Kosovo, un anno difficile alle porte
Le elezioni in Kosovo dovevano creare un governo in grado di gestire nuovi negoziati con la Serbia e rilanciare l’economia. Brogli elettorali e accuse di crimini ad Hashim Thaci, però, rendono molto complesso il compito del prossimo esecutivo
La sera del 12 dicembre 2010 l’aria fredda del cielo di Pristina era segnata dalle esplosioni gioiose e multicolori di fuochi d’artificio. Il popolo del PDK festeggiava nelle strade della città, dopo che il premier uscente e leader del partito, Hashim Thaci, aveva reclamato la vittoria nelle prime elezioni politiche in Kosovo dopo la proclamazione di indipendenza del febbraio 2008.
“Abbiamo vinto contro tutti. Questo è un voto per un Kosovo europeo”, aveva dichiarato Thaci, prima che iniziassero i rumorosi caroselli con le bandiere al vento, che sarebbero durati per buona parte della notte.
A poco più di un mese di distanza, però, l’aria di festa è svanita. Il processo elettorale è stato messo in discussione da numerose e circostanziate accuse di brogli, proprio nelle zone tradizionalmente controllate dal PDK. La ripetizione parziale del voto, tenuta il 9 gennaio, non è riuscita a far evaporare la sensazione che, alla sua prima prova di democrazia come stato indipendente, il Kosovo abbia sostanzialmente fallito.
Per l’European Network of Election Monitoring Organization (ENEMO), “le serie violazioni delle procedure sembrano essere nei fatti accettate, e non c’è stato alcun tentativo del personale presente nei seggi di fermare i comportamenti irregolari”. Dopo aver partecipato come osservatore alla ripetizione del voto, l’austriaca Ulrike Lunacek, relatrice del parlamento europeo per il Kosovo, ha parlato della necessità di nuove consultazioni da tenere entro l’anno, sostenendo implicitamente che la validità del processo elettorale sia irrimediabilmente compromessa.
Rischio isolamento
Per Thaci, però, i problemi legati ai brogli sono stati presto messi in ombra da accuse ancora più gravi: quelle mosse dal senatore svizzero Dick Marty, che il 16 dicembre ha presentato un rapporto per conto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nel quale Thaci viene accusato di aver organizzato crimini efferati, tra cui l’espianto di organi a vittime serbe e albanesi, durante e dopo la guerra del 1999.
Thaci ha respinto con sdegno le accuse, già emerse nel 2008 nelle memorie dell’ex procuratrice dell’Aja Del Ponte, ma è evidente che ora queste non rappresentano soltanto un problema personale del premier kosovaro.
Date le premesse, il 2011 si preannuncia come un anno difficile. Non solo per Thaci, che rimane il candidato più probabile a guidare il nuovo esecutivo a Pristina, ma per il Kosovo nel suo complesso. Unico paese dei Balcani rimasto fuori dalla “lista bianca” di Schengen, il Kosovo rischia seriamente di pagare il prezzo politico di un governo debole e di legittimità limitata.
Per il giornalista britannico Tim Judah, oggi nei Balcani “la questione potenzialmente più esplosiva è l’approfondirsi del solco che isola il Kosovo dagli altri paesi della regione”.
Le elezioni del 12 dicembre hanno quindi complicato una situazione già difficile. La campagna elettorale, anche se breve e improvvisata, aveva in realtà segnato alcune novità di rilievo. Innanzitutto la comparsa di un’ “offerta politica” più articolata (anche se non necessariamente benvenuta, soprattutto nei circoli internazionali) rispetto alle precedenti campagne monopolizzate dal tema dell’indipendenza.
Con l’ingresso sulla scena politica del movimento Vetevendosje, divenuto la terza forza al parlamento di Pristina dopo PDK ed LDK, per la prima volta non tutte le forze politiche hanno proposto gli stessi obiettivi strategici per il Kosovo. Vetevendosje, infatti, sostiene che le priorità assolute per il Kosovo siano integrità territoriale e una possibile unione con l’Albania, e che queste possano e debbano essere perseguite anche a discapito della futura integrazione euro-atlantica.
