Attentato ad Ankara, la Turchia accusa i curdi
Secondo il governo turco sarebbero stati attentatori curdi-siriani, in collaborazione col PKK, a colpire ieri il cuore di Ankara. Possibili ricadute su un intervento di terra turco in Siria
Un’autobomba è esplosa ieri nel cuore della capitale turca Ankara. Obiettivo dell’attentato: autobus che trasportavano personale militare, a poca distanza dal parlamento, dall’ufficio del premier e dal quartier generale dell’esercito turco. Il bilancio dell’attacco è di ventotto morti e sessantuno feriti. Tra le vittime, secondo l’OSCE, ci sarebbe anche una giornalista: Gülşen Yıldız, reporter del canale televisivo “Tarım TV”.
"L’attentatore è membro del YPG (Unità di Protezione Popolare – milizia della regione a maggioranza curda nel nord della Siria. N.d.R.) di nome Salih Necer”, ha dichiarato stamattina il premier turco Ahmet Davutoğlu.
L’uomo, 24 anni, sarebbe stato identificato attraverso le impronte digitali e secondo i media locali sarebbe entrato in Turchia nel luglio scorso come rifugiato proprio dalla Siria. Durante le indagini in corso, sempre secondo Davutoğlu, sono stati effettuati in totale nove fermi.
L’attentato getta benzina sul fuoco in una situazione già estremamente tesa. La Turchia è impegnata da mesi nella lotta contro il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) trasformatasi nei mesi scorsi in un vero e proprio conflitto civile che devasta ampie zone del sud-est del paese.
Allo stesso tempo, dal 13 febbraio Ankara bombarda le posizioni dei curdi nel nord della Siria (nell’area di Azez), appoggiate anche dagli USA in funzione anti Stato Islamico, e rafforzatesi sensibilmente nell’ultima fase del conflitto siriano.
Per la Turchia, un eventuale saldarsi delle forze curde sui due lati del confine rappresenta una minaccia diretta e intollerabile: una situazione che ha allargato le divisioni con molti alleati occidentali, che rifiutano di inserire i combattenti curdi-siriani nella lista delle organizzazioni terroristiche come richiesto da Ankara.
Secondo Davutoğlu l’attentato di ieri dimostra le capacità di PKK e PYD (il Partito di Unione democratica, braccio politico dei curdi siriani), che avrebbero agito di comune accordo per arrivare al cuore della capitale turca. Uno scenario che è stato rigettato fermamente sia dal PKK – per voce di Cemil Bayık, uno dei suoi leader storici-, che dal co-leader del PYD Salih Müslim.
Casus belli?
Preoccupata dagli sviluppi sul terreno, la diplomazia turca ha espresso recentemente la necessità di un intervento di terra in Siria. “Alcuni paesi, come la Turchia, l’Arabia Saudita e alcuni paesi europei sono convinti che un’operazione di terra sia necessaria”, ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Mevlüt Çavuşoğlu. Per il ministro, però, tale operazione sarebbe realistica solo se appoggiata da un’ampia coalizione internazionale.
Resta ora da vedere se l’attentato di ieri – a cui si somma un nuovo attacco ad un convoglio militare avvenuto stamattina nei pressi di Diyarbakır , in cui hanno perso la vita sette persone – possa giustificare un’azione diretta in Siria da parte di Ankara, anche senza l’avvallo degli alleati NATO e con le truppe e gli aerei russi già attivi nell’area.
In una situazione complessa e delicata come quella attuale, le speculazioni su moventi e autori di attentati di tale portata sono inevitabili, e c’è già chi vede nell’attacco di ieri un perfetto “casus belli”. Sospetti e speculazioni che, in Turchia, accompagnano i sempre più frequenti fatti di sangue: come ad esempio l’attentato dello scorso ottobre – alla vigilia delle ultime elezioni anticipate – sempre ad Ankara, quando attentatori suicidi (presumibilmente dello Stato Islamico) fecero più di cento vittime e centinaia di feriti. Anche la tendenza delle autorità turche ad imporre la censura mediatica su tali eventi alimenta inevitabilmente diffidenza e teorie del complotto.
Di certo la reazione a caldo all’attentato di ieri del presidente Recep Tayyip Erdoğan è suonata in modo bellicoso. “La nostra determinazione a rispondere a questi attacchi – che prendono di mira la nostra unità e il nostro futuro – in Turchia così come all’estero, è ancora più forte”, aveva dichiarato in un comunicato il presidente. Per poi aggiungere che “le perdite che subiamo nella lotta contro il terrorismo mettono a dura prova la nostra pazienza”.
Stamattina, in conferenza stampa, anche il premier Davutoğlu ha precisato che la Turchia intende reagire come meglio crede. Dopo aver definito a sorpresa lo YPG come “uno strumento nelle mani del regime di Damasco” ha ribadito: “Abbiamo il pieno diritto di decidere con quali misure rispondere all’attacco perpetrato dal regime siriano”.
Nel frattempo, la scia di sangue ha avuto effetti pesanti anche sul dialogo Turchia-UE sul delicato tema dei rifugiati, richiedenti asilo e migranti che dalle coste turche puntano all’Europa attraverso la “rotta balcanica”. Davutoğlu ha infatti annullato l’importante viaggio a Bruxelles, previsto per oggi e domani, in cui il premier avrebbe dovuto discutere coi i vertici dell’Unione europea la scottante questione.
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