Autostop con Jim Morrison
Nel 1970 Cvjetko e Pavle, due studenti, lasciano Belgrado per raggiungere in autostop l’isola di Wight. In Francia li attende un incontro imprevisto. Quando la parola Jugoslavia apriva le porte dell’Europa
Partendo da Belgrado i due amici, Cvjetko e Pavle, avevano percorso in autostop quasi mille chilometri. A Verona, però, erano rimasti bloccati per un giorno intero: neanche una macchina si era fermata. Perciò Verona fu marcata con un punto nero. Di sera, stanchi e delusi, avevano scelto di dormire in un bel prato con l’erba verde e morbida. La mattina successiva furono svegliati dalle grida della gente. Questa gesticolava, pareva arrabbiata. I due studenti, intontiti, non capivano nulla, poi si guardarono intorno: l’acqua gli arrivava quasi fino al naso, il sacco a pelo era bagnato fradicio e pesava, gli zaini galleggiavano lì accanto. I due, in fretta, raccolsero la propria roba e corsero via.
Negli anni settanta anche chi aveva soldi sceglieva di viaggiare in autostop. Era un obbligo per i giovani di quella generazione ribelle. E così, nel 1970, anche Cvjetko e Pavle, da studenti, gironzolavano per l’Europa, prima di recarsi all’isola inglese di Wight. Lì si stava preparando il festival di musica rock che poi passò alla storia.
Oggi, 43 anni dopo, il mio amico Cvjetko si ricorda benissimo tutti i dettagli di quel viaggio. Racconta i particolari con precisione, ha memorizzato bene i giorni, le date, i posti, le persone, i nomi.
Adoro la storia di quel suo viaggio, e me la faccio raccontare di nuovo. Di recente, mentre lo ascoltavo per l’ennesima volta, ho capito che il prato vicino a Verona, dove avevano dormito, era in realtà una risaia.
“Ah, che stupidi! Se fossi morto ieri, non avrei mai saputo di aver dormito in un campo di riso!”, dice Cvjetko, e ride.
Dopo Verona, sempre in autostop, i due erano andati in Svizzera. A Ginevra avevano dormito nell’English garden, l’elegante parco nel centro della città. Di mattina, un poliziotto li svegliò gentilmente e disse loro di alzarsi. Era il 14 luglio 1970, se lo ricorda bene, perché i francesi celebravano la festa nazionale, la presa della Bastiglia.
Jim
Di nuovo cercavano un passaggio. Faceva troppo caldo, c’era poca gente in giro, passavano rare macchine. Dopo un po’ Pavle si addormentò sul bordo della carreggiata e Cvjetko, dall’altra parte, seduto su un segnale stradale, mangiava un pezzo di formaggio. Fu sorpreso da una Fiat, il nuovissimo modello della 124, che passò velocemente. All’ultimo momento Cvjetko alzò il pollice, la macchina si fermò con una brusca frenata e un rumore da brividi – per l’attrito dalle gomme uscì il fumo – e ritornò dai due facendo retromarcia.
“Dove si va?”
“Parigi”
“Ottimo! Su, montate!
Dentro erano seduti due capelloni con la barba lunga. Chiedono a Cvjetko e Pavle chi sono, da dove vengono, cosa fanno. “Jugoslavia, Balcani, Tito”, un paio di soliti stereotipi li incuriosisce. Guardano e ascoltano gli studenti come rarità esotica. Poi si procede chiacchierando e ascoltando la musica da una cassetta audio, con la canzone che era al primo posto di tutte le classifiche: “Light my fire”. Il tipo seduto accanto all’autista si gira e chiede ai due passeggeri se conoscono la canzone. “Sì, certo” risponde Cvjetko. “È di Jose Feliciano, il cantante cieco di Portorico”.
“Ma va là, scemo! Questa canzone è mia”, dice quello, e scoppia a ridere. Era Jim Morrison con il suo manager, Leon Barnar.
Gli studenti conoscevano i Doors, sapevano chi era Jim Morrison, ma non l’avevano riconosciuto. All’epoca i giovani della Jugoslavia erano al corrente della musica contemporanea. Tramite Radio Lussemburgo, tra l’altro, che in un famoso programma notturno trasmetteva le nuovissime hit musicali.
Il viaggio durò tutta la notte e alle quattro di mattina si svegliarono a Parigi davanti all’albergo Hilton. Jim e il suo manager volevano pagare agli studenti l’albergo. Ma i due, sporchi e ancora vestiti con la roba bagnata della risaia (che nel frattempo si era asciugata addosso), si sentivano inadeguati per un posto così lussuoso, e rifiutarono. Accettarono però di rimanere per sette giorni nell’appartamento di Leon Barnar, in Rue des Plantes, a sud di Parigi.
Dopo venti giorni i compagni di viaggio s’incontrarono ancora una volta sull’isola di Wight: Jim Morrison sul palco e i due studenti a guardarlo tra la marea di spettatori.
La parola “Jugoslavia”, all’epoca, era come un simbolo o una chiave che apriva più porte. A Parigi incontrarono delle ragazze, e queste li presentarono – come un trofeo – ai loro genitori, un gruppo di intellettuali francesi di sinistra che erano innamorati della Jugoslavia socialista. Li invitarono a una cena fastosa, con vini, formaggio e tante pacche sulle spalle, e di nuovo “sì, sì, Jugoslavia, Tito, comunisti, Balcani”.
Peace and love
Poi, attraverso il canale della Manica, via a Londra. I due si uniscono ai giovani di tutto il mondo, la generazione degli hippy, i figli dei fiori, peace and love, che erano facilmente riconoscibili: capelli e barbe lunghe, sorridenti, i vestiti colorati e a fiori, il gesto delle dita a V. Si spostavano in gruppo.
