Albania: l’università e la riforma
Il sistema universitario albanese da anni sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Ora il governo sembra intenzionato a riformarlo drasticamente. Secondo molti studenti e professori però, prendendo la strada sbagliata. Una panoramica
Ai tempi del regime, l’accesso alle università dei propri figli era affidato alle carriere politiche dei padri e solo chi aveva le carte in regola con il Comitato centrale poteva ambire alle poche aule universitarie del paese. Alla caduta del comunismo, l’improvvisa voglia di lauree mise in luce tutta l’inadeguatezza delle strutture universitarie e l’accesso all’università venne regolato da misure alquanto contorte: ancor oggi in Albania l’accesso all’università è vincolato a una media estratta da un macchinoso calcolo dei voti di tutti gli anni delle superiori combinati all’esito dell’esame di maturità.
Complici i pochi banchi universitari pubblici e un sistema di selezione che sembra pensato per scoraggiare gli interessati, negli ultimi anni si è assistito quindi al proliferare di istituti universitari privati, con tariffe nettamente superiori a quelle delle strutture pubbliche, ma pronti ad allargare le braccia e garantire un tetto agli esclusi dalle procedure di selezione statali.
Le cifre
Per fare chiarezza su una situazione che in pochi anni è sembrata andare fuori controllo, nel gennaio 2014 il governo albanese ha istituito una commissione ad hoc – presieduta dal prof. Arjan Gjoncaj e composta da docenti del sistema pubblico e privato – con il compito di esaminare le sedi, i curricola e i documenti di tutti gli istituti universitari del paese.
Dal rapporto pubblicato dalla commissione nell’agosto del 2014 è emerso che in Albania erano attive 59 istituzioni universitarie, di cui 15 pubbliche e 44 private. Venivano offerti 1500 programmi di studio, 650 corsi di laurea di primo livello, 600 corsi di master professionali e scientifici e 100 corsi di dottorato.
Dei 160.000 studenti universitari, più del 78% risultava comunque iscritto presso le università pubbliche e di questi il 25% era iscritto al cosiddetto part-time, che prevede corsi solo durante il fine settimana.
L’Albania contava 20 università ogni milione di abitanti (20 volte in più rispetto alla Gran Bretagna) mentre negli ultimi anni ammontano a 32.000 le lauree rilasciate da istituzioni private: è interessante notare come 900 di questi titoli siano a beneficio di cittadini stranieri e che la metà di questi laureati provenga dal medesimo istituto universitario.
Oltre i numeri, la fantasia
Al di là dei numeri, le irregolarità riscontrare durante le ispezioni hanno confermato le peggiori indiscrezioni che già da tempo circolavano sulle università private. Alla presentazione del rapporto, lo stesso Rama ha denunciato che gli studenti meno abbienti, non potendo ricorrere alle borse di studio, si ingegnavano a pagare le rette di iscrizione in natura (con riso, fagioli o legna da ardere), mentre pare che alcune università avessero ridotto i diplomi di laurea a merce di scambio per servizi, lavori di costruzione e manutenzione: "Tu mi rifai gli infissi io ti do una laurea".
Di fronte a un rapporto simile, il governo ha impostato un’azione di risanamento articolata su tre fasce: le 13 università collocate nella prima fascia hanno potuto proseguire l’attività didattica sotto stretto monitoraggio, fino all’effettiva attuazione dei suggerimenti del ministero; per quelle di seconda fascia (sempre 13) è stata adottata una sospensione temporanea immediata di due anni, durante i quali gli istituti non avrebbero potuto effettuare nuove iscrizioni, fino al constatato adempimento dei criteri legali. Per quelle di terza fascia, invece, la revoca della licenza è stata definitiva: sono stati chiusi 18 istituti privati e 6 filiali delle università statali. Tali decisioni, va ricordato, non hanno avuto effetto rettroattivo nei confronti di chi aveva già conseguito un titolo di studio presso quelle università. Per quanto riguarda gli studenti a metà cammino in un’università chiusa, questi sono stati ricollocati tra gli atenei pubblici e quelli privati ancora esistenti.
A fine partita, sul finire della scorsa estate, la stretta voluta dal governo venne accompagnata da una generale ondata di consenso e ottimismo. Qualche ricorso venne accolto e alcune licenze reintegrate, ma il nuovo anno accademico poté regolarmente prendere il via due mesi dopo.
