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1914-2014: un’altra Bosnia per un’altra Europa

Oggi come ieri, quelli che pretendono di conoscere la sostanza degli avvenimenti e negano la possibilità di emancipazione sbagliano, in particolare in Bosnia Erzegovina. Commento e analisi dell’attuale crisi bosniaca

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Il riscaldamento climatico non c’entra nulla con la “primavera bosniaca”. La crisi che sta mandando in cancrena questo paese da più di dieci anni sta semplicemente cambiando stagione. Si tratta di manifestazioni di strada e, soprattutto, del fiorire di forum cittadini autogestiti organizzati quotidianamente a Sarajevo e Tuzla, dove il movimento è partito.

Ironia della sorte: il ritorno in forza della tradizione dell’autogestione (jugoslava) mette sotto scacco sia i partiti nazionalisti che i molteplici programmi occidentali di sviluppo della “società civile” che hanno, nel migliore dei casi, creato delle “aziende delocalizzate” — chiamate anche ONG —che rappresentano spesso la sola possibilità d’ascesa sociale al di fuori  del clientelismo locale.

Di fronte all’ampiezza del movimento sociale, gli esperti che avevano affermato ripetutamente l’inesistenza della società civile possono ritornare in aula.

Si comprende meglio quello che s’annuncia ora come un nuovo movimento sociale se si ricorda l’ampiezza del movimento pacifista dell’aprile 1992 e poi, durante la guerra, l’esperienza del Forum cittadino di Tuzla, capace di mobilitare circa 10.000 cittadini in azioni di solidarietà.

Questo stesso forum sarà la colonna portante del Parlamento alternativo cittadino (GAP) della Bosnia, fondato nell’agosto del 1996, capace di federare a livello nazionale più di trenta iniziative cittadine. Nell’ormai lontano 1996, il Centro giuridico di Sarajevo avviò un processo di rivisitazione critica degli Accordi di Dayton i quali si pensava — allora — sarebbero stati rapidamente emendati, cambiati o addirittura cancellati.

Quando le prime elezioni confermarono il potere dei partiti nazionalisti, le forze d’opposizione formarono in più occasioni dei “governi ombra” che avrebbero portato al governo nel gennaio 2001 la – purtroppo troppo fragile – “Alleanza per il cambiamento”. Ci fermiamo qui nell’elencazione di queste iniziative, di cui siamo stati testimoni, concepite e portate avanti dagli attivisti bosniaci.

Questo potenziale di esperienza e di impegno degli attori locali non ha mai avuto la forza sufficiente a rivaleggiare con il potere delle élites — più corrotte che nazionaliste — che hanno sempre giocato con la presenza e il sostegno di una comunità internazionale tanto ingenua quanto consenziente.

Oggi, evidentemente, il clientelismo ha il fiato corto e da qui l’emergere di una virulenta critica alla corruzione dell’insieme della classe politica — indipendentemente dallo stampo o dal riferimento geografico o comunitario. 

Ma, questione ancora più importante, è l’architettura politica del paese — immaginata a Ginevra e negoziata a Dayton nel 1995 — che sembra sul punto d’affondare. Ne vengono così colpiti, certo, l’insieme della classe politica ma anche l’apparato statale ai suoi diversi livelli (nazionale, delle sue due entità e dei 10 cantoni della Federazione), corpo diplomatico compreso. Non si dirà nulla qui del mondo accademico o di quello della sanità ai quali si applicano le medesime constatazioni.

Di questa situazione precaria la “comunità internazionale” è tanto responsabile quanto gli attori locali. Non solo il “trapianto dello Stato” non ha funzionato, ma a forza di iniziative maldestre (l’ultima della serie è stato il “Pacchetto Butmir” nel 2010) tanto Washington che Bruxelles hanno contribuito a spingere il paese in una situazione kafkiana. Il processo di integrazione con l’Unione europea è ad un punto morto da più di un decennio e svela la triste realtà della mancanza di un desiderio… d’Europa e delle riforme che implica.

A quelli che sostengono ancora e sempre che il cambiamento deve arrivare dall’esterno, che deve essere imposto, e che non hanno ancora capito che la democrazia non si impone dall’estero, rispondiamo che un’altra via, che privilegia in modo risoluto un ancoraggio locale, è possibile.