Un tedesco, ben informato, li porta davanti alla casa di Mick Jagger. Il cantante dei Rolling Stones abitava a Cheyenne Wolk 48, davanti era parcheggiata la sua Bentley. Suonano il campanello come per entrare a casa di un amico. Il famoso Mick risponde, fa finta di essere qualcun altro, e dice che Mick non è a casa. Ma non funziona, riconoscono la sua voce, e per due ore lo supplicano di farsi vedere. Infine Mick, seccato, esce. Nel mondo della musica era già un gigante, ma fisicamente era un uomo magrolino, portava una semplice camicia sbottonata, i pantaloni aderenti e stretti, con l’effetto gamba grissino. Chiacchierano per un po’, si fa la foto di gruppo e poi via, i fan si spostano in un’altra parte di Londra, per incontrare un altro idolo.
Davanti agli Apple Studios una sessantina di ammiratori “regolari” aspettava George Harrison che in quei giorni preparava il suo nuovo album: “All things must pass”. Arriva con una Mercedes 600. In Jugoslavia, si ricorda Cvjetko, quella limousine l’aveva solo il presidente Tito. Harrison porta i capelli e la barba lunga, indossa un tailleur viola. Si ferma a parlare con dei fan, li conosce tutti, li chiama per nome, a una tizia chiede se aveva superato l’esame, a un’altra come stava la nonna.
Il tempo lo trascorrono partecipando ai concerti, visitando i musei, andando a teatro per vedere il famoso spettacolo “Hair”. Si avvicina la data del festival sull’isola di Wight, perciò via da Londra verso il Sud. Di nuovo si spostano in autostop. Funziona anche in Inghilterra la parola “Jugoslavia”. Un’auto si ferma, va in quella direzione ma non proprio fino alla costa, ma quando comprende che gli studenti sono di Belgrado, cambia rotta e li accompagna fino al porto.
Pernottano sulla spiaggia vicino al porto. Di mattina li sveglia un poliziotto gentile. Questo passa una volta per vedere se si alzano, poi una seconda e, alla terza, solleva il sacco a pelo e lo svuota. Più tardi un altro poliziotto viene loro in aiuto e, con pazienza, li accompagna per un paio d’ore alla ricerca di un cambio valute.
26 agosto 1970: 600.000 hippies all’isola di Wight
I due arrivarono sull’isola di Wight presto, ma non tra i primi. La gente era arrivata già giorni prima dell’inizio del festival. Un intero villaggio svedese, ad esempio, era arrivato con le famiglie al completo, compresi i bambini piccoli. Là si erano organizzati, come una comunità, cucinavano e mangiavano insieme, ognuno metteva quello che aveva, lavoravano gratis per allestire il palcoscenico, preparavano il posto per il concerto.
Cvjetko e Pavle credevano di essere gli unici jugoslavi sull’isola, ma tra le migliaia di persone presenti avevano incontrato una coppia di Zenica, la città natale di Cvjetko. Erano Ismet Huta Berbić e la sua fidanzata Hika, oggi sposati e tutti e due medici, e poi c’era anche Petar-Peca Popović, di Belgrado, che poi diventò uno dei più noti critici musicali del paese, e lo è ancora oggi.
Con l’avvicinarsi del 26 agosto, le ondate dei partecipanti si susseguivano a intervalli sempre più corti. Arrivavano a migliaia.
Il giorno prima dell’inizio del concerto sembrava che l’isola stesse per affondare nel mare di gente. Invece di centocinquantamila, come speravano gli organizzatori, a Wight c’erano seicentomila persone. Nessuno consultava più il piano del festival, nessuno ti chiedeva se avevi il biglietto o no, si cercava solo di evitare il collasso e incidenti gravi.
Per fortuna tutto passò senza grandi difficoltà. Ma il governo britannico, per evitare in futuro simili imprevisti, fece passare una legge ("Isle of Wight Act") secondo la quale sull’isola non era consentito il raduno di più di cinquemila persone senza un permesso speciale.
C’era tanto amore libero, alcol, droghe, ma soprattutto la musica rock dal vivo. Il festival era concepito come la copia del famoso concerto di Woodstock, tenutosi nel 1969, ma l’happening sull’isola di Wight superò l’originale. Il concerto fu il più grande raduno musicale mai organizzato nel mondo. Ma il festival di Wight non passò alla storia per il numero dei partecipanti, ma piuttosto per le leggende musicali che vi parteciparono.
La sostanza aveva reso il concerto memorabile. Suonavano e cantavano celebrità come The Who, Jimi Hendrix, Miles Davis, The Doors, Lighthouse, Ten Years After, Joni Mitchell, The Moody Blues, Melanie, Donovan, Gilberto Gil, Free, Chicago, Richie Havens, John Sebastian, Leonard Cohen, Jethro Tull, Taste and Tiny Tim, Joan Baez, Emerson Lake & Palmer.
Qualcosa di veramente speciale stava accadendo nel mondo in quel momento e la musica aveva il potere di unire le persone.
Dopo quasi due mesi trascorsi girovagando per l’Europa, Cvjetko e Pavle decisero infine di tornare a casa da signori. Niente autostop, ma aereo. All’aeroporto di Londra si imbarcarono su un DC, uno di quegli aerei di una volta che sembravano fatti come le lattine di birra di oggi. I due erano senza biglietto. “Una volta i controlli non erano così rigorosi, ricorda Cvjetko. C’era tanta gente che girava e ci siamo infilati con loro. L’unico disturbo era la pressione, in aereo. Mi faceva così male che poi, per venti anni, non ho più volato”.
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