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Kossovo: cinque anni dopo…

Gli incidenti di queste ore in Kossovo vengono da lontano. E il bombardamento Nato iniziato il 24 marzo 1999 non ne è estraneo. Un commento dell’Osservatorio sui Balcani.

18/03/2004, Redazione -

Kossovo-cinque-anni-dopo

Era il 24 marzo 1999 quando le bombe della Nato iniziavano a cadere su quella che allora si chiamava ancora Jugoslavia, la Serbia e Montenegro di oggi. L’illusione venduta al mondo era che il nodo kossovaro – un conflitto intricato tra la maggioranza albanese della provincia e la minoranza serba appoggiata da Belgrado, che durava da almeno dieci anni, seppure con un basso livello di violenza manifesta – si potesse tagliare con un colpo secco. E furono quasi tre mesi di bombe. Bombe sulle infrastrutture militari e su quelle civili. Bombe sulle città e perfino bombe sulle industrie chimiche, con effetti ambientali diffusi inimmaginabili. Tutto questo per ottenere cosa?

A cinque anni di distanza, e davanti alle immagini che da ieri ci stanno arrivando dal Kossovo, è una domanda che mi continua ad inquietare. Ho visto il Kossovo nel 1996, ed era una situazione insostenibile. La stragrande maggioranza della popolazione albanese nella provincia viveva sotto continue discriminazioni, e un muro tanto invisibile quanto invalicabile la separava dalla minoranza serba e dalle istituzioni governative da questa controllate. Ma vedo il Kossovo di oggi, e mi chiedo se la "liberazione" del 1999 non sia stata semplicemente uno scambio delle parti. Un tragico giro di valzer, con Nato e Onu a far da comparse…
E’ significativo probabilmente che questi scontri violentissimi, casuali o premeditati che siano, avvengano pochi giorni dopo il riavvio del dialogo formale tra serbi e albanesi. Un dialogo vero che porti ad un eventuale compromesso sullo status finale della provincia – evidentemente diverso dall’indipendenza piena e assoluta, che nessuna istituzione internazionale potrà mai sostenere – sarebbe per la parte più estremista di ciascuno dei due gruppi nazionali la fine dell’illusione. L’illusione dell’indipendenza, per gli albano-kossovari. L’illusione del ritorno a Belgrado, per i serbo-kossovari.

E assieme all’illusione nazionalista, per gli estremisti sparirebbe anche l’arma principale di controllo politico-mafioso sulla propria popolazione: la paura. La paura dell’altro, lo stato di tensione e di emergenza continua sono gli alleati voluti e cercati dai Signori del Kossovo, oggi come nel 1996 e prima. Perché sogni e soldi, nei Balcani come altrove, non sono mai disgiunti.
Dunque dietro allo scoppio di violenza albanese nell’intera provincia – cui fa da contraltare la violenza dei serbi a Belgrado, Nis e altrove – non c’è solo l’incidente dei ragazzini di Mitrovica. E nemmeno solo le ultime settimane di tensione crescente, con un omicidio poco chiaro a Pristina, la bomba disinnescata davanti al quartier generale dell’ONU o la granata contro l’abitazione di Rugova. Dietro a tutto ciò c’è un enorme fallimento. E’ il fallimento di chi il 24 marzo 1999 pensava con le bombe di recidere un nodo, e in realtà lo rendeva ancor più tremendamente intricato…

E’ il fallimento di chi, in testa l’allora Segretario di Stato USA Madeleine Allbright, ha pensato bene di scaricare, dopo anni di sostegno almeno verbale, la leadership moderata albanese di Rugova per dialogare con gli estremisti dell’UCK – passati nel giro di un solo giorno, nel giugno 1998, da "terroristi" a "combattenti per la libertà".
E’ il fallimento di chi non ha creduto nel ruolo della mediazione politica e della presenza di monitor efficaci sul campo, boicottando la missione dei verificatori OSCE avviata nell’ottobre 1998 e inscenando la farsa dei colloqui di Rambouillet all’inizio del 1999. Ed è il fallimento di chi ha voluto la guerra contro Milosevic, per l’incapacità di pensare altre strade quando non per mere ragioni di interesse proprio. Nella scelta dell’amministrazione Clinton prima e della Nato poi di bombardare la Jugoslavia c’erano infatti ragioni di leadership interna, di divisione dell’Europa, di riposizionamento della Nato e altre ancora, seppur mascherate dietro lo slogan di un intervento umanitario.

E’, infine, il fallimento di chi in cinque anni non ha saputo ricostruire condizioni minime di civiltà in Kossovo. Su un territorio grande quanto l’Abruzzo si sono riversate in pochissimo tempo risorse ingentissime. E l’affare della ricostruzione, per il sistema umanitario internazionale come per le mafie locali, è stato grande. Ma cosa ha prodotto? Tante case, tante infrastrutture (ma ancora oggi in molte zone la corrente elettrica manca per alcune ore al giorno…), e poi?
Né i soldi né il tempo guariscono le ferite di una guerra. Altre sono le cose necessarie: anzitutto, una visione politica di prospettiva e un mandato chiaro agli amministratori internazionali. Che non vuol dire pensare una soluzione preconfezionata sul futuro della Provincia, ma avere la capacità di avviare un percorso di dialogo ampio e sostenibile.
Serve poi una ricostituzione di anticorpi democratici – associazionismo sociale, ceto politico nuovo, categorie economiche sane, media indipendenti… – che superino il nazionalismo e l’estremismo in entrambi i gruppi nazionali. E serve infine un lavoro di elaborazione su ciò che è stato ed è il conflitto. Elaborazione che passa per il racconto e la memoria di quanto accaduto, necessariamente diversi tra le due comunità ma non per questo incompatibili. Senza affrontare nel profondo l’orrore della violenza che è stata, non si può pensare di cancellarne gli effetti di paura e di odio, né sperare che prima o poi essa non generi nuova violenza.
Invece tutto questo è mancato in Kossovo. Da un lato la comunità internazionale in generale e l’UNMIK in particolare – la missione delle Nazioni Unite che amministra la Provincia – non hanno saputo avviare un percorso politico chiaro per definire il futuro di questa terra. Dall’altro i moltissimi interventi di aiuto umanitario e di ricostruzione, governativi e non governativi che fossero, hanno pensato – tranne lodevoli eccezioni – più ai muri delle case che ai vissuti e ai sentimenti di chi le doveva abitare. E così, quel nodo che si voleva tagliare si è stretto ancora di più.

Mi piacerebbe riflettessero, davanti alle immagini dal Kossovo di oggi, quanti hanno approvato quelle bombe di cinque anni fa. Che sono poi sorelle delle bombe lanciate in Iraq l’anno scorso. Altro nodo, altro tragico intrico…

M. C.

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