Albania: alle radici del caso Doshi
Il cosiddetto “caso Doshi” chiama sia da parte albanese che da parte europea una seria riflessione di sistema: l’amara realtà a cui ci riconduce esula infatti dai singoli episodi che compongono quest’incresciosa vicenda: è la realtà della politica albanese. Un’analisi
Dal 2005 a oggi, Tom Doshi è stato un deputato del parlamento albanese. Classe 1966, scutarino e imprenditore, dopo un’intera legislatura nella maggioranza PD, alle elezioni del 2009 si candida e viene eletto nella fila del PS. Nel 2013 i socialisti lo ripresentano nella circoscrizione di Scutari; similmente al porcellum italiano, anche la legge elettorale albanese prevede le liste bloccate: questa volta persino al nord è un plebiscito viola, ed egli entra nuovamente in parlamento in appoggio all’attuale governo Rama.
Poco presente sulla scena nazionale e parlamentare, Tom Doshi sarebbe rimasto pressoché sconosciuto al di fuori della sua città se negli scorsi anni il suo nome non avesse fatto capolino in due spiacevoli circostanze: a seguito del celebre 21 gennaio 2011, quando secondo la procura generale egli contribuì all’arruolamento e all’organizzazione dei manifestanti antigovernativi, e nel settembre dello stesso anno, quando sulla base dei cablogrammi intercettati da Wikileaks l’ambasciata Usa a Tirana lo “sospettò pubblicamente” di traffici illeciti e di riciclaggio di denaro sporco.
Ma a consegnare il personaggio ai posteri è il susseguirsi degli eventi degli ultimi due mesi. All’inizio di febbraio, improvvisamente, Doshi attacca il suo governo: lo accusa di non star facendo nulla per lo sviluppo del paese, di aver tradito ogni promessa fatta agli elettori. Nell’arco di pochi giorni i toni si fanno sempre più pesanti, fino a quando, in veste di Segretario, Rama decide di espellerlo dal partito e dal gruppo parlamentare. La reazione di Doshi è degna di una fiction: dopo aver denunciato in diretta TV un piano di omicidio ai suoi danni, egli accusa il presidente del Parlamento lir Meta di esserne il mandante.
Addio realtà
A sostegno delle sue pesantissime accuse Tom Doshi porta un video palesemente posticcio in cui egli stesso incassa la confessione del suo presunto sicario pentito (Durim Bami) e chiama in causa tre testimoni diretti: il leader democristiano Mark Frroku, il deputato PD Mhill Fufi e l’ex ministro LSI Dritan Prifi. Secondo la versione di Doshi, il secondo obiettivo di Ilir Meta sarebbe stato proprio il democratico Fufi, ma nei giorni a seguire sia lui che Frroku smentiranno pubblicamente l’esistenza del complotto omicida, confermato solamente da Prifti.
Intanto, a destra, i dettagli non importano: le rivelazioni nuocciono sia a Rama che a Meta, due buoni motivi per stringersi intorno a Doshi contro la maggioranza di governo. Rientrati da un boicottaggio parlamentare durato cinque mesi (dal luglio al dicembre 2014 i democratici avevano disertato i lavori in segno di protesta), Berisha e i suoi deputati occupano il centro dell’aula per chiedere le dimissioni del "Presidente assassino".
È difficile descrivere la seduta parlamentare del 5 marzo scorso. Interpretandola alla stregua di un quadro, potremmo individuare tre punti focali: in alto, sullo scranno Presidenziale, Ilir Meta: l’imputato; in basso, ad occupare l’emiciclo, gli schiamazzanti accusatori del Partito Democratico; esattamente in mezzo, metaforicamente schiacciati da quest’improbabile tribunale del popolo, i banchi del governo: un Rama costernato, impassibile.
Mentre in parlamento prosegue lo show, nel paese realtà e verità hanno già abbandonato il campo, prontamente sostituite dalla manipolazione mediatica. Dalle tribune, gli ambasciatori stranieri assistono attoniti ad un quadro che delegittima l’intero parlamento. L’Ambasciatore OSCE, solitamente restio alle esternazioni, in serata dichiarerà: "Seguiamo con disappunto il deterioramento del dibattito politico di questi giorni. Facciamo appello ai politici affinché evitino linguaggio ed azioni provocatorie e consentano il funzionamento delle istituzioni nell’interesse dei cittadini albanesi".
