Atifete Jahjaga, una poliziotta presidente del Kosovo
Donna, giovane e preparata. Atifete Jahjaga, da ieri nuovo presidente del Kosovo, a prima vista è la scelta ideale. La sua elezione, però, è frutto di un difficile compromesso, che non riesce a nascondere errori e difficoltà sia da parte dell’élite kosovara che dei rappresentanti internazionali
Addormentarsi di sera importante ma anonimo funzionario, e risvegliarsi la mattina seguente presidente della Repubblica? Una storia credibile solo a Hollywood. Eppure è proprio quello che è successo ieri sera ad Atifete Jahjaga, ex vice-capo della polizia ed ora nuovo presidente del Kosovo.
“Fino a ieri, non avrei mai pensato di poter assumere un incarico politico di tale importanza, ma sono pronta a servire il mio Paese”, ha dichiarato la Jahjaga subito dopo la sua elezione davanti ai deputati del parlamento di Pristina, riunito d’urgenza nel pomeriggio di giovedì per procedere alla scelta del nuovo presidente.
Jahjaga ha poi aggiunto di voler essere “un garante della legalità e un fattore unificante” e di voler “rappresentare tutti i cittadini del Kosovo, a prescindere da nazionalità, religione, razza e sesso”.
Sulla Jahjaga, fino a ieri una figura sconosciuta ai più, anche in Kosovo, sono confluiti 80 voti su 120, appena sufficienti a decretarne l’elezione al primo tentativo. Le preferenze necessarie sono arrivate dai due partiti di governo, il PDK di Hashim Thaçi e l’AKR di Behgjet Pacolli e dalla principale forza di opposizione, l’LDK di Isa Mustafa.
Mercoledì 6 aprile i tre leader, sotto lo sguardo attento dell’ambasciatore americano Christopher Dell, ispiratore e nume tutelare dei negoziati, avevano annunciato il raggiungimento di un accordo in grado sbloccare l’impasse istituzionale che rischiava di spedire i kosovari a nuove elezioni anticipate.
Lo scorso 31 marzo una sentenza della Corte costituzionale aveva infatti invalidato la contestata elezione a presidente del tycoon Behgjet Pacolli, avvenuta il 22 febbraio, mettendo in crisi gli equilibri dell’alleanza di governo tra lo stesso Pacolli e il premier Thaci.
Insieme al nome del nuovo presidente, l’accordo in cinque punti prevede un pacchetto di riforme costituzionali e del sistema elettorale. Il prossimo presidente del Kosovo sarà scelto direttamente dagli elettori, forse già quest’anno: la presidenza della Jahjaga, quindi, si prospetta fin dall’inizio come un periodo di transizione istituzionale. Le prossime elezioni politiche, con regole nuove, dovrebbero tenersi invece nel 2013, un anno prima di quanto preventivato.
Una democrazia sperimentale?
L’elezione a sorpresa di Atifete Jahjaga, prima donna presidente di un paese balcanico, è l’ennesimo colpo di scena di un processo politico che ha portato più volte le istituzioni kosovare e internazionali sull’orlo della crisi di nervi. Un processo contrassegnato da varie soluzioni “originali”, ideate e messe in atto per superare diversi momenti di crisi, che in questi mesi hanno fatto apparire la giovane democrazia kosovara come un vero e proprio “work in progress”.
Tutto comincia nel settembre 2010 con una sentenza della Corte costituzionale che, all’improvviso, si accorge che il presidente Fatmir Sejdiu viola la carta fondamentale, visto che è contemporaneamente capo di Stato e leader di partito.
Seguono elezioni anticipate, segnate però da diffusi brogli elettorali, riconducibili soprattutto al principale partito di governo, il PDK di Hashim Thaçi. Per superare il forte imbarazzo, le elezioni vengono dichiarate valide, ma si procede alla ripetizione del voto nelle municipalità in cui le irregolarità risultano più evidenti.
A questo punto si intavolano faticose trattative per trovare una formula di governo stabile. Dopo aver esplorato varie ipotesi, si giunge ad un accordo tra il PDK e l’AKR (più i rappresentanti delle minoranze). Punto centrale dell’intesa, la poltrona presidenziale, che Behgjet Pacolli sogna fin dal suo ingresso sulla scena politica kosovara.
L’elezione di Pacolli, però, si rivela una nuova corsa ad ostacoli. L’opposizione non accetta la sua candidatura e boicotta il voto in aula. Al terzo e ultimo tentativo Pacolli viene rocambolescamente eletto col decisivo supporto politico dell’ambasciatore americano Dell. Passano poche settimane e arriva un nuovo colpo di scena. La Corte costituzionale sentenzia che l’elezione di Pacolli è irregolare, e tutto il processo deve essere azzerato.
Partono nuovi negoziati, circolano i nomi più disparati come “papabili” alla poltrona, ma Pacolli insiste e non molla. Quando nuove elezioni anticipate sembrano alle porte, nuova svolta inattesa.
Protagonista ancora l’ambasciatore Dell che, come il genio della lampada (così lo ritrae una vignetta apparsa sul quotidiano Koha Ditore) trova l’accordo che sembrava impossibile, con tanto di sconosciuto candidato bipartisan per la presidenza.
