assistenziali. Serve innanzitutto cambiare la percezione che noi stessi abbiamo del nostro lavoro, entrando nell’ordine d’idee che le strategie di integrazione vanno messe in piedi sul campo, assieme agli stessi interessati, e non attraverso processi top-down privi di qualsivoglia fase intermedia”.
Ma questo non è semplice a Baia Mare, e lo capiremo solo nei giorni successivi, quando la gravità della situazione distruggerà in un attimo ogni nostra aspettativa. Lasciamo Bog e Cristina dopo mille sigarette e qualche birra di troppo. Il centro è deserto, i lampioni illuminano la piazza principale. Tutto sembra immobile.
Padre Albano
Conoscere padre Albano è un’esperienza. Non è il genere di missionario che ci si aspetta, o sarebbe meglio dire che non rientra in nessun altro tipo di categoria. Occhi azzurri vibranti, naso adunco e una chiacchiera letale. Avevamo già sentito parlare di lui molte volte, alla stregua di un personaggio leggendario che combatte il male conto ogni pronostico. Lo incontriamo in una delle case gestite dalla Fondazione, dove vive e organizza le attività.
Entriamo in uno stanzone poco illuminato, e lo troviamo ad armeggiare con degli strani oggetti appoggiati su di un tavolo. “Se ve lo steste chiedendo”, esordisce “questi cosi sono la nuova frontiera per l’illuminazione delle capanne”. Ci avviciniamo al tavolo per osservare meglio. “Vedete”, continua “nei campi rom il problema dell’illuminazione è sempre stato un diavolo con cui fare i conti. Le capanne non hanno la possibilità di allacciarsi all’elettricità, e di conseguenza abbiamo pensato di chiedere al politecnico di Torino di creare uno strumento che potesse risolvere la situazione. E ci hanno spedito questi. Delle semplici pile da un euro che si alimentano grazie ad un sistema che trasforma il calore delle stufe in impulso elettrico. Con questi cosi si risolve tutto, sono piccoli, semplici e non costano un cazzo”.
Rimaniamo per un attimo basiti di fronte alla schiettezza del personaggio e al fascino di quegli oggetti. Chiediamo di provarli e di fotografarli, e lui ci mostra nel dettaglio il funzionamento. E’ simpatico, Padre Albano, emana un’aura buona velata da un carattere energico e deciso, a tratti polemico. Da quando è in Romania, ne ha viste e fatte tante. La sua ultima trovata è stata quella di imbastire un import-export di legname tra la Romania e l’Italia per finanziare un mercatino di vestiti usati e di beni di prima necessità a prezzi stracciati. Con il suo furgone e l’aiuto dei volontari, preleva i ragazzi dalla strada e li porta su, sui monti, a far legna. In questo modo è riuscito a creare un canale alternativo per immettere i ragazzi in un mondo diverso, per dar loro una possibilità.
Salutiamo Padre Albano, consapevoli dell’incontro ormai prossimo con ciò che stavamo cercando. I pensieri si susseguono mentre il ronzio del motore che ci guida nella notte fa da sottofondo.
Kombinat
Il mattino seguente lascia spazio ad un sole invernale che cerca timidamente di scaldare l’atmosfera gelida. Sul ciglio della strada sommersa da cumuli di neve indurita iniziamo a camminare verso Strada Electrolizei, dove svetta il cadavere di quella che fu una delle più grandi industrie minerarie della Romania, la CUPROM. E’ Strada Electrolizei a racchiudere tutto il senso della nostra ricerca, è l’ombra della ciminiera più alta d’Europa a rappresentare la dinamica distorta intercorsa tra privatizzazioni post regime, politiche abitative ed esclusione sociale. E’ questo il luogo in cui abbiamo potuto osservare come il sottosviluppo delle aree periferiche, le precarie condizioni abitative in territori geograficamente isolati ed il fallimento delle politiche pubbliche nazionali abbiano interagito con la marginalizzazione ed incrementato quelle che si possono definire “aree di segregazione funzionale”.
