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Tag: Minoranze

Area: Kosovo

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Kossovo anno zero

Due popoli in prigione: gli albanesi nei confini della Serbia, i serbi nelle enclaves. Viaggio alla ricerca di una convivenza perduta. Riprendiamo un articolo pubblicato sul settimanale Sudtiroler Wochenmagazine.

09/03/2004, Redazione -

Kossovo-anno-zero

Di Riccardo Dello Sbarba

A Innsbruck, il taxista che mi porta all’aeroporto è di Banja Luka, Repubblica Srpska di Bosnia. "Kosovo? Nur Scheiße" Nemmeno lo scopo del mio viaggio lo smuove: preparare un gruppo di giovani giornalisti all’informazione interetnica. "Quatsch. Kosovo ist nur Krieg, immer Krieg".

A Vienna, una fila di tute mimetiche attende l’imbarco per Pristina: americani, norvegesi. C’è un diplomatico inglese tipo Camera dei Lord con segretaria che pare Vanessa Redgrave. E poi funzionari Unmik, l’amministrazione civile dell’Onu.
Quando l’aereo esce dalle nuvole, il Kosovo è tutto sotto di noi: due milioni di abitanti, un’unica grande pianura circondata di monti. Pristina è nascosta sotto l’enorme nuvola rossa della "Kek", la sola centrale elettrica del paese. Sei camini che fumano, tutti a carbone.

Fuori dall’isola di cemento dell’aeroporto, la pianura è un’interminabile distesa di fango. L’acqua abbonda e le terre basse sono acquitrino. Le strade sterrate sono un pantano, le poche asfaltate sono così malridotte che basta una leggera pendenza perché la melma le invada. Siamo a Kosovo Polje, la "piana dei merli": qui nel giugno del 1389 la mezzaluna turca sconfisse la croce balcanica e s’aprì la via dell’Europa. Qui, nel giugno del 1989, seicento anni dopo, Slobodan Milosevic riunì un milione di serbi e lanciò la pulizia etnica contro gli albanesi. Sul cartello stradale che indica la "santa pianura", il nome in serbo è stato cancellato. La superstite dizione "Fush Kosova" annuncia la rivincita albanese.
Il ristorante fuori dall’aeroporto si chiama "Motel Aviano", la base italiana da cui partivano i bombardamenti Nato sulla Serbia. A Pristina l’arteria principale è stata ribattezzata "Viale Bill Clinton" con tanto di gigantografia appesa a un palazzo. Gratitudine dell’immediato dopoguerra. Durata poco. Dopo la caduta di Milosevic, l’Occidente si è riconciliato con la Belgrado di Kostunica e Pristina ora non si fida più di nessuno. I negoziati sul futuro assetto del Kosovo non partono, mentre il circo bellico, dopo l’11 settembre, si è spostato in Afganistan e Iraq.

La guerra va altrove, i finanziamenti seguono la guerra, gli aiuti e le organizzazioni umanitarie seguono i finanziamenti. Nella zona di Pec-Peja, la seconda città del paese, che è la mia meta, di 80 organizzazioni non governative che c’erano, ne sono rimaste dieci. Tra cui il "Tavolo Trentino con il Kosovo", coordinamento di una dozzina di associazioni di volontariato sostenute dalla provincia di Trento.
Mauro Barisone è il coordinatore locale del "Tavolo". Con lui lavora Agron, kosovaro che ha fatto dieci anni d’esilio. Una sera del 1989 fu bastonato e arrestato dalla polizia serba perché era per strada con altri due amici. Allora tre albanesi insieme venivano già considerati un "gruppo di terroristi". Così Agron scappò. Dieci anni dopo, quando Milosevic decise di fare terra bruciata, anche la sua casa fu data alle fiamme. I macellai lavoravano metodicamente: una granata al fosforo in ogni casa e poi via, alla prossima. In pochi giorni centinaia di villaggi furono un unico rogo. Poi il destino s’invertì, i serbi si ritirarono sotto le bombe della Nato e allora toccò agli albanesi bruciare le loro case. Si salvò solo il centro di Pristina, dove la popolazione era mescolata. L’albanese in fuga lasciava la chiave al vicino serbo dicendo: "Bada alla mia casa". Poi toccò al serbo scappare e all’albanese badare.

