Albania, serve un sogno
Pacatamente e senza peli sulla lingua Ardian Vehbiu, brillante intellettuale albanese, descrive l’attuale situazione in Albania, le colpe dell’Italia e dell’UE, lo strapotere di Edi Rama e il bisogno di ritrovare un sogno guida
“Ogni volta che torno in Albania, l’Italia è più lontana, più ignota, meno affascinante. I motivi sono molteplici, le colpe condivise. Potevate fare di più, ma sono stati anni difficili anche per voi. L’Italia non ha saputo più proiettarsi oltre Adriatico, non si sente più l’Italia. È più presente la Turchia, nella vita quotidiana, e questo è incredibile per la mia generazione. Gli Usa sono il sogno. Non credo che la colpa sia solo di questo infinito negoziato di adesione all’Ue, io non credo che il mio paese sia pronto, ma questa indifferenza è dolorosa. Paradossalmente si poteva fare quello che ha fatto la Nato: l’Albania non ha certo aderito per la sua credibilità militare, è stato un gesto politico, ecco, l’Ue non ha lanciato quel messaggio a un popolo che – almeno per la mia generazione – si è sempre sentito europeo”.
Ardian Vehbiu, classe 1959, è ancora innamorato dell’Italia. Vive negli Stati Uniti, dal 1996, ma per lui – e per la sua generazione – l’Italia è stata la speranza di un altrove. Il suo Cose portate dal mare, Besa editore, è un condensato di sogni e saggi, quotidianità e piccole fughe di un giovane intellettuale nella Tirana degli anni ‘70 e ‘80.
“Il mio libro che considero una lettera d’amore all’Italia è La Scoperta Dell’Albania: Gli albanesi secondo i mass media (Edizioni Paoline ndr), scritto con Rando Devole: due giovani albanesi nell’Italia che provava a spiegarsi il nostro arrivo. Io sono fortunato, appartenevo a una parte privilegiata della società albanese. Ero venuto, nel 1986, alla Sapienza di Roma come lettore di lingua, ma non mi passava neanche nella testa di restare, nonostante amassi l’Italia, che pure avevo scoperto essere molto diversa da quella che sognavo attraverso la Tv che guardavo in Albania. Temevo ritorsioni per la mia famiglia, non immaginavo che sarebbe finito tutto, pensavo solo che dopo la morte di Enver Hoxha ci sarebbero state aperture liberali. E anche quando tutto è esploso, nel 1990, io ero già in Italia, grazie a un lavoro che avevo trovato all’Orientale di Napoli. La rivoluzione albanese, la fuga di massa, mi ha raggiunto in Italia. Ho fatto il mediatore, a Capua, in un campo dove erano stati sistemati migliaia di albanesi. Ho scoperto così il mio paese, perché quelle persone venivano da contesti rurali che avevano patito tanto il regime, io no, ero diverso da loro e mi sentivo quasi in colpa. Allora decidemmo di provare a raccontarvi la complessità dell’Albania, con il nostro libro”.
Quanto è difficile, oggi, raccontare l’Albania invece? “È difficile, molto. Tutto ruota attorno a Edi Rama, all’amico dell’Ue, che aveva come progetto lo sbarco in Europa del nostro paese. Quel progetto, dopo tanti anni, è sostanzialmente fallito. Lui è molto cambiato, ha dismesso i panni dell’intellettuale impegnato, ha imparato a parlare alla ‘pancia’ del popolo, ma è stanco, il potere logora. Si è circondato solo di sudditi fedeli, anche per i suoi limiti caratteriali, ma non ha più un progetto, una visione. Solo che le persone non vedono più un’alternativa nelle opposizioni. Siamo fermi: Rama non sa che farsene di tutto il potere che ha concentrato nelle sue mani, ma non si vede chi potrebbe sostituirlo. C’è bisogno di un nuovo immaginario, che al momento però non si vede”.
Vehbiu, oltre che apprezzato scrittore, da anni anima la piattaforma web Peizazhe , un osservatorio sul clima politico albanese. “Rama, e l’Albania, sono come il Prometeo di un famoso libro di Kadarè: a un certo punto, l’aquila non viene più a mangiare il fegato di Prometeo e lui rischia di essere soffocato dalla ricrescita dell’organo. Ecco, manca l’aquila, Rama e il suo ‘sistema’ rischiano di implodere per mancanza di avversari credibili. Alla rivista, per anni, arrivavano tanti contributi intriganti, ma adesso c’è solo la grammatica nazionalista, vuota, senza senso. L’arrivo del partito kosovaro Vetëvendosje, dopo il trionfo in Kosovo, è l’unica novità. Sono seri, hanno credibilità, hanno la reputazione degli onesti. Ma sono troppo puristi, e questo affascina i nazionalisti e una certa generazione – anche a Tirana – di giovani islamici, che riempiono il vuoto della mancanza di questo progetto culturale – economico – politico con la fede. È un fenomeno nuovo, ma ancora all’inizio, che va seguito però con attenzione. Perché la democrazia, se si limita al simulacro vuoto del voto, non è un progetto. Esiste anche una sinistra radicale, di giovani non compromessi con il passato, che non hanno paura di parlare di diritti e di essere accusati di ‘comunismo’, ma son quelli che alla fine vanno via dal paese, ieri come oggi”.
Nato da una famiglia originaria del sud, Vehbiu è un tiranese puro. Quanto i cambiamenti furiosi della città raccontano i trent’anni passati dalla caduta del regime?
“I cambiamenti di Tirana raccontano la storia albanese, non solo gli ultimi anni. Attorno alla lotta per salvare il Teatro Nazionale si erano ritrovate strade e sensibilità differenti, ma poi la politica ha provato a inserirsi e molti si sono ritirati. Il Covid, poi, non aiuta il confronto. Come si è potuto votare il 25 aprile scorso mentre non c’erano i soldi per l’ossigeno in ospedale? Quello che accade a Tirana, racconta dell’Impero Ottomano, della dominazione italiana, del re Zog, dei comunisti e degli oligarchi di oggi, i veri padroni. Le casse dello Stato sono vuote, vendere pezzi di Tirana ai palazzinari – che magari riciclano i proventi dei traffici illeciti, con palazzoni perennemente vuoti – è l’unico modo per avere liquidità. Il potere ha sempre cercato di riscrivere la capitale, Tirana resiste da sempre al potere, ma servono i contenitori di questa resistenza. Oggi la resistenza è contro gli oligarchi, ma il problema è che in Albania, per molti giovani, questi personaggi sono dei modelli. Il senso del bene comune, ahimè, è ancora vittima di un retaggio del regime: quello che è dello Stato non è mio, non mi riguarda. E loro si sono presi tutto, con l’emergere di questi uomini forti, alla Trump, che infatti è stato molto amato dall’opinione pubblica albanese. Molti di loro erano legati alla Sigurimi [la famigerata sicurezza politica del regime ndr], avevano fondi immensi, che non rendicontavano: quando il regime è caduto, hanno posto le basi per il loro potere attuale. Cosa fare? Non lo so. La generazione dei miei genitori ha avuto il sogno del socialismo e di un’Albania che usciva da un tempo arcaico e diventava una nazione moderna, la mia generazione ha avuto il sogno dell’Europa e della libertà. Questa generazione deve costruire il suo sogno, nessuno lo farà per loro”.
editor's pick
latest video
news via inbox
Nulla turp dis cursus. Integer liberos euismod pretium faucibua