Non mancò, puntuale, la consueta polemica politica, alimentata da alcune scoperte imbarazzanti. Emerse ad esempio che lo stesso ministro dell’Istruzione Lindita Nikolla, oltre alla laurea in matematica conseguita nel 1989 presso l’Università di Tirana, nel 2010 aveva completato un master in amministrazione pubblica presso l’Albanian University, all’epoca ancora nota con il suggestivo acronimo U.F.O. University, uno degli istituti temporaneamente sospesi. "Sarebbe stato un problema se l’avessimo per questo favorita", si sono affrettati a chiarire dal ministero dell’Istruzione.
Al di là dei singoli episodi utili allo scontro politico, il dato rilevante sotto l’aspetto politico emerso chiaramente anche da uno studio dell’Istituto degli Studi Pubblici è il legame tra le università private e i legislatori.
Secondo tale studio, dopo l’Università pubblica di Tirana – presso la quale si sono laureati 79 degli attuali 140 membri del Parlamento – e la Statale di Scutari, la terza università più frequentata dai deputati albanesi sarebbe la famigerata Kristal University, quella che regalò una laurea in gestione d’impresa a Renzo Bossi, che mai aveva messo piede nel paese. Pare che i parlamentari con un titolo di studio della Kristal fossero inizialmente il doppio rispetto a quelli censiti nello studio, ma i numerosi scandali che hanno coinvolto l’istituto hanno spinto molti degli onorevoli ad omettere in tutta fretta il titolo dai propri cv. Alla Kristal University, dopo le assai lievi sanzioni che erano seguite al caso Bossi, il governo albanese questa volta ha fatto definitivamente chiudere i battenti.
In bilico tra pubblico e privato
Nel febbraio scorso, allo scadere del termine per il pagamento delle quote d’iscrizione, un centinaio di studenti di medicina trasferitisi al pubblico dalle università private chiuse dal governo ha occupato la sede centrale dell’Università delle Scienze a Tirana per denunciare il carattere discriminatorio delle politiche ministeriali adottate nei loro confronti.
Per gli studenti della triennale che chiedevano il passaggio ed il riconoscimento degli esami superati sino ad allora, il ministero ha stabilito una tariffa di 110.000 lek (750 euro), ad eccezione dei corsi di laurea in medicina, arte e architettura, per i quali le tariffe arrivavano anche a 235.000 lek (1700 euro), quasi 7 volte di più rispetto a quanto paga chi si iscrive al primo anno, tramite concorso.
"Chiediamo di essere trattati come gli altri", gridavano gli studenti, alcuni addirittura in sciopero della fame. Ma ministro e rettore sono rimasti impassibili: "Non siete qui per merito; le tariffe le conoscevate". Pochi giorni dopo la polizia è intervenuta per porre fine alla protesta e consentire la ripresa delle lezioni. Finita l’occupazione, sono scemate anche le polemiche.
Più che il pugno di ferro del governo nei confronti degli studenti discriminati, a rimanere nella memoria dell’opinione pubblica è stata la generica impressione di una sorta di benevolenza riservata ad alcuni atenei privati, rimasti aperti – si vociferava in quei giorni – grazie all’influenza politica dei loro proprietari. La concessione dell’attestato governativo di idoneità anche ad istituti non propriamente meritevoli era, in fin dei conti, una buona soluzione per tutti: anzitutto per queste stesse università private, che potevano continuare le loro attività ed addirittura accogliere gli studenti rimasti senza facoltà, ma anche per gli stessi ragazzi, ben lieti di girare il loro assegno a dei privati resistiti all’uragano, evitando così di doversi confrontare con il più selettivo sistema pubblico.
Oggi che si parla della bozza di legge sull’istruzione, la quale è nata anche con lo scopo di integrare le sfera pubblica e quella privata in uno stesso sistema, l’allarme su presunti favoreggiamenti nei confronti di quest’ultima è tutt’altro che rientrato.
La riforma, la resistenza
Sulla base del sopra descritto rapporto del 2014, la commissione Gjoçaj ha avviato i lavori per una riforma del sistema universitario in linea con gli standard internazionali. Gli obiettivi dichiarati sono: il miglioramento della qualità degli insegnamenti e della ricerca universitaria; l’adeguamento delle istituzioni universitarie alle esigenze del mercato del lavoro e dello sviluppo del paese; la ristrutturazione del sistema di finanziamento agli istituti sulla base della loro performance e, infine, a lungo termine, la graduale confluenza verso un sistema unificato, in cui le differenze tra pubblico e privato vengano progressivamente attenuate.