Gi albanesi tornarono scortati dagli "internazionali" – così si chiamano i soldati della Kfor, i civili della Unmik e dell’Osce e i volontari stranieri. E con gli "internazionali", arrivò in Kosovo una parola che non c’era mai stata: "etnico". E il suo corollario: "multietnico". Termini usati soprattutto dagli americani. Gli albanesi diventarono un "gruppo etnico", i serbi idem. Le iniziative sostenute da Unmik e Osce sono preferibilmente "multietniche". Agron ride: "Prima eravamo tutti jugoslavi". Adesso non più. Adesso i pochi serbi rimasti (15 mila sui 200 mila di prima della guerra) vivono rinchiusi in enclaves protette dalla Kfor, l’esercito internazionale.

Cimiteri e bazar

La strada da Pristina a Pec-Peja è costellata di villaggi. Quelli albanesi hanno le case ricostruite, ma solo a metà. L’intonaco manca. Si vedono i mattoni rossi e le travi di cemento. Molte non hanno ancora il tetto. E c’è anche chi ha approfittato per aggiungere diversi piani all’edificio originale. Tutto è ancora provvisorio. E piuttosto traballante.I villaggi serbi, invece, sono scheletri anneriti. Le case sono state bruciate, poi derubate dei mattoni buoni, infine trasformate in discarica di rifiuti. A Drenovac si vedono le macerie d’una chiesa ortodossa fatta saltare in aria. Dei bambini smontano le pietre squadrate di una antica casa di contadini serbi.

Questa era la roccaforte dell’Uck e qui ha infuriato la macelleria serba. La campagna è un immenso cimitero. I corpi sembrano sepolti dove sono caduti. Tombe ovunque, sui prati, nei boschi. Centinaia di tumuli segnati da una lapide a punta, da un bastone, dal semplice mucchio di terra. Civili albanesi, profughi mitragliati nella fuga, donne, vecchi, bambini.Sulle tombe dei combattenti dell’Uck grandi lapidi nere ritraggono a grandezza naturale il morto in uniforme, col mitra in mano e la faccia da ragazzo. Accanto a queste "tombe degli eroi" è issata la bandiera rossa kosovara con l’aquila bicipite. Il sangue segna il suolo. Su una collina un grande monumento ricopre una fossa comune. Anche qui sventola l’aquila.
All’ingresso di Pec-Peja, capitale della provincia di Methoija, i capannoni della fabbrica d’auto Zastava sono desolati. Ci lavoravano tremila operai, la guerra l’ha devastata e non ha più riaperto. L’economia kosovara è ferma, la disoccupazione sfiora l’80%. L’unico lavoro ben pagato lo fa chi opera per gli "internazionali": interpreti, funzionari, impiegati, agenti della polizia che girano in pattuglie miste con la Kfor. I prodotti essenziali per la vita quotidiana di tutto il Kosovo (benzina, caffè, latte, sigarette, cancelleria, radio, Tv, telefonia mobile, edilizia, assicurazioni) sono nelle mani di quattro clan di affaristi.
Nella piazza centrale, il palazzo che ospitava la Banca jugoslava è diventato il quartier generale dell’Unmik. I fondi esteri per la ricostruzione sono il grande bottino da spartirsi. Il resto è commercio senza regole: ogni buco diventa un negozio. Ma pochi vendono e pochi comprano. I proprietari se ne stanno lì, dal mattino fino a notte, da soli. A ogni passo c’è un bar. Quasi tutti vuoti. Chi non ha di meglio da fare, apre una farmacia. Nel centro di Pec-Peja ce ne sono un centinaio, in alcune strade una ogni cinquanta metri. Non sono richieste licenze. Coprono il traffico di farmaci che fiorisce sempre nelle zone di guerra. O traffici peggiori.

