Adriatico: il destino è nella geografia
"Quello di Kaplan non è un viaggio marinaresco, non c’è interesse per le acque adriatiche ma per le terre liminari, per le città adriatiche". Per la nostra rubrica "Sguardi adriatici" una recensione di "Adriatico. Un incontro di civiltà" di Robert D. Kaplan
(Questo articolo è frutto di una collaborazione di OBC Transeuropa con il Corriere Romagna , dove è stato pubblicato ieri)
“Siamo prigionieri della geografia?”, titolava qualche mese fa una copertina di Internazionale, riproponendo per i lettori italiani un lungo articolo di Daniel Immerwahr, pubblicato su The Guardian. Domanda importante, soprattutto per un paese che è geograficamente ponte tra Europa e Africa, spartiacque tra Appenninia e Balcania. Domanda rilanciata poi da Antonello Guerrera su La Repubblica. Domanda tragicamente attuale, a partire dalla cronaca dell’ultimo, ennesimo, naufragio. Domanda attorno a cui ruota in qualche modo l’ultimo libro di Robert D. Kaplan: Adriatico. Un incontro di civiltà (Marsilio, pp. 380; 22 €).
Per capire l’Adriatico bisogna essere molto attenti alla geografia. Mi sia concesso quindi di muovere una critica all’unica carta pubblicata nel libro che, forse per ragioni editoriali, rappresenta l’Adriatico in verticale. Una stortura che non permette di visualizzare la trasversalità di questo mare, che non va mai dimenticata. Perché, attenzione! L’Adriatico è più esteso da est a ovest che da nord a sud. Un mare, chiamato Mare Superum dai latini poi per secoli Golfo di Venezia, che è un globo in miniatura, riprendendo il sottotitolo del prologo. Innanzitutto per la grande variabilità dei caratteri geografici, oltre che per le sottili differenze tra le civiltà dell’Adriatico, che “coinvolgono oggi il mondo intero”, così come in passato. Basta ricordare l’ultima contrapposizione ideologica capitalismo/comunismo, la precedente stato italiano/impero asburgico e ancor prima repubblica veneziana/sultanato ottomano, occidente romano/oriente bizantino. Ma, tornando alla geografia, l’Adriatico è bassissimo a nord e profondo a sud, torbido a ovest e limpido a est, sabbioso lungo la riva italica e roccioso lungo quella balcanica, delimitato dalla grande e affollata Pianura Padana e dalle alte e spopolate vette dinariche, eutrofico nel lungocosta nordoccidentale e oligotrofico in quello sudorientale, gelido d’inverno e torrido d’estate. Insomma l’Adriatico è duplice, un piccolo maremondo, innanzitutto per la complessità geografica. Del resto l’Adriatico, come ci ha insegnato Braudel, pone tutti i problemi legati allo studio del Mediterraneo.
Un maremondo che ha attratto Kaplan, politologo americano, classe 1952, alla ricerca di risposte per i suoi quesiti riguardanti l’Europa alla fine dell’età moderna, “in relazione al nostro tempo, nel quale le identità sono tornate multiple e fluide”. Spinte identitarie, sovraniste e nazionaliste, conflittuali, tutte molto pericolose. Quello di Kaplan non è un viaggio marinaresco, non c’è interesse per le acque adriatiche ma per le terre liminari, per le città adriatiche. Un viaggio che incomincia a Rimini, dove “l’eredità pagana d’Europa ostenta il massimo della sfrontatezza all’ingresso di questa chiesa cristiana”, tanto da essere chiamata Tempio Malatestiano. Un luogo rinascimentale di grande potenza architettonica e simbolica, frutto del genio di Leon Battista Alberti e dell’ambizione di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-1468), condottiero e mecenate, sanguinario e illuminato, fedele ed eretico, anche lui ossimorico come la sua impresa più grande. La scelta di Kaplan si lega a uno di quei magici intrecci che regala il Mediterraneo. Perché la sua curiosità riminese è nata quarant’anni fa a Mistrà nel Pelloponeso, dove nel 1449 venne incoronato l’ultimo degli ottantotto imperatori bizantini, il greco-serbo Costantino XI Paleologo. Mistrà che è la città natale del filosofo Giorgio Gemisto Pletone, figura importante del Rinascimento, le cui spoglie vennero portate da Malatesta a Rimini e sono custodite nel sarcofago collocato sotto la terza arcata laterale destra. Kaplan deve a Patrick Fermor, grande viaggiatore e narratore, amico a sua volta di Bruce Chatwin, queste preziose informazioni, utili ad accendere la sua curiosità adriatica. La seconda tappa di Kaplan non poteva essere che Ravenna, vicina geograficamente ma lontana nella sua aura bizantina. Ravenna che invita alla meditazione e che, soprattutto sotto la pioggia invernale “è la miglior alternativa a un monastero”. Ravenna che non è stata solo un semplice avamposto bizantino, ma una seconda Costantinopoli, importante militarmente e commercialmente, ma soprattutto come baluardo spirituale e culturale dell’Antica Roma.
E’ un viaggio lungo, nello spazio e nel tempo, quello raccontato da Kaplan, che tocca poi Venezia, Trieste e tante altre città della sponda orientale. Slovene, croate, montenegrine e albanesi, per concludersi a Corfù che oggi per i geografi non è più bagnata dall’Adriatico, ma da cui storicamente si controlla il suo ingresso. “L’isola di Corfù è e al tempo stesso non è la Grecia”, ma fin dai tempi antichi è stata contesa da chi voleva imporre la sua legge in Adriatico. I veneziani la tennero per secoli e la loro impronta è ancora vivissima. Corfù, riprendendo le parole di Kaplan, è insieme un registro e una meditazione della storia europea. Una storia in divenire, di cui l’Adriatico è un barometro sensibile. E se come si legge l’Europa non può permettersi il lusso di fingere che gli Stati tormentati slavi e albanesi non esistano, gli europei adriatici devono riscoprire una relazione con gli ambienti e le culture, entrambi al plurale. Perché l’Adriatico lo si può capire, e vivere appieno, solo se ci si rende conto e si accetta la sua pluralità.
L’Adriatico è un caleidoscopio: un infinito moltiplicatore di riflessi, un intricato garbuglio di genti, un variegato intreccio di paesaggi.
Ps
Per chiarezza voglio puntualizzare che ritengo la geografia un fatto imprescindibile, ancora oggi, anche per qualsiasi analisi sociologica e culturale, economica e politica. Credo all’ineluttabilità di un destino geografico. Un destino contro cui se necessario combattere, come si fa con le malattie e le alluvioni, con le epidemie e i terremoti. Un destino comunque incombente e di cui prendere coscienza, se lo si vuole affrontare, a volte accettandolo con piacere, altre contrastandolo con determinazione.
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