Armenia – Azerbaijan, di crisi in crisi
Non accenna a diminuire la crisi post guerra tra Armenia e Azerbaijan. A preoccupare le frequenti tensioni in luoghi di frontiera, ridisegnata dopo il conflitto. Ancora incerte le sorti dei prigionieri sulle quali è intervenuto recentemente il Parlamento europeo con una sua risoluzione
La crisi di Syunik, punta dell’iceberg del potenziale contenzioso fra Armenia e Azerbaijan, è scoppiata il 12 maggio, e da allora rimane irrisolta. In queste settimane la crisi frontaliera si è acutizzata con varie criticità ed episodi violenti anche in altre località. Il 18 maggio il ministero della Difesa armeno ha confermato le voci che stavano circolando sui social network e sui media di scontri a Vardenis , nella provincia di Gegharkunik dove nei giorni seguenti è stato registrato un incremento di tensione.
I social media sono stati co-attori in questa escalation di tensione: vi sono questioni irrisolte relative alla demarcazione del confine fra i due paesi e alla prossimità degli eserciti che – data l’animosità reciproca – risultano in scontri fra gruppi di soldati che letteralmente si imbattono gli uni negli altri mentre procedono a mettere in sicurezza quelle che ritengono le proprie parti di territorio. Questi episodi circolano immediatamente attraverso i social insieme allo sdegno nelle relative opinioni pubbliche. E questo acuisce il conflitto.
È diventato ad esempio virale il video dell’allontanamento in malo modo di un soldato armeno da Vardenis, ripreso dai soldati azeri e indicato come allontanamento dalla regione di Kalbajar, una delle regioni della cintura di sicurezza riconquistate nel 2020. Più volte le istituzioni armene hanno invitato ad astenersi da far circolare video e informazioni che possono contribuire a creare tensione e rabbia sociale, se non addirittura procurati allarmi. È un processo che segue tutti i conflitti e che non sta certo risparmiando la società armena che deve fare i conti con una crescente ansia per la situazione alle proprie frontiere.
Il 20 maggio, dopo un paio di giorni, di nuovo a Gegharkunik, uno scontro fra soldati ha causato 11 feriti dalla parte armena e un non precisato numero da quella azera. Il 25 maggio, sempre a Gegharkunik, un soldato armeno ha perso la vita dopo essere stato raggiunto da uno sparo. La parte azera ha negato la responsabilità nell’episodio. Ha anzi accusato l’Armenia di stare deliberatamente causando una escalation di tensione lungo i confini per motivi di politica interna, in vista delle prossime elezioni, e di portare avanti ricorrenti provocazioni lungo il confine o nelle aree riconquistate.
Fra le aree interessate da colpi sparati da parte armena ci sarebbe Shusha, che rimane una mela avvelenata nei rapporti fra le parti armena, azera e karabakhi.
I prigionieri
È un quadro che presenta molti elementi critici: ci sono villaggi divisi in due e infrastrutture condivise, prossimità fisica fra eserciti armati in assenza di buffer zone o forze di interposizione, questioni che non hanno ancora una soluzione politica e nemmeno un meccanismo di confronto concordato. Non solo per il Nagorno Karabakh ma anche per quello che sta diventando il nuovo oggetto del contendere, cioè la delimitazione e demarcazione dei confini diretti tra i due paesi. In questo quadro è largamente prevedibile che gli episodi si facciano sempre più ricorrenti e gravi.
Ed infatti il 27 maggio è stata di nuovo una data critica. Sei soldati armeni sono stati fermati e tratti in arresto dall’esercito azero. Di nuovo le loro foto sono state veicolate sui media. Le parti hanno ricostruzioni molto differenti di quello che sarebbe accaduto.
Secondo il ministero delle Difesa dell’Azerbaijan si sarebbe trattato di un gruppo di sabotatori armeni intercettati nella regione di Kalbajar mentre minavano il terreno. Il ministero ha anche reso note le coordinate dell’incidente per dimostrare che si è tenuto in territorio azero.
Secondo gli armeni, mappa alla mano, il gruppo di sei sarebbe stato accerchiato in territorio armeno e poi trasportato nell’area riconquistata. Il vice Capo di Stato Maggiore dell’Armenia ha sostenuto che due avamposti azeri si erano insediati uno a 1,5 km e l’altro a 2.5 km in territorio armeno e il gruppo di sei si era incuneato fra i due per evitare che potessero consolidare la nuova linea difensiva. Secondo la stima dello Stato Maggiore il numero di soldati azeri che attualmente si troverebbero su territorio armeno sarebbe di circa un migliaio.
Quanto avvenuto aggiunge benzina sul fuoco sulla questione della sorte dei prigionieri di guerra. Secondo l’Azerbaijan questo gruppo di sei si unisce ad altri armeni fermati dopo la firma della dichiarazione trilaterale (russa-armena-azera con cui si è negoziato il cessate il fuoco), quindi o terroristi o sabotatori perché la guerra è interrotta. Secondo l’Armenia sono prigionieri di guerra e insieme agli altri devono essere rimpatriati senza precondizioni.
Intervento dell’Europarlamento
Sulla questione dei prigionieri si sono espressi in queste settimane vari attori internazionali. A inizio del mese di maggio un gruppo di europarlamentari ha scritto alle principali istituzioni europee chiedendo di esercitare pressione per il rilascio di 72 prigionieri fermati dopo la dichiarazione trilaterale, 112 persone di cui non si sa la sorte, e 61 persone che risulterebbero in mano azera, ma di cui l’Azerbaijan nega la presenza sul proprio territorio.
Il 20 maggio l’Europarlamento ha approvato con 607 voti a favore, 27 contrari e 54 astensioni una risoluzione sui prigionieri di guerra che “chiede il rilascio immediato e incondizionato di tutti i prigionieri armeni, militari e civili, detenuti durante e dopo il conflitto, e che l’Azerbaijan si astenga dal procedere in futuro a detenzioni arbitrarie; esorta le parti ad attuare pienamente la dichiarazione tripartita di cessate il fuoco del 9 novembre 2020, che prevede uno scambio di prigionieri di guerra, di ostaggi e di altri detenuti, nonché delle spoglie di coloro che sono stati uccisi durante le ostilità”.
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