Albania: il visionario alato e la donna proibita
Un romanzo duro, drammatico, doloroso, complesso, claustrofobico e insieme visionario dove la letteratura è uno strumento di testimonianza, di conoscenza e di verità. Una recensione
(Articolo originariamente pubblicato da Albania News il 4 giugno 2015)
Il titolo di un libro è sempre una sorta di manico attraverso cui quel libro si può afferrare o afferrare meglio. In questo caso la prima impressione che nasce dalla lettura de “ Il visionario alato e la donna proibita” (Rubettino) di Visar Zhiti è quella che deriva dall’aver attraversato le oltre trecento pagine di un libro denso e affascinante.
Un libro che poco a poco ti trascina nel gorgo delle “molte cose che mutano nella loro terribile immutabilità” (per usare le stesse parole di Zhiti). E che attraverso l’imprinting dell’immagine del “visionario alato” e della “donna proibita” hai l’impressione di afferrare meglio.
O comunque che non scivoli di mano. La sua lettura ha bisogno di un tempo allargato che diventa a mano a mano sempre più stretto e coinvolgente, mentre affiora e si consolida l’immagine forte e disseminata nel racconto della coppia formata da Felix, il giovane fotografo alle prime armi ed Ema, la giovane liceale vittima del regime comunista albanese.
“Il visionario alato e la donna proibita” è un romanzo dal profondo respiro narrativo che si organizza e si stratifica dentro la sua struttura per così dire “aperta” o comunque assai allargata, non strettamente vincolata dal suo format. In cui ognuno dei sei capitoli è un racconto a sé, una sorta di preludio – ripetuto, ciclico e insieme rigenerato – di una tragedia che continua a ripetersi, quella dell’Albania. Si potrebbe dire che quella di Zhiti è a suo mondo un’opera-mondo di una complessità notevole in cui la narrazione potrebbe allungarsi all’infinito. Dove la digressione, lo scarto, l’andatura sinusoidale sembrano scalzare la centralità lacerante, il nocciolo duro e infusibile di ciò che narra e si narra.
Ma al centro – visibile, invisibile, taciuta e potentemente sottintesa e sottilmente allusa – c’è sempre qualcosa di perforante e insistito, come una spina dolorosa. Una ferita mai chiusa, che continua a sanguinare, che continuerà a sanguinare: ed è la fonte segreta e inesauribile, anche se talora con andatura carsica, che ha portato al racconto.
E’ quel patto che Zhiti in qualche maniera ha stabilito con la propria biografia e la propria figura di testimone in prima persona che ha al centro la condanna a dieci anni di lavori forzati nelle miniere per alcuni suoi versi considerati anti-regime, con la sua voce che porta all’insopprimibile necessità del racconto, del suo racconto. Un racconto che, proprio per la struttura che ho detto, si rifrange come la luce riflessa sul diamante. Si moltiplica e si dissemina e si frantuma.
Cioè moltiplica, dissemina, frantuma le sue storie ricorrenti in immagini, ricordi di orrori antichi e recenti, ossessioni, immagini di città nel flusso di un caleidoscopio veloce, dal ritmo quasi ansimante, talora quasi schizoide. E senza strada precisa, ma con una riga che la traccia e la cancella di continuo. Una riga o meglio una traccia che zigzagando può mettere insieme osservazioni, citazioni, elenchi commenti, ricordi, sogni, racconti di vita o appunti per storie da scrivere e magari ancora non scritte. Quello che conta è il montaggio, l’accostamento, la mescolanza, l’alternanza, gli accorgimenti del caso, il su e giù, l’andare in tutte le direzioni, la documentazione insieme selettiva e senza censure, il ricordo dell’orrore e degli orrori che generano angoscia, ansia, tormenti.
Per scrivere, ripercorrere o inventare l’allucinato resoconto, il reportage dell’anima di un uomo travolto dalla storia e di una donna come molte, come tante vittima della dittatura, la forma scelta è classica, è quella del viaggio simbolico, rappresentativo. Scavando nelle proprie piaghe con l’acume conoscitivo che è anche di uno sguardo paranoico, Felix compone un ritratto della patria e dei suoi figli feriti, smarriti nelle città europee, attratti dalle insegne al neon e dalla falsa promessa di una irraggiungibile libertà.
Un ritratto che è insieme racconto in prima persona della propria esperienza. E anche libro identitario, come uno specchio anche deformato (la figura dello specchio è ricorrente nelle paranoiche fantasie di Felix), uno specchio dentro cui leggere, rappresentare, trovare formati il pensiero e il vissuto, la sofferenza e la rabbia, le passioni e le mortificazioni, le tante maschere di tutti coloro che hanno subito la Storia in un’epoca complessa e tragica della storia albanese.