Con il passare dei giorni il caso si gonfia e si sgonfia, mentre intorno a Doshi presto si fa terra bruciata. La procura avvia le indagini: a parte Prifti, nessuno conferma la versione del deputato socialista e il 20 marzo questa presenta al Parlamento una richiesta di arresto a suo carico. Anche se gli eventuali tempi processuali saranno certamente lunghi, le accuse di falsa testimonianza e di istigazione alla falsa testimonianza sembrano avere chiuso il caso davanti all’opinione pubblica, invalidando le manifestazioni dell’opposizione contro il Presidente del parlamento e lasciando alla maggioranza socialista campo libero per l’incombente campagna elettorale per le comunali (a giugno si elegge anche il nuovo sindaco di Tirana).
Qualunque scenario ci riservi il futuro, la seduta del 5 marzo sarà però difficile da dimenticare. Quel giorno infatti nel tentativo di abbozzare la sua linea difensiva, Ilir Meta ha inavvertitamente resuscitato il 21 gennaio 2011, riattualizzandone i misteri e le ferite. Rivolgendosi all’ex Premier Berisha, il Presidente del parlamento si è lasciato sfuggire questa frase: "Per te farei di tutto. Ma ho già dato le dimissioni una volta a causa di tuo figlio, perché era nel video di Dritan Prifti e mi hai detto: ‘Guarda cosa mi ha combinato questo cretino’ […] Non intendo farlo una seconda volta". Per un cittadino albanese mediamente informato, queste poche parole nascondono un terremoto: prima di allora – come spiegheremo nel dettaglio a breve – Meta aveva sempre negato ogni fondatezza alla vicenda che rischiò di porre fine alla sua lunga carriera politica.
Le radici della crisi
Con l’approssimarsi delle elezioni, la scena politica albanese è solita surriscaldarsi. In questi ultimi mesi il malcontento è serpeggiato all’interno dell’intero gruppo parlamentare del Partito socialista, ma la manovra di Doshi ha trasceso evidentemente ogni sana dialettica interna. Sembra che il deputato scutarino lamentasse da tempo l’"indifferenza" riservatagli da una dirigenza "irriconoscente", un partito dimentico dei copiosi finanziamenti ricevuti negli anni dal suo patrimonio personale.
Complice il curriculum del personaggio, negli ultimi due mesi il sistema mediatico albanese si è abbandonato a illazioni, contro-illazioni e retroscena: come sempre, nelle emozioni del dietrologismo televisivo si sono persi di vista i fatti. E mentre la maggioranza dei cittadini albanesi scuoteva la testa sconsolata, gli internazionali – statunitensi in primis – si sono limitati a salutare con soddisfazione l’arresto del "disturbatore" della quiete.
A fronte della retorica della novità che accompagna ogni iniziativa del governo Rama, questo caso rende però evidente le continuità, i fili rossi che sottendono e guidano la vita politica albanese.
Il primo tratto di continuità è l’utilizzo dell’informazione come quarto potere. Anche nel gennaio 2011, in un momento di estrema lacerazione politica, personali battaglie per l’altrui discredito vennero condotte a suon di video “segreti”: l’allora ministro dell’Economia Dritan Prifti incastrò Ilir Meta (al tempo ministro degli Esteri del terzo governo Berisha) girando un video in cui quest’ultimo faceva esplicito riferimento a tangenti, appalti truccati, raccomandazioni, nonché alla corruzione di un giudice della Corte suprema. Per colpire il rivale politico, Prifti non consegnò le immagini alla magistratura, bensì a Fiks Fare, la seguitissima «Striscia la notizia» albanese. Fu dunque uno scoop televisivo a portare l’opposizione socialista in piazza, una manifestazione a carattere misto: fatta di indignati spontanei e di “indignati a tavolino”, che secondo la procura vennero organizzati con il contributo dello stesso Doshi.
Veniamo così alla seconda continuità: Ilir Meta, un personaggio costantemente sotto accusa, costantemente al potere. Attorno alla sua figura e al suo partito personal-clientelare (LSI: Partito Socialista per l’Integrazione) non vi sono certezze, ma un dato può difficilmente essere smentito: senza Meta in Albania non si governa. Quando, nel 2009, le elezioni politiche decretarono il pareggio, Berisha riuscì a formare l’esecutivo soltanto grazie all’appoggio dell’LSI, scissosi nel 2004 dal PS di Fatos Nano. In cambio del sostegno dei suoi quattro deputati, Meta divenne vicepremier e ministro degli Esteri di un esecutivo di centro-destra; una strana alleanza rotta solamente alla vigilia delle elezioni del 2013, quando l’LSI si sganciò dalla maggioranza per siglare una coalizione elettorale con il PS – una scelta, quella della «riunione» a sinistra, che venne premiata dagli elettori: il partito di Meta raddoppiò i voti e quadruplicò i deputati, porgendo l’alloro della vittoria sul capo di Rama.