Perché è questo ciò che ci si trova di fronte quando si arriva ai piedi della ciminiera più alta d’Europa, dove sorgono – o sarebbe meglio dire decadono – i kombinat, gli ex stabilimenti operai abbandonati dopo la caduta del regime. Palazzoni fatiscenti abitati ora da intere comunità rom, di fronte ai quali anche il termine brutalismo sovietico diventa inadatto nel rendere l’idea. Si parla di centinaia di famiglie stipate dentro a vere e proprie bombe ad orologeria, dove le fughe di gas e gli incendi sono all’ordine del giorno, dove la sporcizia si accumula e cola giù da un piano all’altro. Ora c’è la neve a coprire le montagne di spazzatura ed escrementi, ma d’estate il tutto si trasforma in una discarica a cielo aperto. Una sorta di villaggio post-industriale in cui esseri umani, cavalli e maiali condividono il pochissimo spazio esistente.
Il muro di Baia Mare
Strada Electrolizei e la situazione dei rom di Baia Mare balzarono all’attenzione internazionale qualche anno fa dopo un’ambigua mossa dell’amministrazione comunale. Il sindaco Cătălin Cherecheș – rieletto lo scorso anno mentre si trovava agli arresti domiciliari per corruzione – mise infatti nella sua agenda elettorale la demolizione di Craica (uno dei più poveri campi rom ai margini della città), argomentando così la scelta: “Le sacche di povertà cittadine, dove da vent’anni vengono costruite abitazioni improprie, e dove mancano acqua, una rete fognaria e l’elettricità, devono essere estirpate in quanto rappresentano un disagio per coloro che vivono nei distretti urbani del comune”.
Almeno metà della baraccopoli di Craica venne di conseguenza demolita, e un numero non precisato di famiglie venne letteralmente deportato in Strada Electrolizei, costretto nei kombinat di fronte ai quali ci troviamo ora. Solo quando l’amministrazione venne aspramente criticata dalle organizzazioni umanitarie Cherecheș iniziò a parlare di veri piani di integrazione, che rimasero però solo sulla carta.
Non molto tempo dopo, infatti, il sindaco diede l’ordine di recintare la zona dei kombinat con uno spesso muro di cemento alto circa 2 metri. La giustificazione addotta risiede nell’ampia definizione di “sicurezza cittadina”: “Il muro di Horea-Electrolizei è stato costruito per limitare i numerosi incidenti occorsi in zona”, dichiarò il primo cittadino. “Molti bambini rom, giocando fra i palazzi, correvano il rischio di finire in strada e venire investiti dalle auto. Alcuni di loro, inoltre, si divertivano a lanciare sassi contro gli automobilisti. Grazie a questo muro siamo tutti più sicuri”. Ma la versione secondo cui il muro avrebbe dovuto salvaguardare i bambini rom dai pericoli della strada non convinse una buona parte dell’opinione pubblica, la quale invece parlò di vero e proprio “muro di segregazione”.
Come raccontato in “Il muro di Baia Mare ”, un mini reportage a cura di Gabriele Pieroni, muro o non muro, è un’altra la barriera da abbattere fra i kombinat. “La ghettizzazione non è frutto del muro. È semmai l’opera di anni di politiche sociali sbagliate, che portano i rom a vivere tutti assieme in quartieri dove la loro presenza è maggioritaria (…). Il muro è una prigione che fa comodo un po’ a tutti. Gli zingari non vedono ciò che succede fuori, è vero. Ma da fuori, nessuno può vedere quello fanno dentro”.
Lungi dall’essere qualcosa di solido e concreto, il Muro di Baia Mare diventa quindi un’opera liquida e indefinita, un simbolo pesante di una situazione cancrenizzatasi nel più ampio contesto del cambiamento sistemico romeno: come reazione alla pressione di forze strutturali, le fasce sociali impoverite si ritrovarono a fare i conti condizioni socio-economiche sempre più marginalizzanti e speculari ad una nuova conformazione sociale, urbana, esistenziale. Le nuove politiche abitative diventarono una delle maggiori cause nella creazione dei cosiddetti “poverty pockets”, ovvero marginalità geograficamente isolate, socialmente segregate e culturalmente stigmatizzate. Termini quali “risanamento edilizio” e “programmi di sviluppo urbano” diventarono ben presto sinonimi di deprivazione e divisione territoriale. Dal punto di vista delle fasce più colpite, tra le quali spiccano le minoranze etniche, il corrotto e distorto mercato immobiliare sostenuto dalle nuove politiche statali generò un processo tutt’altro che democratico, privando le fasce più deboli della possibilità di agire come cittadini.
