Albania: la chiesa della discordia
La vicenda legata all’abbattimento di un edificio religioso nel sud dell’Albania mette alla prova la narrazione sulla tolleranza inter-religiosa nel paese
Nei torridi giorni di agosto, il piccolo paese di Dhërmi – poche case arroccate sulla collina che sovrasta le spiagge più famose della costa albanese meridionale – è salito alle cronache nazionali per l’infelice decisione dell’Ispettorato del Territorio (INUK) di demolire la chiesa ortodossa di Sant’Atanasio (Kisha e Shën Thanasit): una piccola e fatiscente struttura costruita nei primi anni novanta sulle rovine di un’antica chiesa cattolica di rito orientale che il regime aveva demolito nel 1972. Nonostante fosse abusivo, quello strano edificio, riassemblato mattone su mattone dai residenti della zona subito dopo la fine del comunismo, era assurto a simbolo della riconquistata libertà religiosa.
Il 20 agosto scorso, l’Ispettorato è entrato nell’edificio per sgombrarlo dagli oggetti di culto e per procedere alla demolizione. In tutta risposta, i residenti, sostenuti dalla Chiesa Autocefala Ortodossa e dell’Organizzazione per la tutela della minoranza greca “Omonia”, hanno fatto muro di fronte alla chiesa: “Non possiamo permettere alla storia di ripetersi, non staremo a guardare la nostra chiesa soccombere una seconda volta per mano del governo”. Immediata anche la reazione del Partito per i Diritti dell’Uomo (PBDNJ), anch’esso rappresentante della minoranza greca e uscito di recente dalla maggioranza di governo, che ha definito “scioccante” l’indifferenza delle autorità statali di fronte al tentativo di “distruzione di un edificio di culto”.
Com’è facile immaginare, questo minuscolo incidente locale è bastato ai governi di Grecia e Albania per rispolverare l’intero repertorio dei contenziosi sulle minoranze presenti in alcuni dei paesi della costa sud, ortodossi e bilingui, regolarmente oggetto di speculazioni mediatiche, politiche e storiche da parte di entrambi i paesi.
Il ministero degli Esteri greco si è affrettato a emettere un comunicato stampa per chiedere spiegazioni ed esprimere indignazione per “un’azione del governo albanese che è incompatibile con l’immagine di un paese che aspira all’adesione all’Unione europea”. La controparte albanese, pur ribadendo l’impegno a rispettare le leggi sulle comunità religiose, ha invece individuato in questo “avventato” intervento del ministero greco un’interferenza negli affari interni del paese: "L’’ideologia arcaica’, secondo cui ‘ogni ortodosso sarebbe greco’, non è compatibile con i valori europei di uno stato membro".
A complicare la consueta querelle politico-religiosa, nel solito inestricabile groviglio iperlocalistico tra storia, religione e nazionalismo, si aggiungono poi le reliquie di monsignor Nilo Catalano (monaco basiliano operante in Albania nella metà del XVII secolo) che furono conservate per secoli all’interno della chiesa in questione. La figura di Catalano è da sempre nota agli studiosi, ma è diventata improvvisamente cara all’opinione pubblica albanese non tanto per la sua attività pastorale quanto per l’insegnamento e la divulgazione della lingua albanese nel sud del paese.
Una demolizione a tradimento
A distanza di sei giorni dalle prime polemiche, l’INUK è intervenuto in piena notte ed ha abbattuto l’edificio ritenuto abusivo. La polemica politica si è di conseguenza infiammata: la Chiesa Ortodossa ha denunciato l’“azione vandalica”, Lulzim Basha, il leader dell’opposizione di centrodestra, lo ha definito un “atto di tradimento e reminiscenza del regime”, mentre per il leader del PBDNJ Vangjel Dule si è trattato dell’ennesimo caso di “interessi clientelari sui terreni costieri di Edi Rama e del deputato socialista Koço Kokëdhima”. Da Atene, infine, non si è lasciato attendere un ulteriore comunicato, che ha paragonato l’azione del governo albanese a quella degli jihadisti in Medio Oriente e nel Nord Africa.
