Arrivederci al lago di Rama
Quarant’anni dopo aver visitato la valle di Rama, l’autrice vi ritorna. Nel frattempo al fiume si è sostituito un lago artificiale e la Jugoslavia non esiste più. La seconda parte di un racconto
L’autobus parte da Sarajevo all’una e mezza spaccata, l’orario è sempre lo stesso da sessant’anni. Nel frattempo un paese, la Jugoslavia, è scomparso. La città d’arrivo ha cambiato nome, non è più Prozor ma Prozor-Rama, e almeno la metà della popolazione di prima della guerra non c’è più. Ma l’orario della corriera che va da Sarajevo a Prozor, e viceversa, è immutabile.
Dopo quarant’anni torno nella valle di Rama. So che, dove una volta c’erano i campi di terra fertile, oggi si estende un lago artificiale. L’ho visto nelle foto e nei filmati, ma di persona mai.
Nell’autobus i passeggeri si comportano come a casa di un amico, si salutano, alcuni stringono la mano all’autista, scherzano. Nella prima mezz’ora di viaggio tutti chiacchierano ad alta voce, un tizio si lamenta perché non ha finito un certo lavoro nella capitale, un altro è contento perché ha fatto quello che doveva fare e può lasciare Sarajevo. Gli studenti, ammassati nel retro della corriera, ridono e canticchiano: stanno tornando a casa per il fine settimana.
Poi si calmano. Qualcuno si addormenta e si mette subito a russare, altri – come me – guardano dal finestrino il paesaggio che cambia.
Sarajevo la lasciamo ben presto alle nostre spalle. La corriera procede verso il valico di Bradina, il confine geografico tra la Bosnia e l’Erzegovina. La strada, da quel che posso vedere dal finestrino, non è cambiata molto negli ultimi quarant’anni: è una statale stretta e piena di curve. Ogni tanto sulle alture in mezzo ai boschi, come una ferita aperta, spunta il cantiere dell’autostrada. La via che stanno costruendo dovrebbe essere il collegamento più breve tra l’Europa centrale e il mare Adriatico. Ma è un lavoro che, a quanto pare, non finisce mai. I lavori si trascinano, a stento, da vent’anni. Una decina di chilometri viene aggiunta ogni due o quattro anni, alla vigilia delle elezioni politiche.
Dopo la galleria di Bradina si entra in Erzegovina. Il passaggio è percepibile perché fa più caldo. La strada è così ripida, che da piccola – mi ricordo – avevo paura di precipitare giù in fondo. La via passa per una valle stretta tra le montagne alte e boscose. Il paesaggio è bellissimo, sembra la Svizzera, ma meno artefatta.
Si fa una breve pausa-caffè a Konjic, una cittadina che pare soffrire per il poco spazio che ha guadagnato tra i monti. Una volta era la sede di un’importante industria bellica. Qui si trova il bunker anti-atomico dell’ex presidente jugoslavo Tito. La reggia sotterranea, scavata nel ventre della montagna a 300 metri di profondità, conta circa seimila metri quadrati. È rimasta nascosta per mezzo secolo. Il segreto è stato svelato dopo la guerra degli anni Novanta perché, come ha spiegato uno dei custodi, con la dissoluzione della Jugoslavia, chi sapeva non si sentiva più vincolato dal giuramento sul segreto.
Oggi a Konjic si punta sul turismo, si organizzano discese di rafting sulla Neretva, tra i fiumi più spettacolari della zona. Qui la Neretva è ancora intatta e pulita, un gioiello naturale. Più avanti si prosciuga o sparisce tra le varie dighe costruite per alimentare le idrocentrali.
Poi si prosegue verso la cittadina di Jablanica, dove la strada si biforca a sud, verso Mostar e la costa dalmata, e a nord-ovest, verso Prozor e poi il lago di Rama. La Neretva, dopo Konjic, diventa il lago artificiale di Jablanica (jablaničko jezero). Questa zona è chiamata anche la “valle degli agnelli”. Il titolo bucolico non ha nulla a che fare con l’immagine pastorale che potrebbe evocare. Lungo la strada, infatti, si susseguono molti ristoranti e trattorie, dove il pasto principale consiste nell’agnello allo spiedo.
In uno di questi posti si ferma anche la nostra corriera. I passeggeri scendono dall’autobus in fretta e si mettono in fila davanti a un banco all’aperto. Con il cameriere il dialogo è laconico, le parole si riducono al minimo: “Mezzo” o “un quarto”, di chilo di carne s’intende. Dopo mezz’ora restano solo gli ossi, compreso il teschio. I cani, che prima stavano sdraiati e semi-addormentati, lentamente si alzano in piedi. Dal finestrino dell’autobus li vedo finire gli avanzi.
