Allargamento Ue: non è un processo per tecnici
La crisi finanziaria del 2009 ha messo in seria difficoltà il processo di allargamento dell’Unione europea, a farne le spese soprattuto i Balcani occidentali che ora cercano nuovi partner economici. Un’analisi di Dušan Reljić, analista dell’istituto berlinese SWP
(Pubblicato originariamente dalla rivista accademica Politička misao il 29 novembre 2014, titolo originale: Samo Evropska Unija može na Zapadni Balkan dovesti Rusiju i Tursku – ako bude odlagala vlastito proširenje na to područje )
L’Unione europea dovrebbe avere paura solo di se stessa, invece di dar credito alle fantasie sulla sempre maggiore influenza della Russia nei territori dell’ex-Jugoslavia, perché è proprio il declino della credibilità politica e dell’importanza economica dell’Ue ad aprire il varco a forze esterne nei cosiddetti Balcani occidentali.
Soltanto l’Ue possiede una reale capacità di trasformare questa regione nei suoi aspetti politici, politico-militari, giuridici ed economici, ovvero di integrarla nel progetto europeo. Tuttavia, gli stati membri potrebbero anche lasciare il sud-est europeo alla mercé di coloro i quali indubbiamente vorrebbero avere più influenza in questa regione: la Russia, la Turchia, la Cina e alcuni paesi islamici. I principali stati dell’Unione devono decidere cosa fare.
Stabilità permanente
All’inizio di questo secolo, una volta finite le guerre per l’eredità della Federazione jugoslava, a Bruxelles è stato adottato, con la benedizione degli Stati Uniti, un piano (denominato Strategia europea in materia di sicurezza, 2003) il cui obiettivo era raggiungere una stabilità permanente in Europa.
Il principale strumento di attuazione di questo piano nel sud-est del continente doveva essere un percorso finalizzato a condurre tutti gli stati eredi della Federazione jugoslava nonché l’Albania all’adesione all’Ue.
Ora, il raggiungimento dell’obiettivo di integrare i Balcani occidentali nell’Ue non può essere, nemmeno in teoria, bloccato dalle pretese russe, turche o di qualsiasi altro fattore “terzo” bensì, esclusivamente dalla stessa Unione che rimanda continuamente l’adesione di questi paesi e li spinge verso un futuro sempre più incerto.
Tale situazione deriva principalmente dalle contraddizioni economiche, sempre più profonde, del processo di integrazione europea e, soprattutto, dal fallimento della transizione economica dei paesi ex-socialisti. A questo problema fondamentale si aggiungono l’inconsistenza della politica di allargamento dell’Ue, le specifiche priorità politiche di alcuni dei più potenti stati membri nonché l’opportunismo degli stati membri del sud-est europeo che usano il processo di allargamento per i propri obiettivi nazionali.
Convergenze o divergenze?
La finalità dell’integrazione europea è la convergenza all’interno dell’Ue, ovvero un livellamento delle condizioni giuridiche, economiche e sociali tra singoli stati. La crisi finanziaria ed economica, iniziata nel 2009, ha invece incentivato la divergenza tra gli stati membri. In parole semplici: il nord del continente (la Germania, l’Olanda, i paesi nordici) ha sopportato con meno difficoltà l’impatto della crisi e adesso di nuovo progredisce economicamente, mentre il sud (la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo) ancora una volta non riesce a tenere il passo.
Per quanto riguarda i paesi ex-socialisti dell’Europa orientale, la loro transizione avrebbe dovuto portare alla convergenza con i vecchi membri dell’Unione. Tuttavia, neanche la Germania orientale, nella quale sono stati versati duemila miliardi di marchi tedeschi, non è riuscita a equipararsi al resto del paese. Pare che l’est europeo sia condannato a rimanere perennemente in ritardo, in termini economici e sociali, rispetto al nord-ovest del continente. Nel territorio dell’ex-Jugoslavia, la transizione, nonostante la Slovenia e la Croazia siano divenute membri dell’Ue, non ha portato i risultati promessi, come testimoniano ovunque i bassi standard di vita, la scomparsa dell’economia “reale” (ovvero della produzione industriale) nonché il senso di disperazione diffuso tra i giovani, spinti ad emigrare verso nord-ovest del continente (così come i loro coetanei provenienti dall’Europa del sud).