Nell’ottobre 2013, ad Eforie, il sindaco Ovidiu Brăiloiu demolì le abitazioni di 100 rom etnici senza alcun piano di ricollocamento; le parole che pronunciò per l’occasione possono essere prese come lo specchio dell’intera vicenda: “Per l’inverno se ne andranno sicuramente nella campagna. Non li sto mandando via, ci andranno con le loro stesse gambe. Faremo quello che è nostro dovere fare: dreneremo l’area, puliremo, rimuoveremo la spazzatura. Sapete come funziona: quando la macelleria chiude, il cane rimane ad aspettare per qualche giorno, ma alla fine se ne deve andare”.
Minoranze tra esclusione e condizionalità europea
E’ piuttosto ironico che le ultime due decadi siano state gli “heydays” del multiculturalismo e delle politiche identitarie. In un certo senso, i gruppi minoritari non sono mai stati così istituzionalmente tutelati come ai nostri giorni. Ciononostante, sembrano nascere nuove e discriminatorie risposte per ogni domanda verso una società più giusta. Volenti o no, in molti casi, le politiche di inclusione errate da una parte hanno riprodotto e consolidato il problema, mentre dall’altra hanno perpetuato la credenza che il sistema sociale e istituzionale entro il quale i rom sono inseriti sia accettabile, e che siano solo i rom a dover attuare dei cambiamenti per interagire meglio al suo interno.
Le dinamiche che affliggono Baia Mare e le sue comunità etniche sono solo una piccola parte di quello che è la nuova Romania nel contesto comunitario. Queste dinamiche hanno assunto caratteristiche particolarmente preoccupanti in tutte quelle aree post-industriali dove i cambiamenti hanno lasciato intere fasce sociali a fare i conti con deprivazioni e politiche pubbliche discriminatorie. Queste aree necessitano di essere incorporate al più presto in una strategia europea (come ad esempio la European Spatial Development Perspective) attraverso la diversificazione delle loro basi economico-sociali, e attraverso la decentralizzazione del potere economico dei maggiori centri urbani. Policentricità, accessibilità e competitività dovrebbero diventare gli imperativi al fine di contrastare le perverse dinamiche che affliggono la società romena.
Come si è visto, questo ambiente discriminatorio viene perpetuato dagli stessi funzionari pubblici e dalla retorica politica, ma è nondimeno rinforzato dai media. A guardar bene, un reale e sostanziale miglioramento nella vita dei gruppi minoritari sarà lento ad emergere, considerando le ulteriori complicazioni derivanti dall’incertezza aleggiante sul futuro dell’Unione Europea. E’ innegabile che molti tentativi abbiano avuto degli effetti positivi che potrebbero funzionare come base per un reale cambiamento. Tali tentativi, però, non hanno ancora smosso alcuna volontà dall’interno da parte dei governi Ue per quel che riguarda l’implementazione dell’inclusione e dell’uguaglianza, né sono riusciti a corrodere atteggiamenti e pratiche esistenti. Di fronte a quel disordine multiplo di personalità che sembra caratterizzare sempre più l’Unione Europea, l’efficacia degli strumenti di tutela risulterà sempre compromessa. Senza un vero cambiamento politico, spazi incapsulati in aree incapsulate colpite dai processi di intersezione tra neoliberismo e spazializzazione, continueranno a produrre forme precarie di giustizia.
Intervista a Claudia Costea, consigliera presso il Dipartimento locale per la protezione dei minori
Claudia Costea ci sta aspettando in una piccola caffetteria del centrul vechi. Da anni Claudia si occupa di fasce a rischio con un’attenzione particolare verso la tutela dei bisogni e dei diritti dei bambini. E’ posata e discreta, ma con una luce negli occhi che fa trasparire la passione per il suo lavoro. Non appena iniziamo l’intervista ci appare chiaro come per lei la salvaguardia dei più piccoli rappresenti una reale via d’uscita dalla miseria e dalla segregazione.