A Prozor mi aspetta una macchina e un mio conoscente che mi porterà al lago di Rama, a dieci chilometri dalla città, il centro amministrativo della zona. Prozor mi appare ogni volta più piccola e più trascurata. E infatti lo è. Dopo la guerra degli anni Novanta non si è costruito più nulla e quello che è rimasto pende, cade. Si sta avverando la maledizione del sultano turco Mehmed Fatih II? “Che tu sia dannata, hai mangiato più soldati di tutta la Bosnia”, avrebbe detto il sultano, secondo la leggenda, dopo aver conquistato la città con una feroce battaglia costata la vita a molti uomini.
Il lago artificiale di Rama, come una sposa novella, non si fa vedere finché non si è proprio vicini. Lo nasconde la bassa vegetazione di cespugli e arbusti. La sensazione di trovarsi in una valle non è cambiata rispetto a quarant’anni fa. In mezzo agli alti monti Raduša, Vran, Makljen, Čvrsnica è situato il lago di forma irregolare con le isole che, insieme, osservando dall’alto, assumono la forma di una chitarra. L’acqua è di colore verde-blu, la superficie è calma e liscia come se fosse di ghiaccio.
È una bella e soleggiata giornata di fine settembre. Passiamo lentamente lungo la riva del lago. A destra ci sono delle case nuove, belle e grandi. Pare che la gente stia bene. Si sentono i suoni della vita quotidiana: voci in lontananza, il rumore degli animali domestici, il suono metallico di qualcuno che batte, il rombo di un motore… ma non si vede anima viva.
Quello che una volta era una delle colline della valle, adesso è una penisola con la chiesa cattolica e il monastero francescano di Šćit. Gli edifici sono nuovi, grandi e robusti, costruiti per durare. L’intenzione o la speranza è fondata. Qui ogni generazione ricomincia da capo, non solo nella vita privata ma anche dal punto di vista storico e sociale. Negli ultimi cinquecento anni la chiesa è stata più volte costruita e abbattuta, sempre sullo stesso posto. Come accade anche per le moschee.
La chiesa e il monastero non hanno valore storico o architettonico, ma sono sempre stati il punto di riferimento per i cattolici della zona. E per i nazionalisti croati, sostenuti dalla chiesa croata. Fu così che un gruppo paramilitare, formato dai membri di un’organizzazione estremista croata in Australia, nell’estate del 1972 entrò nel territorio dell’ ex-Jugoslavia con l’obiettivo di sollevare la rivolta, rovesciare il regime e instaurare la NDH (Stato Indipendente Croato). L’operazione è conosciuta con il nome in codice “Raduša”, oppure “Phoenix”.
Sbarcarono proprio in questa zona sperando di trovare l’appoggio della popolazione e del clero cattolico. Furono catturati, alcuni uccisi dopo lo scontro armato con la milizia e la difesa territoriale jugoslava. A uno di loro (non voglio nominarlo), considerato allora, come dovrebbe esserlo oggi, un terrorista, oggi è stato eretto un monumento che lo innalza a eroe croato. Ma io quell’episodio me lo ricordo per un altro nome, Ahmo Gelić, un giovane poliziotto. Era l’unico figlio di una famiglia rom, suo padre faceva il fabbro e sua madre era casalinga. Era l’orgoglio non solo dei suoi genitori, ma di tutto il vicinato. Ahmo, ventenne, fu ucciso in quell’azione terroristica. I suoi genitori, poco dopo, sono morti con il cuore spezzato.
A Šćit, accanto alla chiesa, i frati francescani hanno aperto la “Casa della Pace” dove si fanno incontri, si organizzano conferenze e tavole rotonde, si discute e si insegna a come mantenere la pace. Dovrebbe approfittarne la gente locale: i numerosi cattolici e i rari musulmani. Per un lungo periodo vivono tranquilli come fratelli e buoni vicini, bevono insieme il caffè o la rakija, festeggiano le ricorrenze degli uni e degli altri. Poi succede che, da un giorno all’altro, diventano acerrimi nemici, si ammazzano, si scacciano a vicenda, distruggono tutto quello che avevano costruito nel periodo di pace.
E quando termina il conflitto ti dicono: “non sappiamo cosa sia successo”, “è strano, si stava così bene insieme”, oppure “eravamo buoni amici /vicini”, e le persone accusate per i crimini di guerra si difendono dicendo di “aver svolto solo il proprio dovere verso la patria”.