La Bosnia ha fatto l’esperienza, pur mantenendo presenti le dovute proporzioni, delle tavole rotonde di Danzica. Così come, a seguito della creazione del Forum di partenariato (con i politici) e del Forum civico nel luglio 2001, da parte dell’Alto Rappresentante dell’epoca, quest’ultimo ha potuto lanciare il processo di riforma della costituzione tanto della Federazione che della Republika Srpska che ha portato, il 27 marzo del 2002, all’Accordo di Sarajevo-Mrakovica.

In questo processo negoziale, che ha coinvolto esperti e figure di rilievo della società civile, gli attori locali erano alla guida e solo qualche raro esperto internazionale ha accompagnato il processo. In modo simile altri accordi rilevanti sono stati ottenuti nello stesso modo, si pensi alla riforma dell’esercito o allo statuto del distretto di Brčko.

E’ però certo che ora la questione è di ben diversa dimensione. Ormai è inevitabile arrivare ad una riforma completa degli Accordi di Dayton e questo implica non solo la scrittura di una nuova costituzione ma anche di una nuova architettura istituzionale che, allo stesso tempo, rinforzi le competenze centrali dello stato e introduca una decentralizzazione intelligente a livello di regioni da creare – e questo implica la fine di un paese suddiviso in due Entità tanto disfunzionali che esangui, e la fine dei dieci cantoni di una Federazione in fallimento dal 2003.

Nonostante solo ora l’evidenza si imponga allo sguardo, gli esperti bosniaci hanno già regolarmente formulato e discusso iniziative in questo senso fin dal 1996, ma la “comunità internazionale” si è fino ad ora rifiutata di aprire “il vaso di Pandora”. Dimostrando con ciò tutta l’ignoranza sia del significato profondo del mito che della politica – in questo i diplomatici occidentali si sono dimessi prima dei politici in Bosnia che dovrebbero farlo adesso.

Cambiare sì, ma come? Ricordiamoci l’appello per una Dayton 2 lanciato dall’ex presidente della Slovenia Milan Kučan in un libro che abbiamo pubblicato nel 2007, scritto assieme all’europarlamentare Hannes Swoboda  (Conflict and Renewal: Europe Transformed): Kučan formulò l’idea di una Dayton 2 sotto l’egida dei paesi coinvolti (Croazia, Bosnia e Serbia)  con i rappresentanti della comunità internazionale come osservatori. Un tale scenario ha il merito di superare l’alternativa tra un’imposizione esterna e una soluzione interna e di formulare in modo adeguato un partenariato che dia un ruolo preciso a ciascuna parte coinvolta.

Menzioniamo, per completezza, anche che il Centro per il diritto pubblico di Sarajevo ha avviato, dal 2012, un dibattito pubblico di livello nazionale attorno a 13 tesi per permettere di raggiungere un consensus in vista della formulazione di una nuova costituzione. L’esperienza e l’intelligenza sono quindi ben presenti in Bosnia per evitare il disastro di una nuova costituzione made in USA.

Si può quindi legittimamente sperare in un’alleanza tra, da una parte gli esperti locali e, dall’altra, le forze civiche che stanno occupando intelligentemente lo spazio pubblico – e qui ci riferiamo al Plenum di Tuzla che è divenuto uno spazio di parola libero da ogni divieto, censura e influenza, e che sta pesando con tutta la sua influenza sulla nomenklatura. 

Questo movimento sociale fa uscire la Bosnia da uno stato d’impotenza e libera nuove possibilità. Detto questo, un’altra Bosnia ha bisogno di un’altra Europa, se Bruxelles non vuole rischiare di trovarsi in futuro a Sarajevo nelle stesse condizioni in cui ora si trova a Kiev.

*Wolfgang Petritsch, ex Alto Rappresentante in Bosnia, insegna attualmente all’Università di Harvard (Cambridge, MA)

*Christophe Solioz, autore e politologo. In corso di pubblicazione: Psychanalyse engagée, entre dissidence et orthodoxie, Editions L’Harmattan, 2014  

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