Aleksej Nikitin: Putin ha cancellato la cultura russa in Ucraina
Nella cornice del festival Pordenonelegge 2022, un’intervista allo scrittore ucraino Aleksej Nikitin, che ha raccontato come si vive a Kyiv negli ultimi mesi, ha illustrato i suoi ultimi romanzi e ha descritto il rocambolesco viaggio che l’ha portato in Italia
(Quest’intervista è stata pubblicata sotto forma di video da Meridiano 13 il 20 settembre 2022)
Sono molto felice di vederla di nuovo qui al festival di Pordenone, nella mia città, mentre l’ultima volta ci siamo incontrati nella sua città, a Kyiv. Era lo scorso dicembre, in una situazione completamente diversa rispetto a quella attuale. Da quanto mi risulta lei continua a vivere a Kyiv, non se ne è mai andato. Come si vive ora a Kyiv?
La gente si abitua a qualsiasi cosa, vive ovunque e talvolta qualcuno si sente pure a suo agio in queste situazioni. Io sono vissuto piuttosto a lungo in Unione Sovietica e a molte persone piaceva. Per me è difficile da comprendere, ma alcuni ritengono che allora si vivesse meglio. E in Russia queste persone sono molte. Dunque, si vive in qualsiasi situazione, compreso a Kyiv durante la guerra, nonostante il fatto che sia una vita certamente del tutto diversa dal passato, senza ombra di dubbio.
In ogni caso, ci sono i segni di una vita culturale, ci sono mostre, concerti, si può andare al cinema, anche se non nei multisala. Si continuano a girare film in Ucraina. In generale, c’è vita.
Anche per quanto riguarda gli alimentari, non manca nulla. Se messo a confronto di nuovo con l’Urss e con la Seconda guerra mondiale, non c’è niente di simile: allora davvero la gente non aveva di che mangiare, mentre adesso non è così, almeno dove non si combatte. Il mondo del business continua a lavorare e a pieno regime. Parlando per immagini, se prima della guerra la lampadina splendeva di una piena intensità, ora quella lampadina splende la metà.
In Facebook lei ha smesso di scrivere in lingua russa. Ho diversi amici ucraini che hanno smesso di scrivere in russo e sono passati all’ucraino. Secondo lei, quale sarà il futuro della lingua russa e della cultura in lingua russa d’Ucraina?
Onestamente, ora, nella situazione attuale, non vedo alcun futuro. Certamente dipenderà da come finirà questa guerra e da cosa ne sarà non tanto dell’Ucraina, ma della Russia. Ovvero da come sarà la Russia, dato che anch’essa uscirà dalla guerra cambiata e le varianti possibili sono molte.
Prospettive buone per la cultura russa d’Ucraina non ne prevedo. Abbiamo varie esperienze storiche da poter mettere a confronto: nel ventesimo secolo ogni guerra si è portata via non solo delle persone, ma anche delle culture. La guerra del 1919-1921 tra Urss e Polonia si portò via la cultura polacca, che è scomparsa dall’Ucraina. E questo sebbene questa fosse una cultura di alto livello con ottimi poeti e musicisti che tuttora sono l’orgoglio della cultura polacca, e vivevano in Ucraina. Ciononostante, è scomparsa del tutto. Lo stesso è successo alla cultura ebraica, scomparsa dall’Ucraina durante la Seconda guerra mondiale, sebbene si trattasse di una letteratura potente, di una poesia forte. C’è una frase di un culturologo di Kyiv, Miron Petrovskij, che dice che la cultura ebraica d’Ucraina è scomparsa perché Hitler ha ucciso i lettori, mentre Stalin ha fatto fuori gli scrittori. Come risultato, già entro la fine degli anni ’50 o i primi ’60 non c’era più una cultura ebraica d’Ucraina. Due guerre – due culture.
L’obiettivo dichiarato di Putin è l’annientamento della cultura ucraina, la liquidazione dello Stato ucraino (intellettuali russi come Michalkov dicono cose orribili sulla lingua ucraina), si parla insomma dell’annientamento della civiltà ucraina. Onestamente però per ora è evidente che questa guerra porterà alla cancellazione della cultura di lingua russa in Ucraina. Ovvero a un processo del tutto opposto. Per ora la vedo così, vedremo cosa succederà.