Il disegno di legge sull’istruzione universitaria è stato approvato dal Consiglio dei ministri il primo aprile scorso. Il passaggio in Parlamento, come spiega Arlind Qori, docente di filosofia politica dell’Università di Tirana, si attende tra agosto e settembre. Per il professore è probabile che si scelga l’estate: dopo le elezioni amministrative ma prima che gli studenti, potenziali manifestanti, rientrino dal mare.
Proteste a dire il vero sono già iniziate da un anno, cioè da quando sono state presentate le prime bozze, tutte puntualmente contestate. Ma tra la prima e l’ultima bozza, nel testo è cambiato poco e studenti e professori sono regolarmente in piazza a chiedere cambiamenti, per evitare quella che definiscono la commercializzazione delle università.
La nuova proposta prevede una clausola che consente agli istituti privati di presentarsi come "università pubbliche indipendenti", un modello inedito che risponderebbe alla fattispecie delle fondazioni senza scopo di lucro in cui tutti gli introiti sono destinati all’adempimento del proprio statuto. Con questa clausola, anche le università private potranno competere e ottenere finanziamenti pubblici.
Nell’attuale progetto di legge non viene però specificato alcun criterio per la gestione di questi finanziamenti: cosa impedirà a un rettore di un ateneo "pubblico indipendente" ad esempio di fissarsi uno stipendio stellare, non commisurato alla media dei suoi insegnanti? Non solo, ma dal momento che la cifra stanziata dal governo sull’università rimarrà invariata, le università pubbliche, per fare fronte ad un’eventuale riduzione di sovvenzionamento, saranno verosimilmente costrette a ricorrere a misure alternative: aumento delle tasse di iscrizione, locazione degli immobili, adattamento di politiche e curricola alle tendenze, appunto, del mercato.
A rigor di logica, se i finanziamenti saranno stanziati sulla base della performance di ogni università, i più "deboli" riceveranno sempre meno finanziamenti: se risponderanno con l’aumento delle tariffe diventeranno sempre meno competitivi, in una spirale che li condurrà al fallimento.
Problematica è anche la questione dell’autonomia. Secondo la nuova bozza, se oltre il 50% dei finanziamenti proverrà dallo stato, questo avrà anche la maggioranza nel consiglio d’amministrazione, organo con diritto di veto su curricola e corpo docenti – in questo modo i finanziamenti dello stato sono quindi inversamente proporzionali rispetto all’autonomia delle università. In secondo luogo, questa autogestione spacciata per autonomia rischia di far scivolare gli istituti pubblici nelle logiche del mercato, spingendoli a diventare sempre più attraenti per avere maggiori iscrizioni; a nascondere i problemi e a falsare le valutazioni degli studenti per «stimolare» la performance; ad agire, insomma, come hanno fatto in tutti questi anni i privati.
Infine, la riforma riduce anche il peso decisionale degli studenti nei processi di elezione di rettori e decani, dal 20% attuale al 10%. Al contrario, vista la situazione attuale, sarebbe forse auspicabile una percentuale ancora più alta, magari intorno al 50%, che allontanerebbe sensibilmente l’ombra di interventi esterni nelle elezioni universitarie.
Lotta fratricida
Secondo gli studenti e i professori che negli ultimi mesi sono scesi in piazza, per quanto una riforma del sistema sia necessaria, questa proposta di legge non tiene conto della realtà e della situazione attuale degli atenei albanesi. Fermo restando la bontà, sulla carta, di alcune idee – il modello di riferimento è quello anglosassone – sono ancora troppi i dubbi sulla sua reale implementazione: troppi gli spazi per gli abusi, soprattutto se si considera il contesto e la situazione non proprio rosea del sistema universitario e delle finanze albanesi.
Per ora, commissione e ministero non sono riusciti a dissipare le perplessità suscitate dalla riforma. Il timore è che le università pubbliche siano costrette ad arrendersi alle regole del mercato, a vedersi ridurre i finanziamenti a discapito degli istituti privati, a rinunciare al pensiero critico per non far trapelare all’esterno problemi che potrebbero intaccarne le performance, ad aumentare le tariffe rendendo l’istruzione universitaria sempre meno accessibile. Una riforma, insomma, che rischia di spingere le università a farsi belle agli occhi di ministero e degli studenti per accalappiare finanziamenti e iscrizioni, che le spinge a competere piuttosto che a collaborare, di fronte ad un arbitro, lo stato, che invece di intervenire osserva e incentiva questa impari lotta fratricida.
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