Alluvioni in Bosnia Erzegovina e Serbia, un aggiornamento
A più di venti giorni dalle disastrose alluvioni che hanno colpito i due paesi, com’è la situazione sul campo? Il punto sull’intervento e sugli aiuti, nelle testimonianze delle ONG italiane attualmente impegnate nell’aiutare le popolazioni in difficoltà
Bosnia Erzegovina
In entrambe le entità del paese le autorità hanno precipitosamente dichiarato concluso lo stato d’emergenza, che era stato proclamato separatamente dai due governi delle due unità amministrative che compongono la Bosnia Erzegovina. Anche da un punto di vista meramente formale, quindi, si preferisce ormai parlare di uno stato di “post-emergenza” nel quale cominciano ad arrivare anche le notizie di un prossimo sostegno da parte dei finanziatori internazionali.
Il ministro degli Esteri, Zlatko Lagumdžija, ha ufficialmente dichiarato che “una conferenza internazionale per i donatori verrà organizzata all’inizio del mese di luglio”. Nel frattempo, l’ufficio della Commissione europea per le emergenze (ECHO) ha aperto un bando del valore di 3 milioni di euro per programmi destinati ad aiutare, nel corso dei prossimi sei mesi, le popolazioni di Bosnia Erzegovina e Serbia.
Tra le principali priorità evidenziate dalle ONG italiane sul campo (Cesvi, Ipsia, Caritas, Oxfam) c’è, innanzitutto, quella di provvedere alla riqualificazione delle abitazioni. Silvana Grispino, Responsabile d’area di Oxfam, spiega a Osservatorio: "I danni lasciati dalle inondazioni nella zona sono enormi. Il totale dei danni è ancora in corso di valutazione e potrebbe servire del tempo prima di conoscere la reale portata delle conseguenze che le inondazioni hanno avuto sulle abitazioni, sulle infrastrutture e sull’economia. Ci vorranno anni per recuperare la Bosnia Erzegovina e la Serbia dalla disastrosa devastazione. Entrambi i paesi avranno bisogno di aiuto e di un duraturo impegno nel ripristino dell’economia, delle infrastrutture, nella ricostruzione degli alloggi ricostruzione e dei mezzi di sussistenza rurali. Da soli non possono farcela. "
La gente, dopo più di due settimane, vuole tornare a casa, chiede sempre meno degli aiuti umanitari immediati (come cibo e acqua) e sempre di più il necessario per riprendere la propria vita quotidiana: asciugatori e deumidificatori per rimuovere l’umidità dai muri e dalle stanze rimaste allagate, per esempio, oppure elettrodomestici. Ma – anche – detergenti e disinfettanti, materiale per i bambini (didattico e sanitario come, per esempio, pannolini) e cibo per il bestiame che è riuscito a salvarsi dalle alluvioni.
In tanta fretta, il rischio è quello – come ci spiegano i dottori che prestano servizio nella municipalità di Domaljevac, vicino a Šamac, rimasta più di venti giorni sott’acqua – che gli abitanti trascurino delle importanti regole sanitarie e, per incuria o per ignoranza, aumentino il rischio di epidemie e contaminazioni. “È fin troppo facile intuire quello che succederà”, dice Samir, uno dei dottori in loco “le persone avranno fretta di sistemare le cose, di tornare alla normalità. Si sistemeranno in ambienti malsani: i muri sono marci, l’acqua ha ingoiato tutto il pianterreno in molti casi. Ci sono topi, serpenti. È un disastro. In più – conclude, esprimendo una preoccupazione condivisa da molti – molto probabilmente si metteranno ad asciugare le proprie abitazioni con stufette e ventilatori, propagando muffe e sporcizia”.
La situazione sanitaria, per il momento, non è un’emergenza. Non lo è, per lo meno, tra chi monitora la situazione dall’alto: Nazioni Unite, governo bosniaco, UE. È una posizione in fondo giustificabile: finora, non c’è stato un singolo caso di malattia epidemica tra gli alluvionati. Ma basta fare un giro nei luoghi colpiti dalle alluvioni per capire che, invece, sul terreno l’allerta è molto alta: il ritorno di centinaia di persone nelle loro case aumenterà i rischi esponenzialmente. E l’estate alle porte, con il gran caldo che è già iniziato anche qui, rischia di peggiorare le cose.
I kit igienici sono, per esempio, tra i principali materiali distribuiti da Cesvi nell’area di Srebrenica: “Qui raccogliamo disinfettanti, sapone, detersivi, biancheria intima, lenzuola e asciugamani, spray contro le zanzare, amuchina, pannolini e pannoloni per anziani” spiega Azra Ibrahimović, che è impiegata sul posto, “ma anche stivali di gomma, deumidificatori, materiale didattico e cibo di lunga durata”.
