Azerbaijan, la terra del fuoco
Una delegazione del Parlamento europeo in visita in Azerbaijan, dopo che lo scorso settembre l’eurocamera ha condannato in modo netto le violazioni dei diritti umani. Reportage
Gelo polare fra Bruxelles e Baku. Non è un bollettino meteorologico che preannuncia paurosi sconvolgimenti climatici nel vecchio continente; si tratta semplicemente dello stato delle relazioni fra il parlamento europeo e il Milli Mejlis, l’assemblea legislativa dell’Azerbaijan. A scatenare la tempesta diplomatica è stata una risoluzione dell’eurocamera che il 10 settembre dello scorso anno ha condannato in modo netto e inequivocabile le persistenti violazioni dei diritti umani nella repubblica caucasica. “Si chiede l’immediata ed incondizionata liberazione di tutti i prigionieri politici e dei difensori dei diritti umani, dei giornalisti e degli attivisti della società civile” recita il testo adottato che sollecita le autorità a cessare la repressione in corso ponendo termine alle pratiche correnti di persecuzione criminale selettiva. Parole dure, senza mezzi termini, con tanto di nomi e cognomi delle vittime e richieste di intervento da parte della diplomazia europea che hanno provocato la stizzita reazione del governo di Baku che ha subito rispedito al mittente la risoluzione in oggetto. D’altronde l’Unione Europea ha fame di idrocarburi e chi meglio dell’Azerbaijan può provvedere al suo fabbisogno considerando le tensioni con la Russia? Chi controlla i rubinetti di gas e petrolio, ritengono a torto o a ragione gli azeri, non può essere sottoposto a critiche pena pesanti ritorsioni commerciali. Più che una risposta una minaccia.
Heidi Hautala è una esperta e volenterosa eurodeputata finlandese che presiede l’assemblea parlamentare Euronest, l’organo che comprende le delegazioni dei parlamenti dei sei paesi del Partenariato Orientale oltre a quella dell’europarlamento. A lei e al suo collega georgiano Viktor Dolidze è stato affidato il compito di recarsi a Baku per cercare di riannodare le relazioni con la controparte azera sempre più trincerata su posizioni di scontro. All’ultimo momento anch’io vengo aggiunto alla missione che ottiene il semaforo verde dopo un lezioso rimpallo di corrispondenza con le autorità azerbaijane cui fanno seguito alcuni tentativi andati a vuoto e pretestuosi intoppi burocratici. Viaggio fuori programma ma ordine di servizio quanto mai benvenuto se si tratta di raggiungere luoghi che presentano aspetti che vanno al di là del lavoro. Fra una riunione e l’altra è sempre piacevole approfittare delle pause per fare due passi fra piazze, monumenti e mercati gettando uno sguardo veloce sugli scorci di maggiore interesse. Ci sono città che offrono sempre qualcosa di nuovo anche all’ennesima visita e Baku è una di queste. Passo, così, nel giro di poche ore dall’atmosfera surreale dell’aeroporto devastato di Bruxelles, appena riaperto dopo gli attentati terroristici, a quella sfavillante dello scalo della capitale azera inaugurato nel giugno scorso in occasione dei primi giochi olimpici europei.
