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A Sarajevo in 500, per la diplomazia dei Popoli

Nel dicembre ’92 la ‘Marcia dei 500’ pacifisti arriva a Sarajevo sotto assedio. Un viaggio simbolico che apre la strada a iniziative di aiuto alle popolazioni dei Balcani, reinventando la cooperazione e la solidarietà internazionale italiana. Alla Marcia partecipano anche rappresentanti istituzionali. Tra loro Gianfranco Bettin, allora deputato e oggi assessore al Comune di Venezia. Un’intervista

08/12/2011, Nicole Corritore -

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 C’è un’immagine che più di altre le è rimasta impressa della Marcia dei 500 a cui partecipò?

Difficile isolarne una, da un lato perché fu un’esperienza piena di immagini forti, dall’altra perché in seguito andai più volte a Sarajevo e in Bosnia e rischio di sovrapporle. Mi è rimasta impressa l’immagine di Monsignor Tonino Bello, vescovo di Molfetta, uno degli animatori della Marcia. Ricordo il suo viso, il suo modo di "stare" nella fragilità personale che si portava addosso e allo stesso tempo la sua capacità di vivere con serenità quella difficile situazione. Fu il suo ultimo viaggio, perché era malato e morì pochi mesi dopo. Oltre al suo viso sono scolpite nella mia memoria le parole che pronunciò in quei giorni. Parole in cui la Pace era al centro di tutto e disegnavano un altro mondo possibile.

Ricordo anche, alle porte di Sarajevo dove rimanemmo fermi per molto tempo, quando fummo ospitati e rifocillati da una famiglia che abitava in una casa contadina ed era un mix di appartenenze etnico-religiose. In quel frangente ci sembrava impossibile essere lì per una guerra che era stata scatenata, anche, per motivi di divisione tra etnie, mentre in quella casa eravamo testimoni della possibilità della convivenza.

Come partì l’iniziativa e cosa la spinse ad aderire?

Fu decisivo il ruolo di Don Albino Bizzotto e del gruppo dei Beati Costruttori di Pace di Padova, che lanciarono l’iniziativa e l’idea stessa della cosiddetta "diplomazia dei Popoli". Nelle assemblee regionali e di training nonviolenti, a cui ogni candidato dovette partecipare in preparazione al viaggio, le adesioni furono circa 1.500. In seguito, attraverso vari incontri tra ”gruppi di affinità", si arrivò al numero finale. Oltre a me, che ero deputato, c’erano altri parlamentari e rappresentanti istituzionali. Ad esempio, i parlamentari Chicco Crippa (Verdi), Martino Dorigo (PRC) ed Eugenio Melandri (deputato europeo) oltre ad assessori comunali e sindaci e l’importante presenza di due vescovi, Don Tonino Bello e Don Luigi Bettazzi.

Mi colpirono, al pari, l’audacia e il buon senso dell’iniziativa. Il fatto che un gruppo così numeroso di persone si muovesse scavalcando la distanza e le impervie difficoltà specifiche del viaggio, per "mettersi in mezzo". Per interporsi e dire a voce alta che eravamo per una soluzione dei contrasti diversa dalla guerra. Un’idea che oltretutto sperimentammo concretamente lungo il viaggio, in cui spesso incontrammo gente di diversa nazionalità o etnie che attraverso di noi, o insieme a noi, si parlava.

Fu difficile arrivare a Sarajevo. Ma le difficoltà iniziarono con la traversata in traghetto che salpò dal porto di Ancona il 7 dicembre del 1992…

Partimmo da Ancona la sera del 7 dicembre con il traghetto Liburnja. La traversata fu dura, perché si scatenò una burrasca con mare forza 7-8 e nella notte l’ANSA dette addirittura la notizia che eravamo dispersi… Arrivammo a Spalato con gran ritardo, mettendoci 24 ore anziché dieci, tutti molto scossi e provati per il mal di mare. Passammo la notte a Makarska e il giorno dopo ci avviammo verso il cuore della guerra. Incontrammo tutto ciò che era prevedibile: continui posti di blocco di eserciti e di gruppi paramilitari con i quali tenemmo lunghe trattative. La cosa importante però è che riuscimmo ad arrivare a Sarajevo.