Oggi questa zona è quasi etnicamente pulita. Quello che i serbi hanno fatto nella Bosnia orientale, i croati l’hanno completato qui e in buona parte dell’Erzegovina: ripulita dai musulmani. “Gli esperti” adesso si affrettano a costruire i pretesti teorici per i crimini, reclamano che è “da sempre stata terra croata”. E per sostenere le affermazioni, elencano i fatti storici, però, citano la storia solo nella misura che giustifica la loro teoria di “sangue e terra”, cioè tribale.
Ma qui bisogna fare in modo che ogni casa diventi una casa della pace, renderla tale fin dall’inizio della costruzione, anzi dall’idea stessa, per risparmiare le forze, per impedire a questa gente di farsi del male dopo aver costruito, sviluppato e stretto la fratellanza e l’amicizia.
Superiamo la chiesa e il monastero di Šćit che si affacciano sul lago e da dietro sono protetti da alte mura di pietra. Non c’è nessuno in vista per chiedere informazioni o indicazioni. Proseguiamo alla cieca: la strada sale su una collina e diventa un sentiero che striscia tra le case, i cortili e le stalle. Poi, sulla destra un cartello, modesto, indica un ristorante. Siamo già sulla cima della penisola, e quando ormai pensiamo di girare per tornare indietro, perché ci sembra di esserci persi, il lago appare di nuovo. Siamo sul pezzo di terra che, come un chiodo, entra nel lago, da tre parti circondato dall’acqua. Il paesaggio è spettacolare. Usciamo in fretta dalla macchina per goderci in pieno questa bellezza.
Mi accorgo che siamo nel giardino-terrazza della trattoria-ristorante “Gaj”, la stessa segnalata dal cartello di prima, e forse anche l’unica. Scegliamo un tavolo all’aperto, poi ci spostiamo su un altro che ci sembra più bello, cambiamo ancora due o tre volte, perché non riusciamo a deciderci. Arriva un giovane, vestito in borghese, ci saluta e chiede cosa può offrirci. Ci avverte subito che “è troppo presto per l’agnello (allo spiedo)”. “Hm, allora anche voi fate parte della valle degli agnelli?”, chiedo. Lui, non capisce la battuta, prende una manciata d’erba da sotto i piedi e ci dice che i suoi agnelli sono tra i migliori perché mangiano “solo queste erbe, tutte aromatiche”.
Ci consiglia la trota, appena pescata dal lago, e un po’ di formaggio e pane “domaće”, cioè di casa, come antipasto. Il pane è appena sfornato, di quelli che mi ricordo dall’infanzia, quando lo schiacci, subito si rigonfia, come la spugna.
Il giovane in borghese è il proprietario del ristorante. Accetta il nostro invito e beve un bicchiere di vino con noi (lo ordina da un produttore in Dalmazia, precisa).
Il lago ha cambiato il paesaggio. Non mi oriento bene. Gli chiedo dov’è il villaggio di Varvara, dove sorge il fiume che adesso è coperto dal lago. Indica l’altra riva. “E Buk?”, riferendomi al principale affluente di una volta del fiume Rama. “È sull’altra sponda”, dice. All’inizio non vedo nulla, mi sforzo e poi noto un punto dove l’acqua si muove”. “Bolle sempre, sotto, e dopo le piogge abbondanti Buk emerge zampillando, come una fontana”, ci spiega. “Ci si può avvicinare solo con la barca”, dice.
L’imprenditore ha un lavoro statale, ogni mattina va a Sarajevo e torna di sera. È contento, ma la sua ambizione è di allargare questo business familiare, punta sul turismo, ci parla con entusiasmo di quello che ha intenzione di fare: allargare, costruire, aggiungere… Intorno al lago si snoda la strada sterrata, ideale per il ciclismo, si può andare per i monti e “ inoltre per la celebrazione della Natività di Maria, l’8 settembre, qui si ammassano tra le venti e le trentamila persone. Non c’è posto neanche per un ago”, ci dice.
Ho già deciso di tornarci, ma non per stare nella massa. Mi attira la serenità profonda e l’armonia che emana il posto. Non è solamente una pace esterna, ma è una pace interiore, che si fa con se stessi.
Mi tornano in mente gli antichi bogomili e la loro abitudine di abitare i luoghi dove – oggi si direbbe – c’è energia positiva. Proprio come questo, penso. Voglio tornarci, per riempirmi l’anima e gli occhi.
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