Albania rurale, la scommessa di chi resta

Montagne selvagge e incontaminate, povertà e spopolamento massiccio. Nei villaggi dell’Albania del nord c’è chi resiste alla tentazione di fuggire in città e spera in un nuovo inizio fatto di sviluppo rurale sostenibile e turismo alternativo. Nostro reportage

09/01/2018, Francesco Martino - Mërtur

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Dopo essersi specchiato a lungo sul serpente d’acqua del lago di Koman, facendolo brillare di mille scaglie d’argento, il sole s’inabissa a occidente, dietro un rosario di cime cupe. Il cielo d’autunno avanzato si fa etereo, quasi di vetro: è in questo attimo sospeso tra la notte e il giorno che si avverte, in profondità, tutta la distanza tra Mërtur e il resto del mondo. Sul massiccio boscoso che si para a sud, oltre l’orrido scavato dallo scorrere di un torrente irrequieto, sale lenta una spirale di fumo. Un lume si accende lontano, insieme alle prime stelle, a testimoniare la presenza, altrimenti impalpabile, di altri esseri umani. Poi si spegne, e tutto intorno torna a tacere.

Spopolamento

Fino a inizio anni ’90 più di cento famiglie abitavano le case di pietra squadrata e bianca di Mërtur, là dove, come recita un antico stornello “il fiore cresce sul sasso”. Oggi nel villaggio, situato all’estremo nord della municipalità di Puka, in Albania settentrionale, di famiglie ne sono rimaste appena quattro, più qualche anziano che torna durante i mesi estivi.

“Per me la gente non ha capito veramente cosa significa democrazia, l’ha confusa con la possibilità di poter scappare in città a gambe levate”. Con una pertica pesante e nodosa, Lukë Hasani rimesta il mosto che bolle aromatico in un largo tino di plastica scura. Lukë, che un antico incidente di pesca ha reso invalido ad un braccio, è il capofamiglia di uno dei nuclei familiari che – almeno per ora – ha deciso di restare. “Al crollo del regime comunista sono fuggiti tutti a Tirana, a Scutari, a Lezha o a Durazzo. Molti poi si sono pentiti, soprattutto i più anziani: vivere in città non fa per tutti. Una volta partiti, però, tornare al villaggio è quasi impossibile”.

Mentre Lukë mescola paziente il tino, sua moglie Bardhe si prende cura dell’alveare, dopo aver distribuito il foraggio alle mucche e ai vitelli che ruminano quieti nella stalla. Il primogenito Pashk e suo fratello minore Ndue si occupano delle capre, che hanno appena riportato dal pascolo: dall’ovile, il cui steccato irregolare segue il profilo ripido della montagna, arriva il belato flebile dei capretti, monotono e insistente. Dall’uscio di casa, rimasto aperto, esce ed entra – eternamente indaffarata – Malbora, la moglie di Pashk, intenta a preparare il pranzo: i lavori di casa, le incombenze più pesanti, cadono tutte sulla sua figura minuta, silenziosa e piena d’energia.

Il destino di Mërtur, seppure estremo, non è però isolato: tutto il distretto di Puka, formato da due municipalità – la stessa Puka e Fushë Arrëz, più a est -, negli ultimi decenni ha subito uno spopolamento devastante, passando dai circa 59mila abitanti registrati nel 1990 agli attuali 33mila. Il tracollo rovinoso della dittatura comunista albanese – la più paranoica ed ermetica dell’Europa orientale – si è trascinato dietro un sistema economico amministrato dall’alto, e basato in questa regione su estrazione mineraria e gestione del patrimonio boschivo.

Oggi Puka è una delle aree più povere d’Albania: quasi la metà delle famiglie riceve un qualche tipo di assistenza sociale e due terzi della popolazione sono sotto la soglia di povertà. La disoccupazione – stimata sopra il 20% – registra tassi particolarmente elevati per i giovani e le donne.

Le sfide per chi resta

“Con un braccio solo, trovare lavoro in città non era scontato. E poi c’è l’amore per Mërtur, per le nostre radici: si dice che i nostri antenati siano arrivati qui più di trecento anni fa, da un villaggio vicino a Kruja, per sfuggire all’avanzata dei conquistatori turchi”. Il pranzo è stato servito: Lukë è a capotavola, intorno si sistemano il resto della famiglia e gli ospiti venuti da lontano.