Quali sono gli interventi governativi funzionali a tutelare le fasce più sensibili? Quali quelli che invece non funzionano?
A livello nazionale è presente lo SPAS, (Public Social Assistance Service), dislocato a livello locale in tutta la Romania; ha la funzione di provvedere ai bisogni dei minori, individuando le mancanze sul piano medico, educativo e quant’altro. Oltre al supporto diretto, questo servizio dovrebbe fornire alle stesse famiglie una consapevolezza dei propri diritti, creando una prospettiva di miglioramento delle proprie condizioni e quelle dei propri figli. Ci sono altri programmi pensati per l’assistenza di base, la tutela di bambini e adolescenti e l’accesso alle cure mediche; tuttavia, la loro efficienza è compromessa da gravi problemi di implementazione che fino ad oggi permangono nel sistema istituzionale del Paese. Credo che il problema principale non sia tanto la mancanza di istituzioni per la tutela sociale, quanto l’incapacità di collaborare tra loro come un team efficiente ed operativo. Il sistema istituzionale eccessivamente burocratizzato rallenta enormemente – per non dire ostacola – la comunicazione tra gli enti che dovrebbero fornire rapidamente i servizi di assistenza, soprattutto in situazioni a rischio. In questo modo, l’aiuto non viene erogato o arriva troppo tardi.
Come si comportano le istituzioni riguardo all’educazione scolastica dei minori appartenenti alle minoranze? E l’Unione Europea?
C’è molta discriminazione e molta paura, dato che la totale assenza di dialogo mina a fondo l’integrazione. L’Unione Europea dal canto suo si fa garante di politiche di assistenza ammirevoli ma ancora troppo lontane dalle comunità beneficiarie. Il sistema di aiuti è sempre verticale e i fondi erogati dalla burocrazia rumena si perdono per strada. I POSDRU (fondi europei destinati all’integrazione delle minoranze in Romania) sono stati spesi fino all’ultimo centesimo senza alcun risultato: i costi dell’infinita burocrazia, e gli stipendi ai funzionari e agli esperti sociali hanno prosciugato in fretta i finanziamenti, senza che la situazione migliorasse realmente.
Perché c’è bisogno di un intervento esterno e perché invece non sono le stesse comunità a farsi autrici di progetti di integrazione e di miglioramento delle proprie condizioni di vita?
Le persone che vivono nella povertà e nella discriminazione quotidiana sono abituate ad essere trattate come individui senza diritti e non sono in grado di trovare un modo per far valere la propria legittimità e dignità in quanto esseri umani. Diventa necessario dunque informarli non solo sui propri diritti, ma anche su come accedervi, cosa che in Romania è complicata anche per il più istruito e benestante cittadino. Una volta indirizzati però sono del tutto indipendenti, sono abituati ad esserlo.
Come si fa a cambiare la mentalità delle persone colme di pregiudizio?
L’esclusione dei rom è endemica in Romania, ma non inestirpabile: la mia personale friendly revolution con i rom ha spinto molte altre persone a seguirmi nella mia missione. E’ bastato far vedere che un altro tipo di contatto con loro, un contatto più amichevole e “libero”, era possibile, e anche se non sembra, fornire un’immagine nuova ad una prospettiva ormai obsoleta come quella del “noi e loro” è una chiave per cambiare direzione e distruggere il pregiudizio. In questo ho molta fiducia nelle generazioni a venire.Grazie al lavoro di Claudia, Bogdan, Albano e tutta la Fundatia, numerosi bambini di Pirita e Craica sono riusciti ad accedere all’istruzione prescolare e primaria. Un’eventualità che, senza un appoggio esterno, sarebbe stata sicuramente poco probabile.
Si ringraziano:
Fundatia de Voluntari Somaschi, Bogadan Ilitiu, Ster Georgeta, Claudia Costea, Albano Alloco, Andrei
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