Tipologia: Intervista

Tag: Minoranze

Area: Turchia

Categoria:

Aleviti in Turchia: la ricerca del dialogo

Nonostante le apparenti aperture nella prima decade degli anni 2000 gli aleviti, in Turchia, rimangono una comunità discriminata. Un’intervista a Müslüm Metin, vicepresidente della Federazione degli Aleviti-Bektaşi

23/05/2019, Francesco Brusa -

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"Prendersi cura dell’altro, nei gesti, nelle parole e nelle azioni". Con questo motto, Müslüm Metin riassume la filosofia che guida l’attività della Federazione degli aleviti-bektaşi , con sede ad Ankara ma impegnata in varie parti del paese. La confessione alevita ancora non gode di un riconoscimento legale da parte dello stato turco, nonostante qualche tentativo di apertura. In più, le persone appartenenti a questa particolare corrente della religione islamica hanno subito nel corso della storia numerosi massacri, torture e deportazioni. In una sala della sede della Federazione vi è un piccolo museo in memoria delle vittime del massacro di Sivas : nel 1993, durante la festa in onore del poeta alevita Pir Sultan Abdal, persero la vita 35 persone in seguito ad un attacco alla comunità alevita da parte di alcuni fondamentalisti e all’incendio di un albergo dove molte persone giunte per la festa alloggiavano.

Lo stesso vicepresidente della Federazione Müslüm Metin è il fratello di una delle vittime. Anche da questa circostanza nasce il suo impegno per la promozione e lo sviluppo della cultura alevita.

Nel 2007 è iniziata una stagione di dialogo fra lo stato e la comunità alevita, denominata “apertura democratica”. A che punto siamo di questo processo?

Si è trattato di un passo importante, anche in vista di una generale democratizzazione del paese. Tuttavia, il processo è rimasto fermo ad uno stadio teorico. Numerosi rappresentanti aleviti si sono seduti al tavolo delle discussioni assieme ad importanti funzionari del governo, ma non sono stati in grado di risolvere i problemi che affliggono la nostra comunità. D’altra parte, lo stato non ha mai mostrato una chiara volontà di dialogare in modo profondo. Soprattutto oggi, il governo di Erdoğan non ci ascolta e ci definisce una minoranza. Ma sono bugie. Noi aleviti ci poniamo come obiettivo principale la convivenza pacifica con le altre religioni e le altre identità presenti in Turchia. In questo senso, la maggioranza delle persone desidera vivere in armonia e nel rispetto reciproco. È chi fomenta i conflitti e le guerre a essere una minoranza, non noi.

Ad ogni modo, grazie alla “apertura democratica” è stato possibile accendere dei riflettori sulla cultura alevita. Si sono organizzati incontri, festival, conferenze… in generale, le persone appartenenti alla nostra comunità hanno finalmente iniziato a dire in maniera aperta: “Io sono alevita”. C’è dunque stata una presa di consapevolezza e si è generata una maggiore fiducia negli individui. Va anche rilevato, però, che tali rivendicazioni identitarie hanno avuto talvolta un “effetto boomerang”: è accaduto cioè che chi si dichiarasse alevita subisse discriminazioni sul luogo di lavoro e da parte delle istituzioni.

Una questione controversa è il riconoscimento dei cemevi, luoghi di culto della comunità. Recentemente, una decisione della Corte Suprema ha stabilito che è lo stato a dover pagare le bollette dell’elettricità a questi centri…

Il punto è proprio il riconoscimento ufficiale dei cemevi. I nostri luoghi di culto non hanno uno statuto legale e questo rende difficile tutta una serie di operazioni, dal pagare le bollette allo svolgere delle attività di incontro e aggregazione. Spesso, il funzionamento dei cemevi dipende dalla buona volontà o meno dei comuni. A Diyarbakır, per esempio, il cemevi della città è ormai da quattro mesi senza corrente. Per una moschea, sarebbe impensabile che accadesse una cosa del genere anche solo per un’ora. Altre municipalità, invece, ci sostengono e ci consentono di organizzare la nostra vita comunitaria. Il cemevi per noi non è solo un luogo di culto, ma uno spazio di discussione, dialogo e risoluzione dei conflitti. Se due persone entrano in un cemevi e hanno un problema fra di loro, devono uscire solo quando si è arrivati a un accordo.