Srebrenica, e la vicina Bratunac, sono state violentemente colpite da una serie di frane, così come l’area di Tuzla. I lavori per liberare le case procedono lentamente, ma in tanti hanno già deciso di farvi ritorno – in molti casi, nonostante manchino condizioni di abitabilità e di sicurezza minime. Molto spesso, le istituzioni non si sono impegnate a sufficienza per eliminare fango e detriti. In alcuni luoghi, come a Topčić Polje (altro villaggio colpito da frane e smottamenti) ciò ha portato anche a proteste spontanee degli abitanti del posto, che hanno bloccato la strada principale (la Doboj-Zenica) per chiedere al governo di impiegare più mezzi pesanti a questo scopo.
Serbia
Anche in Serbia le priorità sono simili a quelle in Bosnia Erzegovina, come spiega in un rapporto Angela Cesaroni, operatrice di Caritas in loco: “Nelle case in cui la gente ha deciso di rientrare sono iniziate le opere di disinfestazione e di risanamento, troppo spesso superficiali e non adeguate, e c’è un gran bisogno di elettrodomestici e di prodotti per l’igiene, o anche di prodotti non recuperabili quali i materassi”. Paesi diversi, identici problemi: anche qui la situazione sanitaria è sotto controllo, ma i rischi rimangono enormi. “Il repentino cambio di clima e l’arrivo del caldo e dell’estate non avranno effetti positivi sulla situazione”, spiega, “in quanto nelle strade permangono ancora enormi quantità di rifiuti, cibi avariati, carcasse di animali da smaltire”.
La situazione rimane gravissima, soprattutto, nella città che suo malgrado è divenuta il simbolo della catastrofe che ha colpito la regione, Obrenovac. Recentemente il primo ministro Vučić ha dichiarato che lo stato di emergenza per la città resterà in vigore per almeno un’altra settimana. Al momento nel centro cittadino si trovano 1.900 soldati, chiamati a fornire assistenza alla popolazione e a mantenere sotto controllo la situazione.
Se, da una parte, come evidenziato dagli attori in loco la priorità va alla ricostruzione degli alloggi privati (molti dei quali sono stati totalmente devastati dall’acqua, che in alcuni punti ha raggiunto anche i cinque metri di altezza), per la quale il governo ha già annunciato un indennizzo a favore delle famiglie colpite; dall’altra non è ancora chiaro come si farà a ricostruire l’economia del centro cittadino: oltre alla produzione agricola, infatti, anche i negozi e le attività commerciali che si trovavano al piano terra degli edifici sono stati distrutti, un problema che si pone – come già ricordava un precedente articolo di Osservatorio – anche per altre città bosniache, soprattutto Doboj e Maglaj.
A preoccupare numerose organizzazioni non governative locali è anche la condizione di alcune comunità rom evacuate, soprattutto dall’area di Obrenovac. I loro insediamenti sono andati per lo più distrutti – alcuni dalle acque straripate, altri solo dalle abbondanti piogge – e finora nessun piano è stato intrapreso a livello governativo per affrontare la questione.
La situazione è simile anche nelle altre aree del paese colpite dalle alluvioni: a Sabac come a Valjevo e nelle altre regioni che nel corso delle ultime settimane sono finite sott’acqua, le persone cominciano pazientemente a ricostruire. I bisogni, nonostante i confini tra Serbia e Bosnia Erzegovina, denotano una certa uniformità di fondo.
I numeri degli sfollati, la bassa attenzione dei media
In entrambi i paesi appare in diminuzione il numero degli sfollati, anche se i rispettivi governi, per il momento, riescono a donare statistiche più o meno certe soltanto su chi è stato accolto nei centri di accoglienza, e non su quelli – la maggior parte – che sono invece stati ospitati a casa di parenti, o amici. In Serbia, secondo il governo, le persone evacuate sono circa 32.000, mentre i centri ne ospitano attualmente 1.398. Il loro numero, tuttavia, sarebbe in costante diminuzione e secondo il direttore dell’Istituto di salute pubblica di Belgrado, Dragan Ilić , tutti dovrebbero tornare a casa nell’arco delle prossime due settimane.
Anche in Bosnia Erzegovina il numero di sfollati accolti in centri collettivi dovrebbe essere grossomodo simile, mentre resta difficile stimare il numero complessivo di persone evacuate. Nelle prossime settimane, si porrà sempre più il problema di come gestire i bisogni di queste persone, non soltanto da un punto di vista materiale ma anche psicologico.
Un fattore che probabilmente inciderà negativamente sulla situazione di entrambi i paesi, infine, è il calo dell’attenzione mediatica, che avrà il risultato naturale di raffreddare l’attivismo e la solidarietà dimostrati finora dalla popolazione. Già da più parti si comincia a lamentare la carenza di manodopera: i volontari, numerosissimi fino a poco tempo fa, ora iniziano a scarseggiare. Pian piano, le alluvioni e i problemi delle popolazioni colpite da questo dramma scivolano via dalle prime pagine dei giornali. In Bosnia Erzegovina, soprattutto, l’euforia per i mondiali e per gli Zmajevi di Safet Sušić ha fagocitato l’attenzione dell’opinione pubblica. A Sarajevo, gli occhi di tutti sono ormai rivolti al Brasile.
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