Non sorprende quindi che, durante la campagna elettorale, Vetevendosje sia stato l’unico partito che l’ambasciatore americano Christopher Dell ha platealmente rifiutato di incontrare.
Sulla sponda opposta dello spettro politico, si è registrata la poco fortunata comparsa di Fryma e Re (Nuovo respiro), che ha proposto un programma tutto incentrato sullo sviluppo economico e la creazione di un’amministrazione efficiente e meno corrotta, lasciando le questioni territoriali e identitarie in secondo piano.
Lo scarso risultato di Fryma e Re (che non ha superato la soglia di sbarramento del 5%) è stato interpretato da alcuni analisti come una conseguenza del poco tempo a disposizione per preparare la campagna, ma potrebbe segnalare anche la difficoltà dell’opinione pubblica a staccarsi definitivamente dai temi “post-bellici” che, nonostante la dichiarazione dell’indipendenza, continuano a permeare il dibattito pubblico.
L’economia, priorità assoluta
Le proposte di Fryma e Re hanno però evidenziato un’altra novità, forse quella più importante della campagna elettorale, e cioè l’emergere cioè dell’economia come priorità assoluta a cui la politica kosovara deve dare una risposta. Non che in passato la (difficile) situazione economica fosse meno centrale: fino al suo ottenimento, però, tutti gli altri temi venivano eclissati dall’obiettivo totalizzante dell’indipendenza.
Purtroppo, però, in campagna elettorale la questione economica è stata interpretata, soprattutto da Thaci, quasi esclusivamente nei termini di audaci promesse di aumenti salariali ai lavoratori pubblici, fatte anche a costo di mettere a rischio accordi precedentemente presi con il Fondo Monetario Internazionale (FMI).
Nel complesso, la classe politica kosovara si è dimostrata ancora incapace di elaborare proposte concrete per migliorare le condizioni economiche del paese. Non vi sono novità oltre alla recente ammissione del Kosovo proprio al FMI e alla Banca Mondiale, e l’economia del paese resta al palo.
Il tasso di disoccupazione ufficiale è al 48%, il 45% delle famiglie vive sotto la soglia di povertà (e il 17% vive nella povertà estrema). Ogni anno 25-30mila giovani entrano nel mercato del lavoro senza trovare opportunità di impiego. Nel frattempo, voci importanti come le rimesse degli emigranti, gli investimenti dall’estero e l’assistenza internazionale sono in calo.
In sostanza, dalla proclamazione di indipendenza del 2008, il governo di Pristina ha tentato di stimolare l’economia quasi soltanto attraverso l’aumento della spesa pubblica, sia sotto forma di aumenti salariali che, soprattutto, con grandi opere infrastrutturali.
Simbolo di questo approccio è stata la decisione di costruire un’autostrada che, attraversando tutto il Kosovo, dovrebbe connettere Albania e Serbia, e che dovrebbe costare circa 700 milioni di euro (il PIL complessivo del Kosovo, stimato per il 2009, è di 3,8 miliardi). Non a caso, il governo di Thaci è stato presto definito, sia dai sostenitori che dai critici, come il “governo dell’asfalto”.
Quasi tutti concordano sulla necessità per il Kosovo di munirsi di infrastrutture (anche stradali) moderne. Il problema è che la base finanziaria su cui si basa il programma infrastrutturale è tutt’altro che solida. Il governo sta spendendo le riserve di cassa accumulate durante la prudente gestione delle finanze dell’amministrazione Unmik. Questi soldi, però, rischiano di finire in fretta.
Nel frattempo rimane inevaso il problema principale, e cioè la definizione di una strategia per stimolare la nascita di un settore privato funzionante e competitivo (e possibilmente fuori dall’economia informale). Oggi le aziende private in Kosovo (45mila quelle attive secondo la Kosovo Business Registration Agency) sono piccole, concentrate nel terziario e incapaci di assorbire la crescente domanda di lavoro.
