Albania: la colpa del figlio, la colpa della madre
La cronaca nera scuote in questi giorni l’opinione pubblica albanese. O meglio, la cronaca politica, poiché il presunto assassino al centro della triste vicenda è il figlio di una deputata del Partito Socialista. Un commento
Nella notte tra lunedì 3 e martedì 4 novembre, quattro persone sono rimaste uccise a colpi di pistola in un night club di Rruga Elbasanit, di fronte all’Università di Tirana. Da cronaca il caso si fa politica, poiché l’accusato numero uno, Kostandin Xhuvani (25 anni) è figlio di Luiza Xhuvani, ex attrice e oggi parlamentare della maggioranza guidata da Edi Rama. La dinamica della sparatoria è ancora da accertarsi, ma sembra che a prepararne la follia sia stata una semplice lite tra due tavoli di amici; delle quattro vittime (Edison Jaho, 36 anni; Enea Xhaj, 38; Arber Demiraj, 19; Giampaolo Azzola, 55) due sarebbero state raggiunte dai proiettili solamente per errore: Arber, amico dello stesso Xhuvani, e Giampaolo, bergamasco, che al pari di altri imprenditori italiani da due anni risiedeva stabilmente in Albania per gestire la sua attività (un negozio di abbigliamento sportivo).
Nonostante le perizie siano ancora acerbe, le prove contro il giovane Xhuvani paiono schiaccianti: i colpi provengono dalla medesima pistola trovata in mano al giovane, che la polizia ha fermato a pochi metri dal locale subito dopo la strage. Kostandin, figlio d’arte – anche il padre, Gjergj, è un celebre regista – è un ragazzo con gravi precedenti penali: già nel 2011 era stato condannato a due anni di reclusione per omicidio; dopo aver scontato solamente un anno e due mesi – aggiuntigli per aver aggredito una guardia – esce di prigione in tempo per finire sulla lista dei "resistenti" di Lazarat, tra coloro che aprirono il fuoco sulla polizia durante l’operazione anti-droga portata a termine lo scorso giugno.
Una macabra e riuscita regia
Quando il membro di una famiglia nota vanta una simile fedina penale e non pago della reiterata benevolenza del "sistema" persiste nella criminalità, è normale che la cronaca si trasformi in parapiglia politico. Nel tentativo di uscire vincitore da quest’intrico, il premier Rama ha scelto di convocare una luttuosa conferenza stampa in cui le dimissioni pubbliche della madre-deputata fungessero da antipasto per un suo comizio. Riscuotendo un successo abbastanza trasversale presso l’opinione pubblica.
Il primo ministro ha intelligentemente scelto il suggestivo palcoscenico del dolore per proclamare la diversità etica del suo governo: nella sua macabra perfezione, questo video ha disinnescato ogni pronta accusa dell’opposizione – alle prime ore dell’alba si erano già levate al cielo le democratiche grida di scandalo per l’ennesima protezione politica che certamente sarebbe stata garantita ad un giovane criminale di influente famiglia socialista. La tragedia di Rruga Elbasanit diventa così un’occasione di rimembranza storica: ricordate i morti di Gerdec, per cui il figlio di Berisha non venne nemmeno inquisito? Ricordate il 21 gennaio 2011? Beh, noi siamo diversi: "Oggi si è messo fine all’idea che ci sia una legge per la gente comune e un’altra che agisce per i politici ed i loro famigliari”.
È possibile che, a loro modo, queste dimissioni segneranno una svolta politica. Ma nella coreografia comunicativa che attorno vi è stata costruita e nella mentalità, più retriva che moderna, cui quella coreografia faceva appello, è ravvisabile un’inquietante continuità culturale.
Un’allucinazione colta, che a volte somiglia alla realtà
Quella del Kanun è la tipica allucinazione dei frequentatori colti dell’Albania, studiosi e viaggiatori inclini a cogliere in un gesto o in una sillaba del malcapitato tassista con cui stanno parlando la riprova di ciò che già sanno e che già hanno letto: la conferma dell’esistenza sottopelle della tanto invisibile quanto attiva legge tradizionale albanese, vero schema del vivere sociale di un paese ancora a base clanica. Da straniero in Albania, cerco sempre di tenermi lontano da queste facili deduzioni intellettuali, ma devo ammettere che guardando il video della conferenza stampa di Luiza Xhuvani – e soprattutto ascoltando le diverse reazioni da questa suscitate – è molto difficile non persuadersi di aver colto, in filigrana, frammenti lessicali, fossili concettuali della famigerata Lekë Dukagjini.
