Tipologia: Notizia

Area: Balcani

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Arte e testimonianze delle guerre jugoslave

Dal prossimo autunno, in vari paesi europei, un’esposizione di artisti cercherà di affrontare il rapporto tra valore e problematicità della testimonianza come strumento di comprensione del passato

13/06/2017, Marco Abram -

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Riflettere sul ruolo della testimonianza nella comprensione dei conflitti di dissoluzione jugoslava degli anni Novanta: è questo l’obiettivo del progetto Testimony: Truth or Politics. Tra le principali attività previste nel corso del 2017 si distingue l’organizzazione di un’esposizione artistica che, a partire dall’autunno, verrà ospitata nei paesi coinvolti dal progetto: Italia, Austria, Belgio e Serbia. I lavori preparatori sono iniziati nelle ultime settimane dello scorso anno con l’incontro operativo tra i partner e gli artisti che prenderanno parte all’esposizione.

I progetti artistici, appositamente selezionati attraverso una “call for artists”, si avvalgono di centinaia di interviste raccolte dai partner nell’ambito di progetti realizzati negli scorsi anni. In primo luogo “Imenovati to ratom” (Chiamarla guerra) promosso dal Centre for Cultural Decontamination  di Belgrado , che ha registrato le testimonianze di pacifisti e di reduci di guerra serbi allo scopo di riportare l’attenzione su un conflitto volutamente marginalizzato nel dibattito pubblico del paese. L’altra importante collezione è quella costruita da Osservatorio Balcani e Caucaso nell’ambito del progetto “Cercavamo la pace”. I racconti di decine di cittadini italiani impegnati nelle iniziative di solidarietà risultano utili per approfondire l’importanza che le guerre degli anni Novanta ebbero per l’Italia e l’Europa. Raccolte come fonti storiche nell’ambito di specifici lavori di ricerca, le testimonianze dei protagonisti trovano nuova espressione grazie alla creatività degli artisti, in un dialogo tra storia, arte e testimonianza che intende riportare l’attenzione sulle guerre di dissoluzione jugoslava.

In questi mesi, gli artisti stanno lavorando alle installazioni che andranno a comporre l’esposizione finale in autunno. La maggior parte dei progetti si basa su un approccio critico nei confronti dei racconti messi a disposizione. Al centro dell’attenzione in molti casi si trova il rapporto tra il valore e la problematicità della testimonianza come strumento di comprensione del passato, che porta molti artisti a sperimentare processi di decostruzione e rielaborazione.

Andrea Palašti i Sanja Anđelković (Novi Sad), ad esempio, partono da una singola testimonianza per costruire un radio dramma in tre atti, ognuno dei quali basato sulla manipolazione della narrazione in tre stili diversi. La decostruzione e la ricostruzione del vissuto si concentrano sulla testimonianza diretta del conflitto, ma anche sugli aspetti della vita quotidiana e sul silenzio presente nel racconto. Verso un’ampia decostruzione della testimonianza narrativa si orienta anche Katerina Šević (Berlino), che attraverso l’organizzazione di un “ascolto di gruppo” delle testimonianze, seleziona alcuni temi specifici (dalla paura alla vergogna, all’ingiustizia). I passaggi individuati saranno quindi protagonisti della performance di ricostruzione dell’artista. Lala Raščić (Sarajevo) si affida invece a un’analisi quantitativa del linguaggio per estrapolare le parole più frequenti delle interviste e utilizzarle nella sua reinterpretazione. Mentre l’installazione di Jacek Smolicki e Tim Shaw (Malmö) chiederà al visitatore di imparare e ripetere le testimonianze, con l’obiettivo di mettere l’accento sulla manipolazione della memoria, compresa e interpretata a seconda dell‘esperienza e delle circostanze.

Vladimir Miladinović (Belgrado) si riferisce ai problemi emersi durante la “traduzione processuale“ delle testimonianze utilizzate dal Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia (ICTY) e affronta il rapporto tra verità storica e rappresentazione del passato. Il suo lavoro si focalizza sull‘interpretazione e la potenziale incompresione della testimonianza, attraverso la riproduzione dei processi di traduzione dalla lingua originale. Problemi simili sono al centro del lavoro di Ryo Ikeshiro e Aron Rossman-Kiss (Ginevra-Londra), che partono dal problema della presunta incomprensibilità per l’osservatore esterno delle guerre jugoslave. La varietà delle voci e delle “verità” che propongono viene tradotta e rielaborata attraverso tecnologie automatiche, allo scopo di metterne in luce le problematicità della trasmissione.