Come vive lei tutto questo, in quanto grande rappresentante della letteratura di lingua russa d’Ucraina?
Non un ‘grande’ rappresentante. Certamente non c’è niente di buono nella scomparsa di una cultura. Ho cercato di immaginarmi come sarebbe potuta essere la cultura ucraina se fossero sopravvissute quella polacca ed ebraica, quanto più ricca sarebbe stata, quante traduzioni ci sarebbero state e quanto questa cultura sarebbe stata più compresa in Europa. La scomparsa della cultura polacca ed ebraica ci ha impoverito tutti.
Non c’è niente di positivo nella scomparsa di una cultura. È una perdita per tutti, anche per chi non fa uso di queste lingue. Non ci saranno traduzioni, così come mancherà molto altro. Ma che fare? La storia ha preso questa svolta. La volontà di una sola persona che per qualche motivo ha ritenuto che fosse necessario andare a difendere chi non aveva bisogno di essere difeso sta portando a un processo del tutto opposto. Ci tocca stare a guardare la realtà che si sviluppa.
Dunque il suo prossimo romanzo sarà in ucraino?
Questa è una domanda, direi, provocatoria. Tutti i miei romanzi, o meglio quasi, tre, sono stati tradotti in ucraino. L’ultimo romanzo (che in russo si intitola Ot lica ognja è uscito in russo a Kyiv, mentre in ucraino si chiama Bat-Ami) è stato scritto in russo, ma la versione russa e quella ucraina sono uscite contemporaneamente, pressoché lo stesso giorno. Ho lavorato con la traduttrice e poi con l’editor ucraino. Ho partecipato a tutto il processo di traduzione. Si può dire che sia stata una traduzione “autorizzata” in ucraino. Penso che anche il prossimo romanzo si comporrà così. Lavorerò con il traduttore in modo che sia preservata in primo luogo la qualità del testo. Uscirà — lo sto ancora scrivendo — sicuramente in Ucraina in lingua ucraina; ma uscirà anche in lingua russa in Ucraina? È una bella domanda, non lo so.
Di cosa parla, se si può sapere?
Dato che ancora non esiste, per parlarne è presto. Ma ho un’idea di cosa mi interesserebbe parlare, una cosa che ho osservato di interessante negli ultimi tempi. La guerra per un osservatore, per uno scrittore, costituisce un materiale ricchissimo. Ma non mi metterò a scriverne, perché ne sanno di più coloro che prendono parte al conflitto e ci sono diversi scrittori ucraini che ora combattono o che sono attivamente impegnati come volontari e anche questo lavoro di volontariato è parte della guerra. Sono ancora di più quelli che magari nemmeno sospettano che un giorno ne scriveranno – che oggi semplicemente magari si occupano dei rifornimenti all’esercito – ma poi ne scriveranno. Passerà il tempo e si accorgeranno che di questa loro esperienza occorrerà scrivere, perché sarà un’esperienza unica. Pertanto, lascio a loro descrivere ciò che conoscono bene. A me ha interessato l’esperienza di osservazione negli ultimi anni, le circostanze nelle quali il paese e la società si sono avvicinati alla guerra. Quando già se ne parlava, quando la gente già capiva che sarebbe successo, qualcuno non capiva e discuteva, qualcuno ha continuato a prendere le parti della Russia, gli emigrati russi trasferitisi in Ucraina per le loro posizioni e il loro dissenso in Russia si trovavano qui e percepivano tutto ciò a loro volta. Dunque, la società nei mesi precedenti alla guerra è qualcosa per me di interessante. Com’era, cosa si preannunciava, come si percepiva.
Può in breve raccontarci invece qualcosa sul romanzo Ot lica ognja, dato che in Italia uscirà tra circa un anno e mezzo?
Al momento ancora non è in traduzione, ma è imminente. Ora sta anche venendo tradotto in inglese e forse uscirà anche prima negli Stati Uniti. Il lavoro di traduzione lì procede. Penso che debba risultare interessante come minimo in tutti i paesi che hanno preso parte alla Seconda guerra mondiale, dato che parla di questa guerra e dell’Ucraina in questa guerra.