La sera del 9 dicembre arrivaste a Kiseljak. Una lunga tappa forzata, dove avvenne un dibattito intenso tra voi. Ricorda i motivi e l’atmosfera?

Ci riunimmo in assemblea per affrontare la domanda se andare avanti o meno. Fu una discussione molto intensa, che oltretutto ressi con fatica perché avevo perso completamente la voce… Io sostenni la posizione di proseguire perché ritenevo che andare avanti fosse la "cifra" della missione. Eravamo arrivati fin lì inermi ed esposti ma anche sottoposti ad un rischio calcolato, perché proprio per l’audacia dell’azione intrapresa sapevamo di essere sotto le luci dei riflettori dei media. Inoltre, l’azzardo della Marcia era un po’ mitigato dal fatto che alle parti in guerra non conveniva macchiarsi di un’aggressione ai danni di chi veniva non solo disarmato, ma con le intenzioni migliori e senza calcoli politici di parte. Nella discussione prevalse quell’ipotesi e si decise di proseguire.

La giornata a Kiseljak fu un momento emblematico di ciò che stava accadendo. Da un lato avvenne una manifestazione, con la partecipazione dei cittadini che ci insegnarono una canzoncina per bambini. La portammo in Italia incisa su nastri di fortuna: la prima strofa dice "Mir, mir, mir do neba, do moga naroda, kada se probude da rata ne bude… " (Pace, Pace, Pace fino al cielo, fino al mio popolo, affinché al risveglio non trovi la guerra). Dall’altra, durante la notte di pernottamento tutt’intorno a noi continuarono gli spari e gli scontri armati.

Durante la sosta a Kiseljak riusciste a far capire che la vostra era un’iniziativa pacifica e vi permisero di entrare a Sarajevo. Come vi accolse la popolazione?

Sì, dopo diverse contrattazioni con i soldati e l’accordo che una delegazioni di 10 persone rimanessero a Kiseljak, partimmo per Sarajevo la sera dell’11 dicembre. Arrivammo in piena notte nei pressi del palazzo del Governo e fummo accolti da alcuni esponenti della città. Una delegazione, quella che fu a più alta intensità politico-istituzionale, partecipò subito ad un incontro istituzionale e ne feci parte in quanto deputato.

I sarajevesi mostrarono un misto di curiosità, di felice sorpresa, di amicizia e soprattutto di speranza. Come se la nostra presenza fosse il segnale del venire meno dell’indifferenza del mondo rispetto a ciò che stava accadendo. Al contempo creammo anche delle illusioni, perché la comunità internazionale continuò poi a restare inerme a lungo. Certo, noi non eravamo quella "comunità internazionale" ma l’espressione di un’altra comunità. Però agli occhi della popolazione eravamo pur sempre parte del mondo esterno, in cui confidava e immaginava li avrebbe aiutati a fermare la guerra.

Don Tonino Bello, Marcia dei 500 – © Mario Boccia

In quel giorno a Sarajevo facemmo una manifestazione per le strade della città. Fu molto intenso quando passammo sul luogo della strage del pane avvenuta in agosto: un pezzo di selciato costellato di buchi a forma di rosa creati dalle granate, dove tutta la gente si fermò e noi ci mettemmo in cerchio. Inoltre, sotto il potenziale tiro dei cecchini e delle granate che cadevano costanti pur con intensità minore rispetto agli altri giorni. Infatti, nelle ore in cui restammo lì era evidente la scelta di abbassare l’intensità del fuoco: una sorta di tregua non dichiarata ma sostanziale. La gente di Sarajevo era ugualmente nervosa ma si fermava a parlare con noi e abbracciarci, alcuni piangendo per l’emozione.

