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Albania: le detenute di Ali Demi

Un carcere femminile, nel centro di Tirana, che costituisce una positiva eccezione. Ma che ora rischia d’essere vittima sacrificale dello spoils system

30/01/2014, Jo Baker -

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(Pubblicato originariamente da OpenDemocracy.net, l’11 ottobre 2013, ripreso e tradotto da OBC)

La formazione in Albania di una compagine governativa di centro-sinistra, lo scorso giugno, ha implicato cambiamenti su più fronti nel paese. Purtroppo una tradizione ereditata dal passato rischia ora di causare conseguenze non volute su una piccola minoranza del paese: quella delle detenute.

“Naturalmente ci rallegriamo dei progressi democratici”, afferma Erinda Bllaca, che lavora come avvocato presso una Ong locale che si occupa di diritti umani e che effettua un regolare monitoraggio dello stato delle carceri nel paese. “Ma il cambio di governo qui sfortunatamente implica anche un cambio a livello amministrativo. E chi era stato nominato dalla precedente amministrazione viene licenziato o spostato ad altra funzione. Si rischia quindi che molti progressi positivi vengano buttati nel cestino”.

Stretto tra alcuni edifici di pochi piani – a Tirana, capitale dell’Albania – il carcere femminile di media-sicurezza Ali Demi è coinvolto direttamente in questa storia. E’ diretto da cinque anni da una direttrice (1) che proviene da esperienze nel settore dell’assistenza sociale.

La piccola struttura costruita in epoca comunista è divenuta un esempio di come – con poche risorse – si possa garantire una detenzione umana.

Le donne sono un gruppo sociale per il quale la detenzione e la riabilitazione risultano essere particolarmente complesse. Un gruppo che solitamente non viene preso in considerazione né negli studi sulla gestione delle carceri, né dagli standard internazionali e sul quale vi è un minimo di attenzione solo grazie all’operato di sensibilizzazione di organizzazioni come Penal Reform International, grazie ad alcuni monitoraggi finanziati da singoli stati (tra questi il pionieristico rapporto del 2007 della Baronessa Corston per conto del ministero degli Interni della Gran Bretagna e le raccomandazioni redatte da Elish Angiolini per il governo scozzese) e grazie alle molto tardive Regole di Bangkok dell’Onu che hanno posto solo nel 2010 standard internazionali riguardanti le carceri femminili.

Ognuna di queste iniziative ha contribuito nell’evidenziare i danni causati alle donne, alle loro famiglie e alle loro comunità quando i loro diritti ed esigenze in carcere non vengono rispettati.

Violenza sulle donne

Tutto questo è molto rilevante in Albania. Anche se il paese si sta sviluppando in fretta, le sue donne è frequente che siano meno economicamente indipendenti degli uomini, più frequentemente soggette a violenza domestica, che più frequentemente sia completamente a loro carico l’accudimento dei figli e che siano soggette ad uno stigma sociale maggiore rispetto agli uomini nel caso di incarcerazione, in particolare nelle zone rurali dove le regole tradizionali hanno ancora forte presa nella società.

Tutto questo ha un forte riscontro tra le detenute di Ali Demi. “La nostra ricerca sulle carceri in Albania ha rilevato che molte delle donne detenute hanno subito violenze e privazioni da parte dei loro mariti, delle loro famiglie e della loro comunità e di queste continuano a soffrire anche all’interno del carcere”, afferma Therese Maria Rytter di Dignity – the Danish Institute Against Torture, organizzazione che sta conducendo uno studio sulla condizione globale delle donne in carcere.

“Molte sono state totalmente rinnegate dalla loro famiglia, non hanno più né notizie né contatti con i figli e temono il momento in cui usciranno dal carcere. Il tributo mentale può essere molto pesante”.

La nuova direttrice

L’approccio di Irena Celaj, come nuova direttrice, ha tratto ispirazione dal suo passato nei servizi sociali, ma è legato anche all’aria di rinnovamento che si respira in Albania – anche grazie alla sua rincorsa all’ingresso nell’UE – e a consulenze e formazione fornite da organizzazioni internazionali e ad Ong locali quali ad esempio l’Albanian Rehabilitation Centre for Trauma and Torture (ARCT).

Lo staff di dieci persone che Celaj ha costituito presso il carcere, che ospita 52 donne, comprende una dottoressa, una psicologa, una responsabile dell’assistenza sociale ed altri sette tra infermiere e assistenti sociali. Tutti loro lavorano in stretto contatto con il personale strettamente penitenziario per contrastare i possibili danni causati dalla detenzione.