È una storia personale, famigliare abbastanza tipica per l’Ucraina, in quanto si tratta di una famiglia mista ebraico-ucraina. Si riflettono le tradizioni e gli stili di vita sia ucraini che ebraici, le diverse idee su come comportarsi, come gestire una famiglia mista, sulle vedute diverse su come bisogna vivere. La particolarità di questo romanzo è che, oltre ai racconti e alle idee dell’autore su quel tempo, ci sono dei documenti veri dell’epoca presi dagli archivi dell’ex KGB che sono stati desecretati relativamente di recente.
La possibilità di mostrare la storia così come la mostrano i documenti è qualcosa di possibile solo relativamente di recente, con la comparsa dei documenti. Ora abbiamo la possibilità di parlare in maniera del tutto opposta [rispetto ai tempi sovietici]. Questo libro ha seguito questo percorso e non ci sono tanti altri libri simili. Penso inoltre che un libro simile con un tale utilizzo di questi documenti sia il primo pubblicato da noi in Ucraina. Il lettore italiano avrà presto la possibilità di leggerlo.
Lo aspettiamo! Un’ultima domanda, più leggera: è la seconda volta per lei qui al festival…
La terza.
Già la terza? Ah però. In passato le è stato più facile venire, questa volta invece ha dovuto attendere il permesso…
Sì, il viaggio stavolta non è stato affatto facile.
Ce lo racconta?
Lo scorso anno Pordenonelegge è stato in larga parte online a causa del Covid. Anche questa volta, quando gli organizzatori mi hanno invitato, mi hanno detto che si poteva fare online, ma se fosse stato possibile, sarei potuto venire in presenza, pur sapendo che sarebbe stato difficile arrivare, dato che gli uomini ucraini non possono lasciare il paese.
In linea teorica la possibilità di venire c’era. Ho dovuto rivolgermi al ministero della Cultura, spiegare dove sarei andato, perché, che cosa avrei fatto, quando sarei tornato. Ho dovuto poi aspettare a lungo perché tutto venisse controllato, se davvero ci fosse a Pordenone questo festival, eccetera. Ma ho scoperto che c’è parecchia gente che deve andare all’estero — ad esempio, ci sono atleti, musicisti, chi lavora nel cinema, gli artisti invitati alle biennali o triennali — ucraini che insomma lasciano il paese per motivi culturali e non solo. Sono molti e il ministero non riesce a stare dietro a tutte le richieste. Non erano pronti a tutto questo.
Pertanto ho aspettato a lungo e ho iniziato a dubitare di poter venire, ma alla fine due giorni prima [del viaggio] mi hanno concesso il permesso. Lì però sono comparsi problemi tecnici. Secondo questo permesso avrei dovuto oltrepassare il confine in un punto preciso, che avevo dovuto indicare ancor prima di prendere il biglietto. Dunque sono salito su un autobus e nel tragitto ho capito che non sarei riuscito ad arrivare al confine in tempo. Sono arrivato alle 10 di sera al confine e avevo due ore di tempo, entro la mezzanotte, per oltrepassarlo. Ma c’era una coda di 4 ore: il giorno dopo il mio permesso non sarebbe più stato valido. A quel punto pensavo che non sarei andato da nessuna parte, sebbene avessi comprato il biglietto aereo e mi stessero già aspettando qui per le interviste. Ho dovuto escogitare qualche cosa. Gli autisti mi hanno consigliato di andare da qualche autobus più avanti in coda e di mettermi d’accordo che mi portassero a bordo con loro. È stata un’epopea, ma alla fine mezzora prima della mezzanotte sono riuscito a passare il confine e sono arrivato dove dovevo, anche se non con lo stesso autobus con cui ero partito.
Una storia lunga, interessante. Ormai siamo abituati e ci siamo scordati che viaggiare è sempre un rischio. Un tempo potevano capitarti pirati o briganti lungo il cammino, è sempre stato così. Mentre ora esci di casa, passi il controllo passaporti, prendi l’aereo e arrivi. Questo invece è stato un vero e proprio viaggio, con avventure e nervosismo. 36 ore dopo avere lasciato Kyiv sono arrivato a Pordenone, ce l’avevo fatta.
Se ne può scrivere un romanzo!
Magari non un romanzo, ma qualcosa sì, si può scrivere.
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