L’installazione di Ana Bunjak (Belgrado) immerge invece il visitatore nelle contrapposizioni prodotte dai media e dalla politica nella sfera pubblica della regione. La sua installazione intende sottoporre al visitatore un dialogo/scontro tra diverse testimonianze, ricomposte in una “fuga“ riprodotta in stereo da due pistole-casse.

Diversa la metodologia proposta da Nikola Radić Lucati (Belgrado) che rielabora le interviste ai veterani serbi ponendole nel loro contesto storico grazie al lavoro su fonti di altro tipo. Le testimonianze vengono rivitalizzate attraverso un programma radio che riporterà negli anni Novanta, nel tentativo di confrontare il racconto dei testimoni con una più ampia e completa ricostruzione del passato. Anche il lavoro di Jelena Marković (Belgrado) utilizza le voci raccolte per riportare l’attenzione sul coinvolgimento dei cittadini della Serbia nei conflitti degli anni Novanta. Al centro della sua istallazione le prime telefonate a casa dei soldati mobilitati per il fronte, ricostruite attraverso le testimonianze e analizzate nei contenuti e nel non detto.

Altri artisti coinvolti nel progetto si sono impegnati nella raccolta di nuove testimonianze volte a fare luce su peculiari aspetti del conflitto. I racconti vengono considerati strumento utile a mettere in discussione le narrazioni ufficiali dominanti sul passato e a valorizzare punti di vista alternativi.

Kristina Marić (Osijek), attraverso un lavoro basato sia su performance che su audio-installazioni, si focalizza sul conflitto e sulla sua eredità lungo la frontiera serbo-croata del Danubio. La sua analisi artistica prende in considerazione i rapporti tra le due sponde del fiume e la manipolazione dei media che accompagnò il conflitto. L’artista inoltre integrerà le interviste ai veterani serbi proposte dal progetto con quelle dei veterani croati, in modo da creare un’ inedita combinazione di voci.

Lana Čmajčanin e Adela Jušić (Sarajevo) riportano l’attenzione sulla dimensione quotidiana del conflitto, dando voce alle esperienze vissute nei semiterrati di Sarajevo durante l’assedio. Spazi che si trasformarono da depositi a rifugi dai bombardamenti dove continuare a vivere. Altre voci spesso marginalizzate che troveranno spazio nell’esposizione sono quelle legate all’esperienza femminile. Doronre Paris (Dublino) recupera le testimonianze di bosniache, serbe e croate per valorizzare il punto di vista femminile sul conflitto: dalle donne combattenti a coloro che subirono l’internamento. La prospettiva delle vittime civili è al centro del lavoro di Mersid Ramicevic (Amburgo), che propone una ricerca artistico-musicale sui tratti comuni di tale esperienza, individuati attraverso il lavoro con nuovi testimoni. Filip Jovanovski e Ivana Vaseva (Skopje) si concentrano in particolare sulle esperienze dei cittadini macedoni, investigandone il rapporto con il passato e con il nazionalismo, espresso anche dalla nuova monumentalistica nel paese.

Un lavoro che punta a richiamare la dimensione europea del conflitto è quello di Iula Marzulli e Marianna Fumai (Bari), che recuperano la memoria dei profughi partiti dalle zone di guerra e rifugiatisi in altri paesi europei. La loro installazione farà dialogare le storie personali raccontate dagli artisti che vissero gli anni di guerra da rifugiati all’estero con quelle di coloro che invece rimasero nel proprio paese.

Si discosta dagli altri per l’impostazione la proposta di Daniel Nicolae Djamo (Bucarest), che utilizza le “testimonianze” di un’ipotetica nuova guerra jugoslava, scoppiata in un futuro 2028. Seguendo le vicende di un ngruppo di rifugiati serbi a Monaco, in un quadro politico caratterizzato dalla dissoluzione dell’Unione Europea (2024), l’installazione di Djamo esplora i temi della migrazione, le difficoltà dell’integrazione e le questioni politiche ad essa collegate.

La realizzazione delle opere è in pieno svolgimento, coordinata dal Centre for Cultural Decontamination  di Belgrad o e da Zoran Erić, curatore del Museo di arte contemporanea di Belgrado. L’esposizione verrà ospitata presso la prestigiosa istituzione della capitale serba e nei paesi delle organizzazioni partner. Tuttavia, l’instaurazione di nuove collaborazioni è oggi al centro del lavoro dei promotori del progetto, allo scopo di portare questa poliedrica riflessione sul vissuto delle guerre jugoslava in altri paesi europei.

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