Altro momento di incontro con i cittadini fu l’assemblea che si tenne in una sala di fronte al Kino Teatar. I cittadini che parteciparono espressero le stesse emozioni della gente che avevamo incontrato per strada. Don Tonino Bello tenne un discorso toccante in cui ribadì che era possibile l’uso di strumenti pacifici per la risoluzione dei conflitti. La Marcia fu dunque una missione "general-generica", in nome della Pace e della diplomazia dei Popoli e contro la realpolitik fondata sull’uso del diritto internazionale basato sulla forza. Ma divenne anche motore di tante altre iniziative dai risultati molto concreti.

Aprì la strada a innumerevoli azioni, piccole o grandi, di solidarietà verso i Balcani che negli anni reinventarono la cooperazione e la solidarietà internazionale. Si parla di migliaia di persone che andarono sul posto, facendo piccole e grandi cose, interponendosi e tenendo fisso il punto del contrasto alla guerra, ma al contempo portando aiuto concreto. Dall’esperienza dei "postini", volontari italiani che portavano dentro e fuori da Sarajevo le lettere che altrimenti non sarebbero mai arrivate a destinazione, alla realizzazione di campagne di denuncia, progetti di protezione dei profughi e di aiuto umanitario con invio di medicinali e alimentari durante la guerra. E dopo la guerra, fino ai giorni nostri, di ricostruzione materiale e sociale.

Durante quell’assemblea Don Tonino Bello disse: "…Siamo qui, allineati sulla grande idea della nonviolenza attiva (…). Gli eserciti di domani saranno questi: uomini disarmati. Abbiamo sperimentato che ci sono alternative alle logiche della violenza…". Lei è riuscito, nel suo ruolo istituzionale, e riesce a portare avanti questi valori anche oggi in un momento di crisi internazionale, economica e di coesione sociale?

Dopo la Marcia il Comune di Venezia si gemellò con Sarajevo e ospitammo più di un sindaco, tra quelli che seguirono. Avviammo dei progetti di cooperazione durante e  dopo la guerra. Io stesso andai diverse volte a Sarajevo sotto assedio e continuai nel mio impegno anche quando non mi ricandidai più a parlamentare ma nell’amministrazione della città di Venezia. In questo ruolo promossi il gemellaggio e la partnership tra le due città.

E’ in questo ambito che nacque il Centro Pace come uno degli esiti concreti di intervento del Comune a seguito dell’iniziativa del dicembre ’92. Il Centro era, ed è, uno degli strumenti di difesa e di promozione della pace, assieme alla cooperazione e alle iniziative di solidarietà nei Balcani e altrove nel mondo che abbiamo in essere. Stiamo tentando di tenere viva quella visione… ci sono momenti in cui si riesce di più, altri di meno. Il nostro tempo è uno di quelli in cui si rischia di perderla di vista, perché la crisi morde ferocemente ed è forte la tendenza a porre in secondo piano il tema della pace. Lo percepiamo e cerchiamo di evitarlo e di difenderlo, con le attività del Centro Pace ma in generale nelle politiche di cooperazione.

Si deve continuare a porre la pace come questione né marginale né di "lusso" – e dunque di senso solo in epoche di vacche grasse – ma come elemento fondante delle politiche di una città, qualunque sia il tempo in cui viviamo. Anzi, è ancora più importante oggi, in cui la crisi tende a moltiplicare i conflitti invece di accompagnarli fino alla rielaborazione, con il rischio che si trasformino in una guerra o un duro scontro sociale piuttosto che in confronto e dialogo.

Questa questione deve essere pubblicamente affrontata e analizzata, affinché si capisca che non è un tema, come anche quello ambientale o energetico, a cui la gente non pensa perché ha il problema delle tasse, del carovita, del lavoro… E’ centrale oggi, come in altri tempi di conflitto e difficoltà, per costruire una società di pace e per prevenire derive pericolose nelle nostre società in crisi.

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