La politica di allargamento dell’Ue, per la maggior parte, non ha preso in considerazione queste evidenti contraddizioni. I funzionari politici di Bruxelles hanno, invece, cercato di mitigare il malcontento della popolazione dell’Unione (da qualche anno meno del 50 per cento dei cittadini dell’Ue è favorevole a nuovi allargamenti, mentre in Germania questo tasso scende al 20 per cento ed è uno dei più bassi tra gli stati membri) ponendo ai paesi candidati condizioni di adesione sempre più complesse: i paesi candidati devono essere al 110 per cento pronti, aveva dichiarato a suo tempo l’ex-commissario europeo per l’allargamento Štefan Füle. Ci si aspettava che la “tolleranza zero” nei confronti dei paesi candidati all’adesione potesse prevenire la diffusione della xenofobia in Europa ma, considerando i recenti successi elettorali dei populisti di destra, questa tattica non si è mostrata molto saggia.
Formulando la propria politica di allargamento innanzitutto sulla scorta delle tendenze dell’ ”opinione pubblica” nell’Europa occidentale, l’Ue ha tralasciato il fatto che è stata proprio la sua ultima crisi economica e finanziaria a far regredire i cosiddetti Balcani occidentali e, di conseguenza, a diminuire la loro capacità di avvicinarsi, economicamente e in ogni altro senso, all’Unione.
La crisi viene da ovest
Nel tentativo di associarsi il più possibile all’Ue ancora prima dell’adesione, i paesi della regione hanno diretto i due terzi del proprio commercio estero verso l’Unione, soprattutto negli scambi commerciali con la Germania, l’Italia e in misura minore con altri stati membri. Il 90 per cento del sistema bancario della regione è di proprietà di poche banche dell’Ue (soprattutto tedesche e italiane, ma anche quelle francesi, austriache e greche). La crisi dell’Ue ha provocato la decrescita del commercio, il ritiro dei capitali da parte delle banche occidentali e il blocco quasi totale degli investimenti diretti nella regione. Anche le rimesse dei migranti sono diminuite.
Data l’assenza di qualsiasi indizio di una possibile ripresa economica dell’Ue, che potrebbe “trascinare” con sé anche i Balcani occidentali, i paesi della regione stanno ora cercando nuovi partner economici – in Cina, Russia, Turchia, nei paesi arabi e ovunque vi sia una crescita economica. A lungo termine, tale situazione crea le basi per una maggiore influenza politica di questi paesi, ma i soli fattori geografici rendono ridicola l’idea dell’adesione, ad esempio della Serbia all’Unione euroasiatica sotto il patronato di Mosca.
In aggiunta sul territorio ex jugoslavo nessuno, né in Bosnia Erzegovina né a Priština, dà grande importanza agli appelli delle autorità turche a proseguire insieme, con la Turchia a fare da guida, verso l’Unione europea – nel momento in cui la stessa Turchia si sta allontanando velocemente nella direzione opposta.
Più controlli e incubo ucraino
L’unica ripercussione significativa del crollo economico della regione sulla strategia di allargamento dell’Ue è stato lo spostamento del baricentro dell’azione, ovvero l’instaurazione di un maggiore monitoraggio dell’Ue sulla politica economica dei paesi candidati. I grandi debiti e buchi nei budget della maggior parte degli stati dei Balcani occidentali hanno ovviamente rievocato il fantasma dello “scenario greco” in questa regione. Se un altro gruppo di paesi perdesse la capacità di pagare i propri debiti, l’Ue potrebbe trovarsi nella situazione di dover garantire anche per loro, o addirittura di dover mettere a disposizione i nuovi crediti. Per questa ragione, la Commissione europea vuole intensificare il monitoraggio della politica economica e fiscale dei paesi candidati e di quelli che potrebbero diventarlo.