L’ospitalità degli Hasani è schietta ed essenziale: il piatto principale è il “ferlik”, arrosto di capretto girato allo spiedo per almeno un paio d’ore, insieme a patatine fritte, formaggio fresco di capra, fegato e “turshi” le verdure in salamoia apprezzate dai Balcani al Medio Oriente. Il tutto, naturalmente, accompagnato dal “raki”, una grappa di vinacce cristallina e sorprendentemente delicata.

“Credo ancora che il futuro sia migliore qui che non in città”, dice serio Pashk, che dopo essersi laureato a Tirana, oggi lavora come veterinario per il comune di Fushë Arrëz. “Rimanere però è una scelta difficile. Qui si è lontano da tutto, bisogna essere autosufficienti in tutto o quasi e le tante promesse fatte in questi anni da politici e amministratori sono rimaste parole vuote”. La strada sterrata che da Iballë, in fondo alla valle, porta a Mërtur – cordone ombelicale tra il villaggio e il resto del mondo – è una processione senza fine di tornanti, a tratti sospesa su uno strapiombo che leva il respiro.

“Ogni inverno, quando cade la neve, si resta isolati, anche per mesi: l’unica connessione col resto del mondo diventa allora il traghetto che attraversa il lago di Koman. Della strada dobbiamo prenderci cura noi: dall’amministrazione e dal governo non abbiamo ricevuto né riceviamo alcun aiuto. In tutti questi anni, neanche una fontana sono stati in grado di tirar su”, aggiunge amaro Pashk.

La sala in cui sediamo riflette la sobrietà dell’intera casa a due piani: il pavimento e il soffitto, dipinto di blu e rosso, sono fatti di pesanti assi di quercia, brunite dal fumo e dal tempo. La civiltà contemporanea fa capolino solo dallo schermo opaco di una vecchia tv a tubo catodico, sistemata in un angolo, che gracchia senza sosta videoclip di hip-hop albanese, zeppi di occhiali da sole, vestiti attillati e macchine sportive, in uno strano cortocircuito sensoriale con la semplicità quasi monastica della sala da pranzo.

“La vita qui è semplice, se va bene si guadagna quanto basta per vivere”, riprende Lukë, “ma i soldi forse non sono nemmeno il problema più grande. Se serve un medico, bisogna scendere fino a Iballë. La scuola è ancora aperta, ma per quanto ancora? Ci sono tre bambini e due maestri, che ogni giorno vengono a piedi o in motorino dal villaggio di Berisha. E pensare che, fino agli anni ’90, di bambini ce n’erano più di 170!”

Agricoltura e allevamento

Agricoltura ed allevamento giocano un ruolo fondamentale nell’economia della regione di Puka. Secondo gli scarni dati a disposizione, nelle aree rurali il 70% delle famiglie vive solo di agricoltura e allevamento. Nei villaggi le opportunità alternative sono scarse, anche per chi ha studiato. Malbora, ad esempio, si è laureata in scienze dell’educazione, ma lavorare come maestra, vista la mancanza di bambini, è impossibile. “Certo, mi piacerebbe insegnare, mi piacerebbe sopra ogni altra cosa. Ma per fare la maestra bisognerebbe scendere in città”, confida con voce sognante. Il suo sguardo si accende, poi si abbassa e sembra perdersi lontano.

Da queste parti tutti o quasi hanno in casa qualche bovino, ma soprattutto piccoli ruminanti, pecore e capre. Nel distretto il settore impiega circa 1500 persone: si tratta però di un allevamento di pura sussistenza, con appena duecento allevatori con almeno 50 pecore e/o capre.

Nell’ovile della famiglia Hasani ci sono 130 capre e 50 pecore, nella stalla sei vacche e cinque vitelli. Al contrario di quanto accade per la maggior parte dei produttori locali, non tutta la produzione di latte viene utilizzata per l’autoconsumo. “Il formaggio di capra (djath dhije) e i capretti sono le voci più importanti dell’economia familiare. Quest’anno siamo riusciti a venderne circa 800 chili, insieme ad un centinaio di capretti”, racconta ancora Pashk.

“Per la maggior parte, il nostro formaggio si vende col passaparola, a parenti, amici e conoscenti giù a Iballë o a Fushë Arrëz, gente che conosce bene la qualità dei nostri pascoli e dei nostri prodotti”, aggiunge sua madre Bardhe. “Per fortuna, poi, abbiamo una parente a Tirana che ha messo su un minimarket. Lì il formaggio si vende a prezzo migliore”.