Apparentemente imperturbabile, il premier Rama ha riposto a critiche e polemiche durante una lunga sessione di domande con i suoi seguaci in rete, ribadendo che si tratta di affari interni e che l’Albania non è disposta ad accettare nessun tipo di interferenza o protettorato da un altro stato.
Per ultimi, nel tentativo di placare gli animi, sono intervenuti il ministro del Welfare Blendi Klosi (altresì responsabile per gli edifici di culto) e l’onorevole socialista Koço Kokëdhima. Il primo ha annunciato che, conformemente all’accordo preso con il sindaco di Dhërmi, la chiesa sarà ricostruita, ma non sullo stesso luogo, che invece diventerà oggetto di ricerche scientifiche ed analisi più approfondite. Il secondo ha fornito ulteriori dettagli sulla preparazione di una più vasta operazione di studio dell’orientamento religioso della costa albanese nei secoli, una ricerca che sarà effettuata da storici e archeologi albanesi e stranieri “a cura morale e intellettuale del primo ministro dell’Albania”.
Un abbattimento per riesumare Catalano?
C’è chi ritiene che alla base dell’abbattimento ci sarebbe proprio la riesumazione, fisica e metaforica, di Nilo Catalano e degli altri monaci basiliani in Albania.
Sottolineare la loro presenza, i legami con la Chiesa cattolica, l’uso e la diffusione della lingua albanese nei paesi costieri indebolirebbe le preteste della parte greca che considera i residenti una minoranza etnica, ortodossa e grecofona per tradizione.
Dalle dichiarazioni di Kokëdhima, noto imprenditore vicino a Rama, deputato e responsabile del Partito socialista per il sud, è infatti lecito supporre che Catalano sarà solo il primo dei religiosi basiliani ad essere riesumato per essere riseppellito, debitamente ossequiato, allo scopo di far emergere l’orientamento cattolico e occidentale della zona.
In conclusione, i fedeli di Dhërmi riavranno il loro luogo di culto, mentre gli albanesi tutti otterranno una rivisitazione storica in chiave filo-occidentale, tanto comoda all’attuale narrazione europeista dell’Albania.
Narrativa della tolleranza
Aggiornamenti e colpi di scena sulla chiesa di Sant’Atanasio si sono intrecciati in questi giorni alla notizia della 28° edizione dell’Incontro Internazionale per la pace, iniziativa della Comunità di Sant’Egidio che avrà luogo a Tirana tra il 6 e l’8 settembre prossimo.
L’esistenza, sul suolo albanese, di varie religioni (musulmana, cattolica, ortodossa, bektashi, ecc) che l’oppressione di un regime ateista aveva parificato, dà oggi adito a una retorica dell’armonia religiosa che negli anni della democrazia è divenuta un vero e proprio cavallo di battaglia della classe politica albanese, soprattutto in ambito internazionale.
Una simile “tolleranza” ha fatto da sfondo alla recente visita di Papa Francesco – che nel settembre 2014 ha non a caso dedicato il suo primo viaggio apostolico in Europa proprio alla capitale albanese.
In Albania, dopo 45 anni di un regime che conosceva come unico culto quello del leader, un vero dialogo interconfessionale – alla pari di un genuino dialogo interpartitico o, se vogliamo scendere di scala, di un sereno confronto tra individui – è ancora tutto da costruire. Ma edificare è lungo e difficile: da un punto di vista politico è molto meglio spacciare l’indifferenza per tolleranza, utilizzando la pace interreligiosa come biglietto da visita per rimodellare l’immagine del paese: agli occhi di politici alleati, degli alti funzionari europei, dei giornalisti stranieri, dei turisti occasionali.
Ed in questa narrazione c’è poco spazio per la notizia della chiesa di Dhërmi. Chi l’Albania la vede dalle pagine della stampa estera può anche credere a queste trasformazioni, alla rinascita del paese, alla sua pace religiosa. A furia di sentircelo raccontare, forse un giorno finiremo per crederci anche noi albanesi.
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