Riconosciuto innocente in ultimo grado di giudizio per gli scandali del 2011, fino al 5 marzo scorso Meta aveva sempre bollato come «false» le immagini che lo ritraevano con Prifti, senza mai alludere al coinvolgimento del figlio di Berisha: il fatto che egli abbia ammesso di essersi dimesso a causa di quest’ultimo confermerebbe, per proprietà transitiva, la veridicità del video incriminante. Qualunque sia la verità, oggi Meta detiene la terza carica dello Stato. Ecco dunque la continuità della politica albanese: mentre il governo Rama si presenta in Europa come l’esecutivo della svolta e della lotta senza quartiere alla corruzione, il futuro di quel governo è legato a doppio filo ad una più che controversa personalità politica, un uomo simbolo di una politica che significa potere, elevato a figura istituzionale dagli avversari che soltanto qualche anno fa gli scatenarono una piazza contro. Dopo Prifti, Rama, Tom Doshi e Berisha, chi sarà il prossimo a scagliarsi contro questo campione del trasformismo? Chi ne cercherà l’alleanza?
Infine, altre inquietanti connessioni meriterebbero di essere ricostruite. Andando indietro, si capisce ad esempio come le tensioni personali tra Meta e Berisha affondino le radici persino nei seggi dello scorso turno elettorale. Sull’onda degli entusiastici rapporti OSCE sulle "migliori elezioni mai svolte nel paese", si è presto dimenticato che in un seggio di Laç si consumò un misterioso scontro a fuoco. Vi perse la vita Gjon Gjoni, militante dell’LSI, mentre rimasero feriti Kastriot e Mhill Fufi, oggi deputati del PD – quest’ultimo, nella ricostruzione fornita da Tom Doshi, sarebbe stata la seconda vittima degli omicidi ideati da Ilir Meta.
Per quanto riguarda Mark Frroku, altro personaggio della vicenda, è difficile trovarne traccia nei lavori parlamentari, ma di lui si era già parlato nel 2013, quando sostituì alla guida del Partito cristiano democratico il fratello Arben, arrestato per l’omicidio di un commissario di polizia. A seguito dell’arresto per falsa testimonianza, venuta meno ogni protezione politica, altri gravi accuse sono piovute a carico di Frroku: all’omessa dichiarazione dei redditi e al riciclaggio di denaro sporco si aggiungerebbe addirittura l’omicidio di un connazionale a Bruxelles, risalente al 1999. Pare infatti che le autorità belghe avessero emanato un mandato di cattura internazionale, e che questo giacesse da gennaio negli uffici dell’Interpol di Tirana – una passività su cui il caso Doshi ha fatto luce in maniera collaterale, e che in pochi giorni ha portato all’arresto del capo dell’Interpol e alle dimissioni del capo della Polizia di Stato. Ancora una volta, né su Fufi né su Frroku esistono certezze acclarate dalla magistratura. Ma queste inquietanti connessioni, cucinate in salsa mistero dai media, contribuiscono alla sgradevole sensazione che al di sotto della facciata, al di sopra del cittadino, governino dinamiche torbide, occulti regolamenti di conti.
Livelli paralleli e democrazia
In attesa che la giustizia faccia il suo corso, il caso Doshi non è archiviabile come follia isolata, perché esso è soltanto il sintomo più eclatante di una politica intrinsecamente corrotta, incapace di edificare la propria credibilità. La gravità di quanto avvenuto negli ultimi due mesi risiede proprio nel vortice di discredito da cui la politica albanese non riesce ad affrancarsi di fronte ai suoi cittadini: eliminare in maniera episodica gli elementi ritenuti impresentabili dagli internazionali non basta.
Lo spettacolo indecoroso a cui gli albanesi hanno assistito in questi mesi non può che condurli alla disaffezione politica, ad un qualunquismo di necessità che ne indebolisce la coscienza democratica. A due anni dalla vittoria di Rama, a fronte della discontinuità incarnata dal Primo ministro, la domanda, a tutt’oggi inevasa, rimane la stessa: com’è possibile conciliare il proliferare di livelli segreti, paralleli e criminali con il rafforzamento dello stato di diritto e di istituzioni pubbliche forti e responsabili? La soluzione di questo rebus non riguarda solo l’Albania, ma anche l’Europa ed il suo opinabile approccio alla strategica area balcanica.
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