L’hotel dove alloggio si trova in centro, vicino al lungomare e non lontano dalla città vecchia. E’ lo stesso della scorsa volta, un cinque stelle dal design moderno con vista mare, solo che nel giro di tre anni i prezzi delle camere sono dimezzati. Questo, ovviamente, per chi paga in euro ma non per chi paga in manat, la moneta locale. Due svalutazioni a distanza di pochi mesi, di cui l’ultima a seguito della decisione della banca centrale di lasciare fluttuare liberamente la valuta sui mercati internazionali, hanno portato il cambio con il dollaro da 0,78 a 1,55. E per un paese come l’Azerbaijan che importa quasi tutto ciò ha comportato un aumento generalizzato del costo della vita compreso i generi di prima necessità. La gente, quindi, è tornata dopo tanto tempo a manifestare nelle piazze della capitale e delle principali città trattenuta a stento dalle forze di polizia. Tempi duri per i petro-stati. Se poi si considera che l’export dell’Azerbaijan è basato al 95% sugli idrocarburi si fa presto a intuire la parabola dell’economia del paese precipitata in poco tempo dall’opulenza sfarzosa alla crisi recessiva. I tassi di crescita a due cifre di inizio decennio sono ormai un lontano ricordo e non si intravede ancora luce in fondo al tunnel. Secondo stime approssimate nel 2008, quando il prezzo del petrolio aveva raggiunto i 145 dollari al barile, le casse dello stato hanno incamerato 36 miliardi di dollari e il flusso di denaro è continuato fino al 2013 quando si sono manifestati i primi segni di cedimento dei prodotti petroliferi. Si tratta di quantità enormi se si pensa che la repubblica caucasica conta meno di dieci milioni di abitanti. Dove, poi, sia realmente finito questo fiume di dollari e chi ne abbia veramente beneficiato è tutta un’altra storia.
Panem et circenses
Appuntamento alle otto per la colazione con l’ambasciatrice dell’Unione Europea e puntualmente alle otto mi faccio trovare, come da programma, nella sala da pranzo dell’hotel dove un collega ancora assonnato mi avverte dell’inconveniente. “Anche tu hai sbagliato l’ora?”, mi accoglie ironico Philippe mentre sorseggia il caffè. “No, non posso essermi sbagliato”, ribatto io mostrando l’orario sul mio cellulare. Purtroppo ha ragione lui indicandomi l’orologio appeso alla parete che segna le sette. Entrambi cerchiamo di capire come possa essere accaduto il pasticcio. Come in tutti i paesi europei anche quest’anno in Azerbaijan a fine marzo avrebbe dovuto entrare in vigore l’ora legale. Un ripensamento dell’ultimo momento, però, ha indotto il presidente Alyiev a convocare una riunione straordinaria della commissione scientifica delegata in materia che ha stabilito che per l’anno in corso non ci sarebbe stato il cambio dell’ora. Essendo computer e smart phone programmati oramai da tempo sull’orario estivo i cittadini azeri hanno fatto ricorso in tutta fretta a software di aggiornamento messi a disposizione gratuitamente dalle case produttrici. Non così i viaggiatori stranieri che capitano da queste parti che usano apparecchi elettronici ignari, ovviamente, delle decisioni prese dalle autorità azere. Inconveniente bizzarro a prima vista salvo scoprire, poi, che, secondo le malelingue, sono state esigenze televisive ad obbligare il repentino contrordine. Il 14 giugno fa tappa in Azerbaijan per la prima volta il circo della Formula 1. L’ora legale avrebbe messo a rischio l’indice di ascolto, e quindi gli interessi degli sponsor, nei paesi europei tradizionalmente legati alle corse automobilistiche quindi meglio soprassedere e confermare l’ora solare con buona pace di chi non vuol saperne di Hamilton, Vettel, Ferrari e Mercedes. D’altronde in città fervono ovunque i preparativi per il Gran Premio. Si tratta di un circuito cittadino che attraversa i viali principali della capitale. Operai e mezzi meccanici passano il giorno a stendere e lisciare sulle strade una nuova coltre di almeno venticinque centimetri d’asfalto creando non pochi problemi di inciampo ai pedoni distratti. Dopo i giochi olimpici europei del 2015 il regime offre in pasto all’opinione pubblica internazionale, e a quella domestica, un’altra vetrina dove sfoggiare lustro e prestigio. “Panem et circenses” è una ricetta antica che funziona sempre e garantisce lunga vita a chi è al potere. Salvo poi dover fare i conti il giorno dopo con una realtà tutt’altro che idilliaca rispetto a quanto messo in mostra.