Poco fuori città, gli alpini della "Julia" si sono costruiti un’enorme cittadella bianca che occupa mezza collina: il "villaggio Italia". Non è il solo, né il più grande. Nel sud del Kosovo gli americani hanno costruito la base più vasta d’Europa. Vicino a Pristina, gli inglesi hanno scavato decine di bunker sotterranei. I locali temono che diventino la discarica nucleare dell’Occidente. Non sono basi provvisorie. "A Cipro andammo nel 1974 e ci siamo ancora" è solito rispondere il comandante del "villaggio Italia" a chi gli chiede quanto durerà.

Giornali di guerra

Il centro giovanile interetnico "Zoom", messo in piedi dal "Tavolo Trentino", è nel centro di Pec-Peja. Qui si tiene la nostra "scuola di giornalismo". Tra chi la frequenta, qualcuno lavora in Tv, altri in radio, un gruppo edita un periodico illustrato, un ragazzo è corrispondente dell’agenzia ufficiale di stampa. I giornali kosovari hanno la grafica gridata della Bild Zeitung, ma parlano tutti e solo di politica. I lettori vengono mantenuti in uno stato di mobilitazione permanente. E la distinzione tra "noi" e "loro" è il tema fondamentale.A "loro", ieri, è successo qualcosa. Nella enclave di Staro Gracko, vicino a Pristina, due serbi usciti senza scorta armata sono stati uccisi. Da sconosciuti. Fatto grave, ma solo il piccolo "Zëri" (diecimila copie di tiratura) ha il coraggio di portarla in prima pagina. Nemmeno una parola invece sul "Bota Sot", il primo giornale del Kosovo vicino al partito del premier Rugova. Che in prima pagina pubblica invece – proprio oggi! – un violento articolo contro gli insegnanti serbi che, pagati dal ministero dell’istruzione kosovaro, fanno ancora lezione "alla serba".

"Vi fidate di questo giornale?" chiedo ai miei giovani giornalisti. "Solo dell’oroscopo" ironizza Idriz, il corrispondente. I vecchi giornalisti di regime, spiega, non sono scomparsi, hanno solo cambiato padrone. E chi tenta un giornalismo d’inchiesta, sbatte contro un muro di gomma. "E’ vietato indagare sull’uso dei fondi dell’Unmik – protesta Idriz – Qui arrivano centinaia di milioni di euro all’anno da tutto il mondo, ma dove finiscono?".Già, dove finiscono i soldi? La domanda di Idriz mi torna in mente alla sera, quando d’improvviso la città cade nel buio. E’ lo scherzo quotidiano che ci fa la Kek, la centrale che sparge fumo di carbone su Pristina. Ogni sera sospende la corrente per almeno tre ore. Non marcia, sebbene gli "internazionali" ci abbiano speso una fortuna. Nel 2002 il funzionario Unmik responsabile dell’impianto, un tedesco, è stato messo agli arresti domiciliari con l’accusa di aver fatto sparire 8 milioni di euro. In compenso, la centrale manda agli utenti bollette stratosferiche di 600 euro al mese, quando lo stipendio di un professore universitario è di 240. Nessuno paga, quelli della Kek lo sanno e non insistono. Idem per le tasse. Ogni sera, quando la città sprofonda nel buio, il "villaggio Italia" risplende illuminato a giorno. Alla alpini la corrente non manca mai.