Nonostante godano di una situazione forse migliore di tanti altri, gli Hasani subiscono le difficoltà e gli ostacoli che accomunano agricoltori e allevatori nell’area di Puka: isolamento, numero ridotto di animali, superficie coltivabile risicata, mancanza di infrastrutture per la lavorazione dei prodotti caseari, accesso al mercato informale e ai limiti della legalità, mancanza di un marchio di denominazione di origine controllata per i prodotti della regione.

“Per costruire un futuro qui, l’idea, anzi la necessità è costruire una nuova stalla, arrivare a duecento capre, creare le condizioni per offrire un prodotto migliore”, spiega Pashk. “Più quantità e più qualità, in caso contrario saremo costretti a rinunciare come tanti prima di noi”.

Una gita a Blinisht

Nonostante le marce ridotte, il fuoristrada arranca, slitta più volte, riparte a fatica sulla lingua scura che taglia un paesaggio primordiale, quasi marziano, segnato da rocce dai riflessi metallici e ossidati. La strada che porta a Blinisht è in condizioni forse addirittura peggiori di quella che si arrampica fino a Mërtur. Geograficamente, Blinisht è più vicino a Fushë Arrëz, ma qui le distanze fisiche contano relativamente, quel che importa è la (scarsa) qualità delle infrastrutture.

Anche Blinisht è oggi sull’orlo della scomparsa. Al momento ci vivono una dozzina di famiglie, quanto resta delle più di settanta che abitavano il paese prima del ’90. Tra chi è rimasto c’è Gjergi Prendi. Oggi alla sua tavola, ci sono un gruppo di amici e paesani: Edmond, Petrit, Arsen. Si mangiano pietanze semplici e saporite, uva, patate, formaggio, condite dall’immancabile raki, che scalda il cuore e invita al racconto.

Su due delle pareti scure campeggiano quadri a soggetto religioso, coperti di ghirlande multicolori e qualche fiore appassito: da una parte un Gesù Cristo in una lunga tunica bianca e turchina, dall’altra una Madonna vestita di porpora sgargiante. Nella regione di Puka domina la religione cattolica, parte centrale dell’identità storica e collettiva delle montagne dell’Albania settentrionale. Al cattolicesimo romano appartiene circa l’80% della popolazione, il restante 20% è costituito invece da musulmani, in un’area di tradizionale tolleranza inter-religiosa.

“Da Blinisth siamo tutti emigrati e alla fine, qualcuno di noi è tornato, per necessità o per malinconia. Non sono affatto sicuro, però, che riusciremo a restare”, confida Gjergi a fine pasto, facendo brillare gli occhi di un azzurro profondo e vivace. Dietro la porta della sala, in un angolo morto, si innalza una piccola piramide di valigie vuote, di dimensioni e colore diversi. “Ogni volta che sono andato in Grecia a lavorare, ne ho portata indietro una, carica di quanto sono riuscito a comprare. Ogni viaggio, una valigia”, sorride.

Tutti hanno storie di emigrazione e fatica da raccontare, soprattutto in Italia e Grecia. “I primi anni si entrava in Grecia illegalmente, attraversando il confine a piedi, con la paura di essere presi e rispediti indietro”, ricorda Petrit, i cui figli ogni giorno camminano per più di due ore per andare a scuola a Fushë Arrëz.

Edmond ha provato la strada del servizio militare, compresa una missione a Mosul, in Iraq settentrionale, dove l’esercito albanese ha operato a supporto delle truppe americane. “Alla fine, però, anche lì per essere ammesso a nuove missioni bisognava pagare mazzette agli ufficiali superiori, altrimenti si restava a casa”. In seguito, racconta, ha lavorato a lungo come bracciante agricolo, prima in Francia a poi intorno a Piacenza, ma alla fine è tornato anche lui a Blinisht.

“Abbiamo tutti intorno ai 50-60 animali, soprattutto capre, più qualche vacca: difficile andare oltre la sopravvivenza. Ora abbiamo in progetto di provare a collaborare di più, costruendo un ‘baxho’ collettivo [piccolo caseificio di dimensioni artigianali] per migliorare la qualità del formaggio. Penso sia una buona possibilità, da non perdere”.