Dalla collina su cui si trova il grande edificio che ospita il Milli Mejlis si gode una splendida vista della baia di Baku. Samad Seyidov, presidente della Commissione Esteri, ci da il benvenuto nel parlamento azero in un’ampia sala accompagnato da altri deputati. Il sorriso e le parole di circostanza mascherano a fatica il disappunto. “Siamo stati i pionieri di Euronest e del dialogo interparlamentare”, esordisce, “ma oggi non ne capiamo più le ragioni”. “Questa assemblea”, aggiunge asciutto, “ci ha portato più mal di testa che benefici e mi riferisco, in particolare, ad alcune risoluzioni adottate che pregiudicano gli interessi del mio paese”. Per Seyidov ormai l’assemblea parlamentare del Partenariato Orientale è una perdita di tempo e di denaro che non merita più alcuno sforzo. L’incapacità europea di gestire i flussi migratori, inoltre, ha messo a nudo la debolezza dell’UE agli occhi dell’opinione pubblica azera. “Noi siamo fondamentalmente pro-europei”, aggiunge il deputato che gli siede a fianco, “ma dopo la fine dell’Unione Sovietica non abbiamo bisogno di un altro grande fratello”, sottolinea usando il termine tradizionalmente riferito all’ingombrante vicino russo. Anche la crisi ucraina, secondo le parole di Seydov, avrebbe contribuito a raffreddare i rapporti con Bruxelles consigliando alla diplomazia di Baku di evitare di cadere nella trappola in cui è precipitata Kiev.
Idrocarburi e frutta secca
Sulla stessa lunghezza d’onda è anche Ogtay Asadov che dal 2005 presiede il parlamento azero. La sala in cui ci accoglie è, forse per ragioni di rango, ancora più spaziosa di quella che ha ospitato il nostro precedente incontro e il corteo degli accompagnatori, fra segretari, portaborse, consiglieri e personale di servizio, ancora più numeroso. Volti attempati sormontati da folte capigliature pettinate all’indietro ricordano per l’aspetto la nomenklatura sovietica. “L’atteggiamento del Parlamento europeo nei confronti del mio paese è fondato su pregiudizi”, inizia con tono pacato ma fermo. “Ho scritto personalmente al presidente Schulz per manifestargli il mio disappunto ma non ho ancora ricevuto risposta”, puntualizza richiamando le risoluzioni di condanna dell’Azerbaijan adottate dall’assemblea di Strasburgo. E riferendosi ai prigionieri politici, che lui accompagna sempre con il termine “cosiddetti” per accentuare che si tratta solo di una nostra opinione, si lamenta del ruolo giocato nella campagna in corso dalle organizzazioni non governative usate, a suo dire, da agenti esterni per aumentare la pressione sul governo di Baku. Per ultimo Asadov mette sul tavolo la carta degli idrocarburi come fosse l’asso nella manica. “Tanap e Tap (NB i due gasdotti complementari che dovrebbero portare il gas azero in Europa attraverso la Turchia, i Balcani e l’Italia)”, enfatizza, “ridefiniranno la situazione energetica del vecchio continente dando una boccata di ossigeno a tutta l’Unione”, conclude convinto che la partita volga a suo favore.
Frutta secca da sgranocchiare sorseggiando il tè sui divani del salone a lato del ristorante riservato ai deputati del Milli Mejlis. Arachidi, pistacchi, noci, nocciole, prugne e albicocche secche sono fra i pochi generi, oltre a gas e petrolio, di cui l’Azerbaijan abbonda tanto da riuscire ad esportarne ai paesi vicini. Ci concediamo una pausa con i padroni di casa in attesa dell’incontro successivo e l’atmosfera si fa più amichevole superando la fredda accoglienza e il clima di sospetto iniziali. Gli scambi di vedute sono più concilianti, qualche battuta ammorbidisce i toni e si intravede anche qualche sorriso. Avevo notato prima di partire che nel programma della visita non era previsto alcun ricevimento ufficiale. Chi frequenta queste zone sa benissimo che l’assenza di un qualsivoglia invito a pranzo o cena è il segnale che gli ospiti non sono graditi. Bastano, però, pochi momenti di cordialità per far cambiare idea al presidente della Commissione Esteri che ci dà inaspettatamente appuntamento la sera in un ristorante della città vecchia rinunciando ad impegni precedenti.