Tanti ribaltoni, giravolte e acrobazie. Forse troppi, anche per istituzioni giovani e inesperte come quelle del Kosovo. Soprattutto considerato che due pesi massimi del panorama politico mondiale, come Stati Uniti e Unione europea, si sono ritagliati il ruolo di maestri e precettori del neonato soggetto statuale.
Il panorama politico kosovaro dopo l’elezione della Jahjaga
L’intesa che ha portato Atifete Jahjaga alla presidenza kosovara è frutto di un compromesso da cui tutti i principali protagonisti dell’accordo sono convinti di guadagnare qualcosa.
Behgjet Pacolli è a prima vista il leader costretto alle concessioni più dolorose. La sua rinuncia alla presidenza però, almeno nei suoi piani, sembra essere soltanto temporanea. Con l’introduzione dell’elezione diretta, misura voluta con forza proprio da Pacolli, il leader dell’AKR non ha nascosto le proprie speranze di riottenere presto la più alta carica dello stato grazie al voto dei kosovari.
Non è escluso un parziale aggiustamento dell’attuale esecutivo, in cui Pacolli e il suo partito potrebbero trovare maggiore spazio ed influenza.
Hashim Thaçi ottiene il suo obiettivo principale: restare alle redini dell’esecutivo in un momento politicamente complicato, soprattutto dopo le accuse di gravi crimini a cui è stato associato nel recente rapporto per il Consiglio d’Europa del senatore svizzero Dick Marty.
Thaçi incassa poi l’ennesimo segnale di sostegno da parte degli Stati Uniti e, con un presidente totalmente privo di forza politica autonoma, aumenta il proprio peso relativo sul palcoscenico kosovaro.
Il premier deve però pagare un prezzo politico non indifferente: in queste tormentate settimane alcuni importanti elementi del PDK, come Jakup Krasniqi e Fatmir Limaj, hanno espresso crescente disaccordo con le scelte del leader, minando in profondità le fondamenta del partito, fino alle soglie della scissione.
Isa Mustafa e il suo LDK portano a casa la riforma del sistema elettorale e riaffermano davanti agli occhi degli “internazionali” di essere partner responsabili e affidabili. Risultati giudicati evidentemente sufficienti a spezzare il fronte comune con gli altri partiti dell’opposizione (l’AAK di Ramush Haradinaj e il movimento Vetëvendosje di Albin Kurti) che aveva dimostrato di poter mettere con successo i bastoni tra le ruote dell’esecutivo.
Sono proprio l’AAK e Vetëvendosje, esclusi dalle trattative e almeno in parte privati di un importante alleato in parlamento le formazioni che sembrano pagare il prezzo più alto rispetto agli ultimi sviluppi.
Indipendenza supervisionata “in action”
Dalla dichiarazione di indipendenza del febbraio 2008, mai come in queste settimane la comunità internazionale (leggi Washington e Bruxelles) è intervenuta per indirizzare l’élite politica kosovara e sbrogliare situazioni ritenute pericolose o indesiderabili, anche vista l’incapacità di impedire che queste venissero a crearsi. L’”indipendenza supervisionata” del Kosovo, per così dire, non è mai apparsa tanto supervisionata.
Sotto i riflettori soprattutto l’ambasciatore americano Christopher Dell, che ha ribadito, se ce ne fosse bisogno, qual è la voce che si ascolta con più attenzione dalle parti di Pristina.
Dopo aver scatenato polemiche per il suo ruolo di “facilitatore” durante la burrascosa elezione di Pacolli, con tanto di scambio di sms con rappresentanti dell’AKR, Dell si è fatto carico dell’accordo raggiunto in extremis sull’elezione della Jahjaga che, sempre secondo Dell, gode della piena fiducia del Segretario di stato americano Hillary Clinton.
Vetëvendosje, dopo aver denunciato l’ingerenza dell’ambasciatore nelle questioni interne kosovare, si è spinta a dichiarare polemicamente che ormai in Kosovo, al posto di una democrazia, è stata instaurata una “Dell-ocrazia”.
L’Ue è rimasta più in ombra, pur avendo obiettivi comuni con gli Stati Uniti. Prima di tutto evitare nuove elezioni e garantire stabilità politica, soprattutto dopo l’esperienza negativa del voto del dicembre 2010. Per l’Ue poi è importante far proseguire i negoziati tra Kosovo e Serbia, appena iniziati, che una prolungata crisi politica a Pristina avrebbe rischiato di arenare prematuramente.
Nell’indicare (scegliere?) la Jahjaga, i rappresentanti internazionali hanno probabilmente tenuto conto anche dei “problemi di immagine” che il Kosovo ha accumulato negli ultimi mesi, individuando un candidato donna, preparato e giovane (appena 36 anni), da contrapporre all’immagine appannata se non compromessa dei vari leader politici, come Hashim Thaçi.
Il problema però, è che da questa complessa situazione, ad uscire con un’immagine appannata non è soltanto la leadership kosovara. I supervisori dell’indipendenza del Kosovo, Ue in testa, escono moralmente e politicamente indeboliti dalla lunga serie di rumorosi tonfi istituzionali e soluzioni raffazzonate.
E se la classe politica kosovara non si è distinta per maturità e senso dello stato, i precettori internazionali hanno mancato più volte l’occasione di prevenire i momenti di crisi, intervenendo soltanto a cose fatte e senza badare più di tanto alla forma. E nello stato di diritto, si sa, la forma è anche sostanza.
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