“La questione, però, è un’altra”, gli fa eco Edmond, abbassando d’un tratto la voce e il bicchiere. “Come la troviamo una moglie? Come convinciamo una donna a seguirci qui, in mezzo al nulla? Per casa mia non c’è nemmeno la strada, ci si arriva solo per una mulattiera, a cavallo.” Gli sguardi della compagnia restano sospesi lungo le pareti mute: anche il raki, cristallino e pieno di calore, sembra scolorare d’improvviso, assumere le sfumature cobalto della malinconia.

Speranza turismo

A Mërtur, poco prima di un nuovo tramonto, il profumo denso del timo riempie l’aria, fino ad inebriarla. In alto, il cuore pietroso della montagna sembra prendere fuoco e lo sguardo si perde sulle linee del declivio, che qua e là si fanno d’un verde smeraldo. Sotto uno squarcio di cielo a sud-ovest, brilla di nuovo il fiordo sinuoso del lago artificiale di Koman.

Sono in molti a sperare che questo lembo d’Albania, questa terra orgogliosa e spesso amara, possa essere salvata da quello che oggi la condanna: la sua marginalità, il suo isolamento, che ne fanno – almeno potenzialmente – una delle ultime destinazioni “vergini” in Europa per un turismo di qualità, alternativo ai percorsi di quello di massa.

Al momento, sembra più una speranza indefinita che una possibilità reale per ridare vita ad una regione dissanguata. Cifre e statistiche precise non ce ne sono: secondo i dati raccolti dall’associazione Agropuka, nel 2015 circa seimila turisti hanno visitato l’area. Si tratta soprattutto di persone arrivate in visita ad amici e parenti, ma anche qualche turista “vero”, alla ricerca di relax o di avventura tra le montagne della regione.

I problemi non mancano: strutture alberghiere, agriturismi al momento ce ne sono ancora pochi. Anche dal punto di vista ambientale, l’isolamento non ha sempre significato preservazione degli habitat naturali. I primi e caotici anni della transizione sono stati segnati da deforestazione massiccia e indiscriminata, che ha lasciato profonde cicatrici sul paesaggio e creato i presupposti per una forte erosione dei pendii.

La bellezza dei panorami che disegnano questa terra unica, però, è indiscutibile, come la tenacia secolare di chi è nato e vive tra queste montagne, ed è condannato forse ad amarle suo malgrado.

Le carte oggi appaiono tutte contro, o quasi: difficile che il turismo possa diventare una risorsa importante senza una strategia complessiva, fatta di iniziative dal basso ma anche di promozione, marketing, sinergie con altre regioni d’Albania e perché no, dei Balcani, tutte cose che non possono avvenire senza l’intervento e la guida delle istituzioni.

Nel frattempo Mërtur, Blinisht e i villaggi montani attendono, sopravvivono, combattono, non si arrendono. Sperano di non appassire, di ritrovare linfa e vitalità e di spuntare di nuovo dopo l’inverno, teneri e caparbi, come il “fiore che cresce sul sasso”.

 

Fotoracconto

Mërtur, nord dell’Albania, raccontato dalle immagini di Ivo Danchev

Progetti

Attenzione al destino di intere famiglie, attenzione allo sviluppo delle comunità locali, attenzione al paesaggio, attenzione ai temi dello sviluppo economico. Sono questi, in sintesi, gli elementi cardine che l’Alleanza per lo sviluppo e la valorizzazione dell’agricoltura famigliare del nord Albania si propone di mettere in moto, lavorando a partire dai saperi tradizionali, dalle produzioni tipiche e dal ruolo della donna.

Lanciato il 4 luglio dalla città di Pukë, questo progetto triennale è promosso da due ong italiane – Reggio Terzo Mondo (RTM) e Cooperazione per lo sviluppo paesi emergenti (COSPE) – con il sostegno dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS). L’obiettivo dell’iniziativa può suonare “tradizionale” – lo sviluppo eco-sostenibile di uno dei territori più arretrati dell’Albania – ma la rete e il metodo che si propongono di realizzarlo sono innovativi. Agropuka, visto il suo ruolo nella regione, partecipa all’iniziativa come membro permanente del Comitato di Gestione del Fondo di Dotazione per lo Sviluppo dell’ Agricoltura Familiare, schema di finanziamento previsto da progetto.

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