Mahmud Mammad-Guliyev è uno dei quattro sottosegretari che affiancano il ministro degli Esteri. Il nostro arrivo a Baku coincide con la ripresa delle ostilità in Nagorno Karabakh, il conflitto che dalla fine degli anni ottanta contrappone l’Azerbaijan all’Armenia. Era dal 1994, anno in cui venne firmato dalle parti il cessate-il-fuoco, che non si registravano scontri così violenti sulla linea di contatto. Fonti ufficiose parlano di quasi 200 morti e parecchi feriti soprattutto fra i civili. Baku e Yerevan si rimpallano le responsabilità accusandosi a vicenda. La guerra è tornata al centro dell’agone politico con il conseguente vortice di patriottismo che obnubila le coscienze e storna l’attenzione dalla crisi che attanaglia il paese. Inevitabile, quindi, che il vice-ministro concentri il suo intervento sugli ultimi avvenimenti. “La nuova escalation è partita dall’Armenia”, attacca, “con l’obiettivo di impedire l’imminente costruzione del gasdotto che porterà il metano del Mar Caspio in Europa”. “Ci fa piacere, però – aggiunge Mammad-Guliyev – che l’Unione Europea si sia pronunciata a sostegno dell’integrità territoriale dell’Azerbaijan analogamente a quanto ha fatto in precedenza con Georgia, Moldova e Ucraina”. E per quanto riguarda le violazioni dei diritti umani il sottosegretario fa presente come nessun paese della regione possa considerarsi indenne dal fenomeno. “E’ sbagliato puntare il dito solo contro di noi”, afferma, “bisogna guardare cosa avviene anche in casa d’altri”, rimarca alludendo a quanto accade nel resto d’Europa.
Bandiere rosse, verdi e blu, i colori azeri, sono appese ovunque. Non c’è pace nel Caucaso vittima di vampate periodiche di nazionalismo con la complicità, il beneplacito e la mano nascosta dopo avere lanciato il sasso della Russia. Mosca è il principale fornitore di armi di entrambi i contendenti. E’ legata all’Armenia da un accordo bilaterale di difesa che contempla anche lo stazionamento di soldati e mezzi militari russi e allo stesso tempo dal 2009 al 2011 ha venduto armamenti all’Azerbaijan per un valore di quattro miliardi di dollari. La guerra conviene a tutti: ad armeni e azeri che periodicamente ricorrono al richiamo dell’unità di patria per tacitare gli oppositori e, soprattutto, ai russi che fanno soldi con la vendita di armi e tengono sotto scacco sia gli uni che gli altri mantenendoli agganciati alla propria area di influenza.
Crisi economica
Un sole lucido e splendente si riflette sulle acque del Caspio. Tante sono le persone che passeggiano nei floridi giardini del lungomare meticolosamente, quasi maniacalmente curati per dar lustro alla capitale. Gli scheletri di due grandi grattacieli con le gru ferme e i cantieri chiusi in bella vista a ridosso della riva ricordano drammaticamente, però, che siamo in tempi di crisi. Secondo le stime ufficiali fornite dalle autorità il tasso di disoccupazione è al 6%. Basta leggere fra le righe per accorgersi, però, che la realtà è ben diversa. Chi possiede anche un piccolo appezzamento di terra per esempio, e sono in molti, in base ai criteri statistici delle agenzie governative viene automaticamente catalogato come agricoltore anche se non svolge attività agricola o se la proprietà non è sufficiente a garantire il sostentamento minimo per campare.