I serbi dell’enclave

Al centro "Zoom" alcune sedie sono vuote. Fino ad agosto erano occupate da un gruppo di giovani serbi provenienti dalla vicina enclave di Gorazdevac, 880 anime isolate dal resto del mondo dal cordone protettivo della Kfor. Lo "Zoom" era l’unico spazio di libertà: i giovani serbi arrivavano accompagnati da Mauro e Agron. "Finché siete con noi – dicevano loro i ragazzi albanesi – nessuno può farvi del male". Hanno fatto anche una settimana bianca insieme. Al ritorno, scendendo a Gorazdevac, i serbi hanno detto: "Ora ce ne torniamo in prigione". E gli albanesi: "Noi ci siamo stati per dieci anni". Se lo dicevano con la bocca sorridente e le lacrime agli occhi.
Tutto questo prima di agosto. Perché il 13 agosto c’è stato "l’incidente" (così chiamano qui gli episodi di una guerra civile strisciante). Un gruppo di ragazzi e ragazze dell’enclave stavano facendo il bagno nel vicino torrente Bistrica, quando da un boschetto qualcuno ha aperto il fuoco su di loro. Due lunghe raffiche di Kalashnikov. Pantelija di 11 anni e Ivan di 20, uno degli animatori dello "Zoom", sono rimasti uccisi. Altri quattro sono stati gravemente feriti. I ragazzi albanesi hanno chiuso il centro giovanile per tre giorni, in segno di lutto. Volevano partecipare al funerale, ma il villaggio non li ha voluti. Da allora, più nessun serbo è uscito dall’enclave. Chi fraternizza con gli albanesi è un traditore.
Dunque, alla sera ci spostiamo noi "internazionali" a Gorazdevac. Il paese è costruito per un paio di chilometri lungo una strada sterrata fradicia di fango, ai cui lati si accumulano le immondizie che nessuno, dalla città, viene più a prendere. La scuola, invece, c’è: 25 insegnanti si sono trasferiti lì dalle zone ex miste e garantiscono elementari medie e superiori. All’inizio e alla fine del paese ci sono due cimiteri. Uno ha la bandiera serba: anche qui riposano "eroi", ma di una guerra perduta. Prima dei cimiteri ci sono i check point della Kfor. Blindati e sacchi di sabbia. Uno è un’ex fabbrica di scarpe. Ci lavoravano 400 operai, serbi e albanesi insieme. La guerra l’ha chiusa.
I ragazzi serbi sono a casa di Fabrizio Bettini, un altro volontario trentino (di Rovereto) che si è istallato a Gorazdevac dopo le uccisioni di agosto. E’ stata una scelta: Fabrizio qui e Mauro a Peja sono l’unico ponte tra due comunità che non si parlano più. Fabrizio fa da scudo umano. Finché lui è con noi, dice la gente al villaggio, non ci accadranno brutte cose.

Arsenije è alto, biondo, forte, esuberante. E’ il leader dei giovani di Gorazdevac. Di albanesi non ne vuol più sapere. Rifiuta di parlare la loro lingua. "Qui siamo in Serbia – dice – e si deve parlare serbo". E’ sicuro: prima o poi, "quelli là se ne torneranno in Albania, da dove sono venuti. Noi serbi qui c’eravamo da sempre". Stasera Arsenije è su di giri: "Dai, andiamo al pub". Paga lui. Stasera va bene. Certi giorni, invece, i serbi di Gorazdevac non hanno nemmeno la forza di alzarsi dal letto. La depressione è la malattia più diffusa nel villaggio.
Il "pub" è nella piazza del paese, ricavato nella cantina della palazzina dell’Unmik. Due stanzette, luci fioche, un piccolo bar che serve birra, la musica ad altissimo volume, i sacchetti di sabbia alle finestre. Tutti fumano, bevono, pochi parlano. L’aria è irrespirabile. Prigionieri in un bunker, prigionieri in un’enclave di due chilometri quadrati, prigionieri in un Kosovo che non è più loro. "La paura? – dice Arsenije – Non so più che cosa sia".

Monasteri e moschee

Questa è la zona dei grandi monasteri ortodossi che un dio dispettoso ha voluto distribuire proprio in terra albanese. E il più importante dei monasteri serbi, il patriarcato, è proprio a Pec-Peja (noi continuiamo a usare entrambi i nomi, ma: "Pec!", ci correggono i serbi; e "Peja!" ci correggono gli albanesi).
Qui, nella antica cattedrale trecentesca, viene incoronato il patriarca di Belgrado. Il complesso è difeso da un muro, circondato dalle garitte degli alpini italiani che ostruiscono la strada per la Val Rugova, le alpi albanesi e il Montenegro. Dentro le mura, il tempo si è fermato. Un torrente si allarga in vasche dove le monache allevano una rara specie di trota nera. Nella cattedrale del Duecento sono esposti crocefissi e icone bruciacchiate provenienti da tutto il Kosovo, messe in salvo – dice il cartello – "dalle distruzioni dei barbari". I patriarchi del medioevo ci guardano dagli affreschi d’oro delle pareti. Da secoli fanno barriera alla "minaccia musulmana".

