Azerbaijan, la retorica militarista è diplomazia
Secondo l’analista Gegam Bagdasaryan, "più si parla di guerra e meno la si fa". I frequenti riferimenti ad un intervento bellico dell’Azerbaijan in Nagorno Karabakh sarebbero a suo avviso mirati ad ottenere vantaggi nei negoziati. Ma continuano gli incidenti sulla linea di contatto e il pericolo di guerra rimane concreto
Sempre più spesso in Karabakh si sente parlare di guerra. Voci di questo tipo arrivano sia da rappresentanti della leadership politica di Baku che da politologi ed esperti. Il vice portavoce del parlamento azero Zijafet Askerov ha recentemente dichiarato che "tutta l’economia dell’Azerbaijan deve mettersi su binari bellici". Il politologo azero Ilkin Melikov sostiene che la guerra sarebbe legittima, visto che il Karabakh è internazionalmente riconosciuto come parte dell’Azerbaijan, e rimarrebbe legittima anche se la parte armena si ritirasse da alcune delle zone che ora controlla come è stato proposto in passato nel corso di negoziati. Secondo Sinan Ogan, direttore del Centro relazioni internazionali e analisi strategica Türksam, "la minaccia di una guerra lampo è molto vicina". Una guerra di massimo 5 giorni, sostiene Ogan, potrebbe scoppiare in qualsiasi momento, e costringerebbe l’Armenia a riflettere seriamente sulla soluzione del conflitto. Del pericolo di una guerra imminente, hanno parlato anche think tank internazionali come l’International Crisis Group. Ma la guerra è davvero inevitabile?
Personalmente credo che più si parla della guerra, meno probabilità ci siano che scoppi davvero. La guerra è una cosa troppo seria per sbandierarla ai quattro venti. Inoltre, colpisce come questa retorica abbia luogo nonostante recenti negoziati si siano conclusi con toni tutto sommato ottimistici. Un paio di settimane fa, il ministro degli Esteri azero Elmar Mammadyarov ha annunciato progressi nel processo di pace. Il ministro ha espresso soddisfazione per i contatti russo-azeri in corso, osservando che l’attivo coinvolgimento della Federazione Russa nella persona di Dmitrij Medvedev sta già dando i suoi frutti.
L’Azerbaijan si sforza di mantenere
attuale la minaccia bellica,
in modo che il fatto di non
combattere rimanga una concessione.
Come mai quindi nonostante dichiarazioni come questa continuano da parte azera riferimenti alla possibilità concreta di un intervento militare? Il fatto è che creando un’atmosfera di paura e minacciando periodicamente la ripresa delle ostilità l’Azerbaijan può presentare come un compromesso il semplice fatto di non attaccare e non concedere nient’altro. L’Azerbaijan si sforza di mantenere attuale la minaccia bellica, in modo che il fatto di non combattere rimanga una concessione. Questo non è più un segreto, se ne parla apertamente. Elmar Mammadyarov ha fatto una scoperta interessante cercando di conciliare due fenomeni inconciliabili: "La diplomazia bellica sostiene il progresso dei negoziati sul Karabakh". Ovvero, più si parla di guerra, più avanti va il processo di pace o, come dicevo, più si parla di guerra e meno la si fa.
Ecco cosa scrive il politologo azero Tabib Gusejnov: "Anche se molte analisi, diplomaticamente, lo omettono, la volontà dell’Azerbaijan di riservarsi il diritto all’uso della forza in Nagorno Karabakh come legittima difesa è una fondamentale leva strategica sul processo di pace". Ecco tutto, nessun segreto.
Come ci si sente in Karabakh
E in Karabakh cosa ne pensano? Com’è facile immaginare, si tengono pronti. Senza chiasso, come fa chi ha visto la guerra e conosce il prezzo della pace. In Karabakh è molto popolare il detto: "Se vuoi la pace, prepara la guerra". La gente è pronta alla guerra anche psicologicamente, pur non perdendo speranza nella pace.
Il 24 aprile, in occasione del Giorno della Memoria per le vittime del genocidio degli armeni, il presidente Bako Saakjan ha dichiarato: "Noi armeni dobbiamo sempre ricordare le lezioni della tragedia del 1915 e non permettere che qualcosa del genere si ripeta". Precedentemente, il 22 aprile, presenziando ad un’esercitazione militare, ha sottolineato l’importanza dei preparativi per la guerra, osservando che essi contribuiscono al continuo miglioramento delle capacità delle forze armate. All’esercitazione presenziava anche una delegazione del ministero della Difesa armeno, con a capo il ministro Sejran Oganjan. "A differenza del nostro vicino Azerbaijan, che sta sviluppando le proprie capacità offensive, noi stiamo rafforzando le nostre capacità difensive e alla loro superiorità numerica, che non ci preoccupa molto, opponiamo la qualità della preparazione e lo spirito combattivo dei nostri soldati", ha dichiarato Oganjan a Stepanakert.
È da notare che il governo armeno era solito rispondere a tono alla retorica bellica azera, e all’ipotesi di una guerra rispondeva che l’esercito del Karabakh sarebbe stato pronto se necessario a intervenire anche in territorio azero. Ora invece questo atteggiamento è cambiato, tanto più che di solito, dopo il “dialogo”, gli interlocutori internazionali cominciano a speculare sulla "retorica militarista delle parti contrapposte", senza far caso a chi ha cominciato e a chi ha reagito.
Ma questo non rende le cose più facili. Sul fronte si sentono sempre gli spari, la gente muore. Fra il 17 e il 23 aprile, secondo i dati del Dipartimento informazione e propaganda dell’Esercito della difesa del Nagorno Karabakh, le truppe azere hanno infranto il cessate il fuoco circa 150 volte, sconfinando sulla linea del Karabakh in ogni direzione e sparando oltre 1700 volte, di cui 800 solo il 17 aprile. Secondo l’ufficio stampa dell’esercito del Nagorno Karabakh, infrazioni del regime di cessate il fuoco da parte di forze azere in data 29 aprile hanno causato la morte di tre militari delle forze di Stepanakert.
Purtroppo fatti come questo già da tempo non sono più una notizia, ma un normale pezzo di “vita sul fronte”.
Gegam Bagdasaryan è presidente del Press Club di Stepanakert
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