E il viaggio è come la prova a cui sono sottoposti nelle storie popolari gli eroi o i protagonisti. Si potrebbe dire l’iniziazione – a cui sottopone Zhiti il suo Felix attraverso un itinerario borderline. Un po’ sognato, un po’ reale, in cui la realtà dura e petrosa ha angoli e piani di vera e propria allucinazione. E l’allucinazione ha la forza espressiva e dirompente di una iperealtà squillante e invasiva, in un’Europa alla fine del secolo scorso, alla ricerca di una possibilità per rendere giustizia alle infamie del regime comunista e delle violenze perpetrate nel sistema carcerario albanese.
Un viaggio scandito da tre propositi, come ha scritto Mauro Geraci che, da antropologo e scrittore, ha dedicato alla realtà culturale albanese di oggi, tra scritture, pubblicazioni, fiere, presentazioni, diatribe, scambi, un saggio fondamentale, “Prometeo in Albania”, pubblicato da Rubbettino. Il primo è quello di visitare i luoghi sognati: Roma, Venezia, Bologna ecc. Il secondo punta a ritrovare lo spirito gemello di lei, liceale messa in carcere e poi uccisa perché porta una croce in petto e prega contravvenendo all’ateismo di Stato imposto da Hoxha. Il terzo è quello di consegnare un dossier sulla sua tragica morte a Bruxelles o al tribunale dell’Aja.
Un viaggio che è un po’ come un volo sciamanico di abbagli conoscenze agnizioni e misteri dentro città, paesaggi, atmosfere. Il tutto visto come dall’alto, ma attraverso un vetro invisibile contro cui Felix va a sbattere, in uno delle scene più nette e simboliche dell’intero romanzo. Dall’alto di una visione in cui il tempo della memoria e quello del presente convergono spesso e si soprappongono, con la visione che acceca l’occhio e l’occhio che crea la visione.
E tutto ciò è assai vivo, felicemente rappresentato, penso ad esempio alle tante scene dell’orrore di un regime che arriva a vietare anche le poesie dedicate alla luna scritte in carcere, l’orrore con le sue tecniche, i suoi soprusi, le violenze, le ottusità, le follie comportamentali e cognitive.
Il viaggio è a suo modo un viaggio di conoscenza, quel tipo di conoscenza che viene dalla memoria lacerata di ciò che si è vissuto e che affiora per lampi, associazioni, veri e propri paranoici ripescaggi della memoria che diventano schegge di sapere e di saperi, dolorose acquisizioni a posteriori di ciò che si è vissuto. Acquisizione di ciò che Felix ha vissuto, e dietro di lui lo scrittore testimone dell’orrore e per ciò stesso deputato attraverso la scrittura a dirlo, a raccontare quello che altrimenti resta non detto, indicibile.
Ha vissuto e vuole appunto testimoniare nel suo correre per l’Europa ricostruendo nel sogno o nell’incubo quello che forse ha davvero percorso, o forse no, proprio perché “non c’è treno che lo porti alla realtà quando la realtà è sogno”. Per conoscerla, ma soprattutto perché mosso dalla necessità che l’Europa conosca e riconosca la barbarie da cui lui stesso proviene e le violenze profondamente incise nelle sue stimmate di pellegrino, di esiliato che “porta con me un morto e sto scappando dall’orrido, lo metterò in salvo”.
Con il tormento, il disagio, l’ansia, la disperazione, la fuga, l’inadeguatezza, l’insicurezza, l’intuizione, la tolleranza, la critica, l’incertezza, il senso che tutto passa se non lo afferri con la parola. Ed è per questo che nel suo viaggio egli porta con sé il dossier, quasi una forma di riscatto alla vita perduta di Ema, chiusa in una bara dopo i soprusi subiti. Quel dossier che da oggetto composto da fogli e cartelle, diventa una parte interiore e spirituale di Felix: «A volte lo spirito migrava dal suo petto in quelle copertine di cartone nero, diventava cadavere e il dossier ansimava per le angosce, si dimenava… L’accusa era racchiusa tutta nel dossier nascosto. Gli pareva di sentirne il rimbombo, non dentro la valigia, ma nel suo petto…».
“Il visionario alato e la donna proibita” non è romanzo facile, di facile intrattenimento, di quelli che spettacolarizzano il dolore, l’orrore a buon profitto. E lo fanno con facile scandalo, la facile indignazione, lo sdegno semplificato di chi appunto vuol trarre profitto dallo scandalo, dallo sdegno, dall’indignazione di fronte al dolore e all’orrore del mondo. E’ al contrario un romanzo duro, drammatico, doloroso, complesso, claustrofobico e insieme visionario dove la letteratura è uno strumento di testimonianza, di conoscenza e di verità a cui auguro, con il suo autore, davvero un bon voyage, nel suo nuovo viaggio in Italia.
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