Analisi indipendenti collocano ormai la percentuale dei disoccupati attorno al 20% con più di un milione di azeri partiti per la Russia alla ricerca di un futuro migliore. Le difficoltà economiche sono più evidenti nelle campagne mentre in città gli standard di vita appaiono ancora accettabili senza considerare il numero abnorme di negozi di generi di lusso che ancora fiancheggiano le vie pedonali del centro, esibendo articoli più per gli occhi che per le tasche degli improbabili clienti.
Dal molo dove partono i battelli che collegano l’Azerbaijan al Turkmenistan si può cogliere una splendida vista di Baku dal basso che si stende e si appoggia sulle alture retrostanti. Spiccano nuovi edifici nello skyline, in particolare il complesso delle “torri di fuoco” nei pressi del parlamento. Sono tre grattacieli di vetro le cui forme stilizzate richiamano una lingua di fuoco dando l’idea da lontano, insieme, di un’unica fiamma. Sono, ormai, diventate il simbolo della capitale di un paese che si definisce con l’appellativo di “terra di fuoco”. E’ in Azerbaijan e nel confinante Iran, infatti, che nacque e si sviluppò migliaia di anni fa il culto di Zaratustra i cui seguaci adoravano il fuoco. C’è ancora un tempio di questa antica religione nella vicina penisola di Absheron che ho avuto occasione di visitare in passato. E le viscere di questo paese in alcune zone sbuffano spontaneamente gas naturale in superficie producendo spettacolari fuochi perenni. L’industria del petrolio ha fatto la storia di Baku determinandone splendori e miserie. La zona sudorientale della capitale ospitava un tempo gli insediamenti principali del settore petrolifero. Veniva chiamata “black city”, città nera. Quando la produzione si spostò altrove rimase solo desolazione, degrado, rovine e sporcizia. Negli anni scorsi il governo della città ha adottato un ambizioso piano di recupero ribattezzando idealmente la vasta area “white city”, città bianca, con l’obiettivo di costruire moderni quartieri residenziali per 50.000 persone. L’unica testimonianza del passato rimasta è Villa Petrolea, la residenza della famiglia Nobel venuta dalla Svezia sulle sponde del Caspio a fine Ottocento per cercare fortuna. E’ una tappa obbligata per l’eurodeputata finlandese che accompagno la cui nonna centenaria nacque proprio qui da una delle tante famiglie europee chiamate dallo zar in Azerbaijan a sviluppare la tecnologia di estrazione degli idrocarburi. Foto, cimeli e mobili d’epoca arredano le stanze dell’elegante edificio trasformato oggi in un club esclusivo dall’élite petrolifera locale.
Baku e i diritti umani
Baku è bella di giorno ma forse lo è ancora di più quando cala l’oscurità. In un caratteristico ristorante ricavato da un vecchio caravanserraglio riadattato nella città vecchia ci aspettano di nuovo i rappresentanti del parlamento azero. E’ molto più facile discutere a tavola che nelle austere sale del Milli Mejlis. Anche se fra le genti del Caucaso meridionale sono quelli che più hanno mantenuto il compassato stile sovietico, gli azeri a cena manifestano allegria e convivialità. Cibo e vino non mancano sull’imponente desco in legno massiccio con verdure di stagione e piatti freddi di salse appena speziate che precedono le tradizionali portate principali di carne, in particolare di montone, che io, da buon vegetariano guardo appena. Si parla di tutto e non appena si presenta l’occasione solleviamo di nuovo la questione dei diritti umani. “Se fosse per me”, confessa Seyidov, “avrei già rimesso in libertà tutti quelli che voi chiamate prigionieri politici ma occorre rispettare l’indipendenza della magistratura”. “Non bisogna dimenticare”, aggiunge, “che queste persone sono accusate di gravi reati”. Frode fiscale, malversazione, finanziamenti illeciti, alto tradimento sono alcuni dei capi di imputazione che il regime azero ha usato in questi anni per silenziare attivisti come Leyla Yunus, Rasul Jafarov e Khadija Ismayilova, coraggiosi esponenti del mondo non governativo locale che si battono da anni per difendere e fare rispettare i diritti di tutti.