Prison #325, Tirana - Annaleen Lowen

“Molte di queste donne vengono incarcerate perché hanno ucciso qualcuno all’interno della loro famiglia”, sottolinea la responsabile dei servizi sociali nel carcere, Ingrid Balluka. “Ma la maggior parte di loro lo ha fatto dopo molti abusi. Alcune inoltre portano la colpa per omicidi effettuati dai figli. E tutte loro hanno bisogno di un’attenzione particolare, di gentilezza, di sostegno psicologico e sociale per poter guarire e per poter affrontare nuovamente la società”.

Lo staff che lavora nel carcere di Ali Demi passa molto tempo nel fare da mediatore e nell’incoraggiare visite da parte di famiglie e parenti, nell’assistere i bambini rimasti a casa e spingere affinché vengano seguiti.

La terapia psicologica singola e di gruppo è spesso mirata ad affrontare questioni legate alla violenza di genere o il tema dell’abbandono. Se chiesto in modo confidenziale, molte detenute parlano positivamente del sostegno emotivo che viene loro offerto. “Qui puoi guarire”, ha affermato una di loro, al suo settimo anno in carcere.

Modalità di gestione più flessibili si sono rivelate di successo. I tempi concessi per le visite dei parenti sono più lunghi della classica mezzora prevista dagli standard vigenti; sono concesse licenze anche di più giorni verso la fine della pena, in modo da garantire alle donne la possibilità di una progressiva reintegrazione sociale.

Grazie ad un programma di avviamento professionale e ad una politica delle porte aperte rispetto a formatori provenienti dall’esterno – sottolineano sia lo staff del carcere che i lavoratori di Ong esterne – hanno garantito settimane più fitte di impegni con corsi di lingua, di computer, di cucina e artigianato.

Il morale delle detenute non solo è apparso visibilmente più alto, ma si è tradotto in un tasso estremamente basso di incidenti violenti, depressioni e recidiva.

Bllaca, che lavora in molte regioni in tutto il paese, definisce Ali Demi “un’isola felice”. La sua direttrice preferisce invece definirlo un luogo di “sicurezza dinamica”.

L’unico segno della negligenza statale nei confronti delle donne è nella situazione delle loro celle, il cui stato è ben peggiore di quelle da poco ristrutturate della sezione maschile, ma che le detenute riescono a rendere meno fredde con fiori, dipinti e piccoli oggetti di artigianato.

Si cambia?

Con l’annuncio di un cambio di direzione – ormai quasi certo – e di parte del resto dello staff, i primi equilibri si sono già rotti. Il direttore generale dei penitenziari è già stato sostituito ed a Celaj è stato detto di prepararsi al passaggio di consegne, probabilmente ad un direttore maschio.

“Mi preoccupo del fatto che i nostri programmi possano continuare ad andare avanti. Ma soprattutto mi preoccupo per la fiducia che siamo riusciti a costruire”, afferma Balluka. “Queste relazioni sono particolarmente importanti per le donne e molte di loro non hanno nessun altro. Vivono quanto sta accadendo con nervosismo”.

“Mi chiedo inoltre” aggiunge Celaj “se il nuovo direttore è un uomo, o ha un passato legato alla polizia o alla magistratura, se veramente sarà in grado di comprendere appieno i bisogni qui, l’importanza dei dettagli e la centralità del senso di presenza che siamo riusciti a costruire?”.

Nella serie di piccoli cortili interni e nella biblioteca ben tenuta e piena di luce le detenute continuano a parlare privatamente dei loro legami con lo staff attuale e di come le preoccupa il cambiamento. “Senza di loro non so come sarà, ma certo non andrà bene. Penso che potremmo trovarci a litigare molto più tra di noi”, afferma una ragazza di 23 anni. “Ci mancano anche solo nel week end, quando sono a casa loro”, aggiunge un’altra donna. “Sono diventati amici. Il nostro ambiente è più pacifico con loro qui”.

Mentre l’Albania entra pienamente nel ventunesimo secolo e si avvicina all’Europa, le vecchie pratiche potrebbero non essere rinnovate e i cambiamenti potrebbero essere gestiti meglio che in passato.

“Forse la nuova amministrazione si renderà conto dell’importanza di confermare coloro i quali hanno fatto bene il loro lavoro e di valorizzare anche tutta la formazione che abbiamo fatto in questi anni”, afferma la fondatrice di ARCT, Adrian Kati. “Ce lo auguriamo”.

Se lo augurano anche le 52 detenute di Ali Demi.

 

(1) Irena Celaj è rimasta direttrice del carcere di Ali Demi sino all’ottobre del 2013. Dal gennaio del 2014 è project manager di Save the Children in Albania

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