Partiamo dal premier. È proprio a partire da un fatto di sangue (ottima scelta) che Rama ha voluto dare un esempio di modernità etica: la legge è uguale per tutti. Ineccepibile nel merito, ma due obiezioni di metodo sorgono spontanee. Primo: se il criterio guida fosse sempre stato quello (moderno) dell’opportunità politica, la signora Xhuvani, da più parti sospettata di avere speso la propria influenza a protezione del figlio – nel duplice tentativo di alleviare la sentenza e di accorciare la pena detentiva – non sarebbe stata accettata nelle liste elettorali del Partito Socialista, foss’anche al solo fine di evitare imbarazzi politici come quello odierno. Secondo: se l’obiettivo del premier fosse stato quello (moderno) di raccontare ai cittadini albanesi la storia di una donna politica opportuna e responsabile, egli avrebbe quantomeno esitato a gettare in pasto al facile scandalo degli spettatori televisivi l’immagine di una madre disperata, di una famiglia distrutta – se lo ha fatto è perché sapeva che solo quell’immagine poteva garantirgli un consenso trasversale.
Veniamo dunque all’opinione pubblica, alle famiglie telespettatrici. Sembra che la maggioranza degli albanesi abbia apprezzato le dimissioni della Xhuvani, ma è lecito chiedersi sulla base di quali argomentazioni si sia giunti a questa posizione condivisa. L’impressione che ho avuto io, è che l’inopportunità della permanenza in politica della Xhuvani non sia stata individuata in un potenziale conflitto di interessi tra il suo ruolo pubblico e il suo ruolo domestico – due sfere che, ribadisco, in Albania sfumano l’una nell’altra – ma nello screditamento della sua persona a seguito del suo evidente "fallimento educativo". Secondo un’interpretazione drammaticamente diffusa, la Xhuvani si sarebbe dimessa in quanto cattiva madre, e non a causa di una debolezza incompatibile con gli alti doveri richiesti dal suo ruolo istituzionale. D’altronde, che si possa essere mamme di un cattivo figlio anche per casuale sfortuna, e che questo non basti a fare di te una cattiva donna pubblica sono due verità accantonate molto volentieri dalla retriva scenografia governativa, quand’anche imbastita nel nome della modernità.
La madre
E veniamo alla madre. Dopo aver sommessamente spiegato le assennate motivazioni politiche delle sue dimissioni – "Per togliere ogni tipo di argomentazione a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti, nell’impossibilità di servire la circoscrizione che rappresento in Parlamento, ho fatto richiesta di dimissioni come deputato del distretto di Saranda" – la Xhuvani chiude con una frase che bussa alle orecchie di chiunque abbia letto anche solo la voce "Kanun" di wikipedia: "Io sono la madre di Kostandin, e lui sarà sempre mio figlio, perché lui è il mio sangue".
Tra tutte le metafore che una donna ha a disposizione per rivendicare la propria condizione di madre o per dichiarare il proprio amore ad un figlio in errore, la Xhuvani ha scelto l’ineluttabilità del dato ematico. Colpisce, non può non colpire. Perché è proprio un fatto di sangue a costringerla alle dimissioni, e se l’immagine del sangue non fosse così profondamente radicata nel lessico famigliare albanese – tanto da non avvertire più la potenza verbale della metafora! – difficilmente sarebbe stata usata in questo tragico contesto, con quattro corpi ancora caldi. Se una politica, fine di retorica e di pensiero, nell’atto di rendere un servizio mediatico al proprio governo e al proprio partito, non rinuncia a questo tipo di simbologia biologica, significa che questa alberga negli abissi del suo inconscio. E dove cento, mille, milioni di pensieri inconsci si sommano, là c’è una cultura. Cos’altro, se non la cultura del legame di sangue, fa sì che famiglie influenti (poco importa se viola o blu) si sentano legittimate a proteggere un loro membro anche a detrimento del potere pubblico? Cos’altro, se non questo tipo di concezione familistica, rende ancora tanto debole stati come l’Albania? Ora, se la retorica del sangue persiste persino nel copione della Xhuvani, scritto appositamente per rinnegare, in nome di una moderna legalità, ogni logica familistica, dov’è la discontinuità che conta: quella culturale?
Il sangue, che in passato ha di fatto giustificato i materni tentativi di protezione di fronte alla "legge uguale per tutti", oggi affonda quella stessa madre, colpevole non di quei tentativi ma della colpa del figlio.
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