Dall’altra parte, il conflitto in Ucraina ha risvegliato alcuni tra i vertici europei e si è arrivati alla conferenza sul miglioramento della cooperazione con i Balcani occidentali, tenutasi l’agosto scorso a Berlino, su iniziativa del governo tedesco. Al momento, tuttavia, non è possibile intravedere se tale azione possa risultare in un “Piano Marshall per i Balcani occidentali”, anche se un intervento di tale misura pare indispensabile per riattivare la crescita economica e l’occupazione, allo scopo di prevenire il precipitare della regione nelle condizioni della Grecia.
Kosovo
Negli ultimi anni, la priorità dei principali stati membri dell’Unione in merito alla politica di allargamento è stato il tentativo di districare il nodo del Kosovo. Dato che le autorità di Belgrado e Priština considerano l’ingresso nell’Ue uno dei propri obiettivi principali, i diplomatici a Berlino, Londra e altrove tendono a strumentalizzare il processo di adesione per risolvere la “questione albanese” nella regione.
Tuttavia, le ultime elezioni in Serbia e in Kosovo hanno bloccato questo processo, e rimane incerto quando e in che misura possa essere riattivato. In tale contesto, il ruolo della Russia è diventato molto importante – finché esiste il veto di Mosca, presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu, all’adesione del Kosovo a questa organizzazione, il Kosovo non diventerà un paese giuridicamente riconosciuto a livello internazionale.
D’altro canto nemmeno la Serbia potrà entrare nell’Ue finché non troverà un accordo con i principali stati membri riguardo ai rapporti con Priština. Eppure, il conflitto in Ucraina potrebbe provocare dei cambiamenti anche su questo piano. Le autorità politiche di Belgrado e Podgorica cercano in diversi modi di convincere i loro interlocutori occidentali ad alleggerire le condizioni di adesione dei loro stati all’Ue. Con tale concessione la Serbia e il Montenegro eviterebbero l’”invasione russa” nei Balcani che, come argomentano davanti ai loro interlocutori occidentali, si fa sentire sempre più. Detto in termini sportivi, sarebbe spettacolare se questa finta funzionasse davvero.
Mossa greca
La “mossa greca”, invece, si è già dimostrata molto efficace nel panorama della politica di allargamento: Atene sta bloccando da anni ogni ulteriore avanzamento di Skopje verso Ue e Nato in quanto vuole uscire vincitrice dalla disputa riguardo al nome dell’ex Repubblica jugoslava di Macedonia. Questo tipo di ostruzionismo è possibile soltanto nei confronti di un paese candidato all’adesione all’Ue o alla Nato. Con modalità simili la Slovenia aveva ricattato la Croazia, e la Croazia si sta preparando – o forse è solo una manovra pre-elettorale – a ricattare la Serbia, mentre Bulgaria, Romania e Ungheria hanno formulato le condizioni “bilaterali”, riguardo alla questione delle minoranze, nei confronti dei loro vicini non ancora membri dell’Unione.
Quindi, gli stati membri nel Sud-Est europeo “nazionalizzano”, senza essere autorizzati a farlo, il processo di allargamento dell’Ue.
Non è un processo per tecnici
L’integrazione dei nuovi membri nell’Ue non è un processo tecnico (“chi soddisfa le condizioni, va avanti…”) come spesso viene rappresentato. È un processo politico basato sull’interesse degli stati membri a rafforzare la stabilità e la sicurezza nel continente.
L’Unione europea è stata fondata allo scopo di limitare il potere della Germania, poi sono state ammesse la Grecia, la Spagna e il Portogallo (per prevenire il ritorno dei sistemi fascistoidi in questi paesi), e infine la maggior parte degli ex membri del Patto di Varsavia (per prevenire il ritorno del regime comunista e dell’egemonia russa). Ai paesi dell’ex Jugoslavia è stata offerta l’adesione allo scopo di dimostrare urbi et orbi che, dopo il fallimento del tentativo dei paesi occidentali di distruggere la Jugoslavia, l’Ue è ancora capace di mantenere ordine nel “proprio giardino”.
Rimane, quindi, aperta la domanda se la paura dell’immaginata intensificazione dell’influenza russa nel Sud-est europeo possa costringere i poteri occidentali a impegnarsi più seriamente nel realizzare buone intenzioni e grandi promesse nei confronti dei candidati all’adesione all’Unione. Questa potrebbe essere l’unica conseguenza positiva di tutto il malessere causato dal conflitto in Ucraina.
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