La scarsa competitività delle aziende kosovare è messa in risalto dal fortissimo squilibrio della bilancia commerciale. Il Kosovo esporta poco o niente, e importa quasi tutto. Nonostante la vocazione agricola, ad esempio, nel 2009 il paese ha importato 112mila tonnellate di grano, di cui ben 100mila dalla “nemica” Serbia.
L’impennata della spesa pubblica, dal canto suo, sembra aver contribuito a far aumentare il livello di corruzione nell’amministrazione pubblica. Il Corruption Perceptions Index di Transparency International, che quest’anno per la prima volta include il Kosovo, ha piazzato il paese al primo posto nella regione nella poco invidiabile classifica della corruzione percepita. Non a caso nel suo Progress Report del 2010, la Commissione europea ribadisce che “la riforma dell’amministrazione pubblica in Kosovo rimane una sfida aperta”.
Numerosi i ministri e amministratori sotto i riflettori per accuse di corruzione. Il caso giudiziario più noto è quello che ha toccato (non a caso) Fatmir Limaj, ministro dei Trasporti, braccio destro di Thaci e principale responsabile dei grandi appalti infrastrutturali intrapresi dal governo di Pristina.
Media alle strette
La mancanza di un’economia funzionante ha contribuito a determinare un altro effetto negativo: il sostanziale peggioramento degli spazi di libertà dei media, sia elettronici che a mezzo stampa, sempre più dipendenti dal supporto dell’unico inserzionista di peso presente sul mercato, il governo.
Per altro le intimidazioni contro la stampa in Kosovo sanno essere evidenti ed estremamente aggressive. Come quanto successo nei primi giorni del gennaio 2011 nei confronti del giornalista Halil Matoshi.
Il 6 gennaio Matoshi,scrivendo sul sul quotidiano “Koha Ditore” ha messo in guardia da una possibile “anarchia patriottica”, reclamando il diritto di distinguere tra patrioti “buoni” e “cattivi”. Un evidente riferimento all’attuale delicata situazione del premier Thaci. Il giornalista è stato subito violentemente minacciato dall’associazione dei reduci dell’UCK, i cui vertici sono vicini allo stesso Thaci, che l’hanno definito “un traditore” e “uno dei rifiuti lasciati dagli occupanti [serbi]”.
A completare un quadro difficile sul fronte dei media, anche l’emittente televisiva pubblica, RTK, principale fonte di informazione per l’opinione pubblica kosovara, subisce un controllo sempre più stretto da parte dell’esecutivo.
Prossimo esecutivo, una missione impossibile?
Il 2011 per il Kosovo si preannuncia come un anno particolarmente delicato soprattutto sul piano internazionale, con la ripresa dei tanto pubblicizzati (quanto ancora poco chiari) nuovi negoziati con la Serbia, il cui principale obiettivo dovrebbe essere la definizione di un qualche tipo di accordo sul Kosovo settentrionale, nei fatti fuori dal controllo delle autorità di Pristina.
Le elezioni anticipate dovevano portare in fretta alla formazione di un governo solido, in grado di gestire un negoziato dai risvolti complessi e potenzialmente rischiosi, ma evidentemente hanno portato il Kosovo nella direzione opposta, creando le basi per un esecutivo indebolito da fragile autorevolezza interna ed internazionale, oltre che dalla perdurante debolezza economica del paese.
Anche gli “internazionali” tentano ora di correre ai ripari. In una lunga intervista rilasciata il 13 gennaio a “Koha Ditore” l’International Civilian Representative (nonché rappresentante speciale dell’Ue) Peter Feith, pur respingendo le richieste di ulteriori ripetizioni del voto ha parlato di “seri problemi di credibilità internazionale” per il Kosovo, invitando il futuro premier a selezionare ministri “competenti, credibili e onesti”.
L’ambasciatore americano Dell, forse la voce ascoltata con più attenzione a Pristina, ha chiesto esplicitamente che dal nuovo esecutivo venga escluso chiunque abbia avuto condanne penali.
“Un governo di qualità può restituire ai cittadini la fiducia nelle istituzioni più di nuove elezioni”, ha detto Dell, ostentando sicurezza. Il compito del nuovo esecutivo forse non è impossibile. Di certo però, non sarà affatto facile.
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