La comunità alevita partecipa attivamente alla società turca: prestiamo servizio militare, lavoriamo come funzionari pubblici e paghiamo le tasse. Perché non ci vengono garantiti gli stessi diritti garantiti al resto della popolazione? Non chiediamo tanto. Vorremo solo poter disporre di un piccolo finanziamento per portare avanti iniziative di educazione e sensibilizzazione. Vogliamo, inoltre, che tale finanziamento provenga da una fonte indipendente e non dal Direttorato per gli Affari Religiosi Diyanet come stabilito dalla sentenza.

Perché non dal Diyanet?

In Turchia il Direttorato per gli Affari Religiosi Diyanet dovrebbe essere neutrale ma in realtà esprime la prospettiva di una sola confessione: quella sunnita-hanafita. È qualcosa di inaccettabile e assurdo per uno stato laico. Il nostro non vuole essere un attacco alla comunità sunnita. Per noi i sunniti sono come fratelli e desideriamo vivere in armonia con loro. Ma, venendo al Diyanet, dobbiamo guardare ai fatti. A livello pratico, il Direttorato si occupa quasi esclusivamente di costruire moschee. In più, non si sentono mai da parte sua parole di condanna per gli attacchi e la violenza dei fondamentalisti religiosi. Qualche giorno fa un ragazzino di quattro anni è stato ucciso, perché il Diyanet non si è espresso? La società turca è caratterizzata da numerosi conflitti ed episodi di violenza. Il Diyanet dovrebbe rappresentare un argine a tutto ciò. Al contrario, ha sostenuto la legittimità del matrimonio riparatore e ha dichiarato che è giusto sposarsi anche a 9 anni.

Il massacro di Sivas è uno degli esempi più sanguinosi degli attacchi a sfondo fondamentalista e nazionalista che ha subito la comunità alevita. Quel posto dovrebbe diventare un “museo della vergogna”, un monito per le future generazioni. Occorrerebbero iniziative e azioni affinché non si ripeta più un simile orrore. Di questo vorremmo si occupasse il Diyanet. Non è una questione di soldi: è questione di cultura, educazione e sviluppo.

L’anniversario del massacro di Sivas è ora un momento di incontro fra aleviti che vivono in Turchia e comunità residenti in Europa. Come sono i rapporti di collaborazione con la diaspora?

In Europa gli aleviti si sono organizzati con associazioni e federazioni in numerosi paesi: Germania, Francia, Inghilterra… Celebrazioni come quella per il ricordo di Sivas sono importanti occasioni per scambi costruttivi. Tuttavia, si tratta anche di eventi in cui la nostra Federazione è parecchio assorbita da impegni organizzativi e, pertanto, risulta difficile intessere dei dialoghi diretti e approfonditi. Con le ultime elezioni, molti comuni turchi sono passati all’opposizione. Speriamo dunque di poter contare su un maggiore sostegno da vari punti di vista. La nostra intenzione è promuovere progetti di turismo culturale per rinsaldare i rapporti con la diaspora.

Lo riteniamo un punto fondamentale. In Europa le comunità di aleviti sono composte ormai anche da seconde e terze generazioni, che spesso possiedono una conoscenza solo indiretta del contesto turco e di cosa significhi essere alevita in questa terra. È importante invece far conoscere, mantenere vive le relazioni, aprire il dialogo attraverso la condivisione del ricordo e della memoria.

Documentario

Il 2 luglio del 1993 a Sivas, nell’Anatolia centrale, 37 persone tra cui artisti ed intellettuali aleviti sono morte in un incendio, appiccato da militanti sunniti. Ogni anno il 2 luglio in migliaia commemorano quel massacro il cui processo è finito in prescrizione. Noi abbiamo ricordato le vittime e delineato al vicenda degli aleviti in Turchia nel documentario "Il leone e la gazzella"

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