Ci congediamo convinti di essere riusciti a rompere il ghiaccio facendo breccia nell’iniziale diffidenza della controparte. Fuori ci aspetta Baku di notte che appare fascinosa, rivestita di un’efficace e abile illuminazione che ne valorizza gli angoli più suggestivi. Passeggiare lungo le mura della città vecchia costeggiando gli eleganti edifici di inizio secolo scorso è una bella esperienza con i giochi di luce sullo sfondo che trasformano in fiamme ardenti le torri di fuoco simulando quasi un incendio.
Appelli, lettere e risoluzioni non sono caduti nel vuoto. Già un paio di settimane prima della nostra partenza il presidente Ilham Aliyev aveva concesso la grazia ad una decina di difensori dei diritti umani. Il compito non dichiarato della missione era anche quello di ristabilire i contatti con la società civile azera portando sostegno e solidarietà a chi guarda e si rivolge all’Europa come modello di democrazia e di tutela delle libertà civili. Molto si è discusso e si discute fra le forze politiche a Bruxelles sull’opportunità e l’efficacia dei testi adottati dal Parlamento europeo. C’è chi li giudica controproducenti e dannosi perché complicherebbero e renderebbero ancora più difficile la vita di chi si vorrebbe difendere, mentre altri ritengono che non sia possibile tacere di fronte a violazioni flagranti che contraddicono i valori su cui è nata e si fonda la stessa Unione Europea. Nel redigere le risoluzioni anch’io mi interrogo, a volte, sull’utilità di quello che scrivo e ogniqualvolta si presenta l’occasione di incontrare le persone oggetto dei miei testi pongo loro la domanda per ottenere conforto.
Intigam Aliyev (nessun legame di parentela con il presidente) è il più noto avvocato azero protagonista di tante battaglie in difesa dei diritti umani. Lo incontriamo nell’ambasciata dell’UE pochi giorni dopo la sua scarcerazione. Due anni di prigione non sono pochi e risultano ancora più pesanti se si basano su accuse inventate di sana pianta dal regime, miranti solo ad impedire il suo instancabile impegno civile. “Grazie del vostro sostegno e del sostegno di tutto il Parlamento europeo”, esordisce sorridente, “ma non so se debbo essere felice per la mia liberazione o triste per la situazione in cui versa la società civile in Azerbaijan”. “E’ importante che nei colloqui con le autorità voi solleviate la questione dei finanziamenti internazionali alle organizzazioni non governative”, osserva preoccupato, “che, di fatto, le nuove leggi rendono impossibile”. Intigam si riferisce alle recenti disposizioni che obbligano donatori come l’Unione Europea a passare attraverso complicate procedure burocratiche che in pratica bloccano gli aiuti alle associazioni che si occupano dei diritti dell’uomo. Lo trovo in forma e per nulla provato nonostante il lungo periodo di detenzione. E alla mia domanda se fosse servita alla sua causa la risoluzione dell’europarlamento di settembre risponde determinato: “Quando ci è arrivata la notizia abbiamo festeggiato in cella”. “Quello che avete fatto”, afferma risoluto, “ci ha dato forza, morale e legittimità”, conclude sottolineando come sia necessario non rinunciare mai ai principi per cui ci si batte, specialmente con i regimi autoritari. Lo stesso concetto ci viene ripetuto anche dagli altri rappresentanti della società civile che incontriamo successivamente. “Una volta tornati a Bruxelles non dimenticate che i miei colleghi sono in galera per gli stessi vostri ideali europei”, ci ricorda una di loro con un appello accorato che suona come monito.
Una moderna superstrada trafficata collega la capitale all’aeroporto. Ai lati passano davanti ai miei occhi in rapida successione il villaggio olimpico, oggi riadattato in quartiere residenziale, il nuovo stadio e l’arena. Tutto luccica, tutto risplende. Fuoco nel sottosuolo, fuoco in superficie. Bella gente, bella città. Ghiaccio bollente fra Baku e Bruxelles.
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