Ma a Peja c’è anche la grande moschea del Cinquecento, un gioiello d’arte araba, con le cupole, le decorazioni in azzurro e l’alto minareto. Ilir, il mio interprete, non manca mai alla grande preghiera del venerdì. "Noi albanesi eravamo qui prima dei serbi – mi spiega – Ogni anno festeggiano Kosovo Polje, cioè una sconfitta. Pensa che gente". Per anni, Ilir ha dovuto frequentare le scuole clandestine, perché i serbi vietavano l’insegnamento in albanese. Si vanta di non essere mai stato amico d’un serbo. Poi gli hanno bruciato la casa. Tutto è andato in fumo: libri, ricordi. E’ stato profugo due anni in Albania. Quando è tornato era tabula rasa. E il vuoto l’ha colmato imparando forsennatamente le lingue: l’italiano, che gli serve per lavorare da interprete. E l’arabo, che gli serve per crescere d’importanza alla moschea. La maggior parte degli albanesi non capisce nulla del Corano e dei riti. Ma non lui: già otto sure si è imparato a memoria il bravo Ilir. Tra poco, potrà sostituire l’imam nella guida della preghiera.
Il muezzin intona la nenia per chiamare i fedeli. Nella moschea si ripetono i gesti millenari: il lavaggio di piedi e mani, le due mani alla faccia per isolarsi dal mondo, la posa in ginocchio come nel giorno del giudizio, la faccia a terra per essere vicini a dio.
Fuori dalla moschea, il bazar sta chiudendo. Sul palazzo con la bandiera rossa e l’aquila nera c’è la sala del bingo, dove una macchina soffia in aria le palline ed estrae i numeri. Tutti maschi: sia al bingo che dentro la moschea. Fuori bruciano i mucchi di spazzatura. Un gruppo di uomini sotto un portico traffica in materiale elettronico. Passa la jeep della polizia e il gruppo si dilegua. Di lato, tre case serbe diroccate ricevono la loro razione quotidiana di rifiuti. Lungo la strada sterrata, i proprietari delle bancarelle scavano canali per far scorrere l’acqua che ristagna.

Ci vuole pazienza

L’ultima sera la città è deserta. E’ sabato e a Peja c’è l’incontro di pallacanestro contro la squadra di Pristina. E’ lo sport più seguito e questo è il derby dell’anno. Meglio stare alla larga: qui di solito le partite finiscono a botte. Mangiamo nel miglior ristorante, quello che quasi nessun kosovaro può permettersi. Il conto: 8 euro e mezzo a testa.
La domenica si parte per Pristina. Appena fuori Peja un blindato degli alpini messo per traverso blocca la strada principale. Non si passa. "Novità?" No, solo "un incidente". Di lontano si vede una jeep a ruote all’aria in un fosso. Dobbiamo fare il giro attraverso gli sterrati ed il fango. Ci vuole pazienza, in questo paese.
Sull’aereo incontro la Vanessa Redgrave dell’andata. E’ sola, il Lord è rimasto a terra. Per i negoziatori è un momentaccio. I kosovari hanno proclamato il 2005 come anno dell’indipendenza, ma gli "internazionali" insistono su un’autonomia, o una federazione, che nessuno, a Pristina, è disposto ad accettare. La polveriera Kosovo potrebbe riesplodere. Speriamo di no. Prima di partire, Mauro mi ha raccontato che in una zona a sud tra villaggi serbi e albanesi non esistono posti di blocco Kfor e la gente convive bene. Speriamo. Sì, speriamo bene.
Mentre voliamo sull’Adriatico, l’Ansa batte la seguente notizia dai Balcani:
"PRISTINA – Il Ministro del governo provvisorio del Kosovo per l’ambiente Ethem Cheku ed altre 4 persone sono rimaste gravemente ferite per l’esplosione di un veicolo sabato notte a Pec-Peja. Ceku è membro del terzo partito albanese, l’Alleanza per l’avvenire, guidato da uno degli ex leader guerriglieri, Ramush Haradinaj. L’attentato è avvenuto alla fine della partita di pallacanestro tra Peja e Pristina a cui il ministro aveva assistito".

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