In fuga dalla Crimea
Sono migliaia le famiglie di tatari che hanno abbandonato la Crimea dopo l’annessione da parte della Russia. La comunità, che è sempre stata a favore dell’unione con l’Ucraina, dice ora di sentirsi minacciata dalla nuove autorità. Molti di loro hanno trovato ospitalità a Leopoli, roccaforte del gruppo ultranazionalista Pravy Sektor
Il venerdì alle tre li trovi all’ombra di un tiglio davanti alla sala di preghiera. È solo primavera, ma c’è un sole che brucia. Siedono in cerchio in attesa che si faccia l’ora. Intanto dai dormitori lì vicino arrivano alla spicciolata altri fedeli. Sono perlopiù uomini, giovani. Arrivano dalla Siria o dall’Egitto, studiano medicina o materie tecniche. Una laurea presa in Europa fa il suo bell’effetto a Damasco o al Cairo. I tatari però, loro non sono a Leopoli per prendersi una laurea. Hanno lasciato la loro terra, la Crimea, perché non volevano far parte della Russia.
Hanno cominciato ad arrivare già prima dell’annessione perché, dicono, il vento aveva cominciato a girare già all’indomani della fuga di Janukovič, con l’arrivo dei militari russi. “Li chiamiamo ‘omini verdi’, come i marziani, perché hanno la divisa ma nessun distintivo. Sono tutti russi, sono arrivati dalla Russia, sui camion attraverso lo stretto di Kerč. Li abbiamo visti con i nostri occhi”. L’uomo che parla non vuole che sia scritto il suo nome. La sua famiglia è ancora lì, ha paura che possa capitargli qualcosa di brutto. In realtà un po’ tutti hanno paura di parlare, nessuno vuol farsi fotografare, mostrano una composta diffidenza verso chi li viene a cercare fino qui e si mette a fare domande.
Khan-Temir
I musulmani di Leopoli non hanno ancora una moschea. Fino a poco tempo fa si riunivano nella camera di uno studentato. Ora hanno aperto un centro di cultura islamica poco distante, dove hanno allestito una stanza per la preghiera. Tappeti sintetici, un paio di copie del corano in russo, un poster con la kaaba della Mecca, uno sgabello che funge da mihrab e indica la direzione verso cui pregare. Tutto qui.
Pochi minuti prima che inizi la preghiera, l’uomo che sto aspettando sale con passo incerto i gradini sconnessi che danno sull’entrata. Molti si alzano, gli vanno incontro e lo salutano come si fa con i venerabili. Lui si regge male in piedi, gli viene data subito una sedia. Khan-Temir non ha paura di dire il suo nome, ma è presto perché possa fidarsi di uno sconosciuto che è venuto fin qui a fare domande, così comincia a farne lui.
“Troppe volte i giornalisti russi hanno scritto bugie su di noi. A volte sembra che facciano di tutto per provocarci. Siamo stanchi, per questo siamo venuti a Leopoli, lontano dalla nostra terra. Tu come ci hai trovato? Perché ti interessa la nostra storia? Cosa scriverai sul nostro conto?”. Una voce da dentro la sala avverte che è ora. Cominciano a entrare, si tolgono le scarpe sulla soglia, Khan-Temir calza uno zucchetto verde, il colore dell’islam, e si avvia a entrare anche lui. Arrivano le donne, tre. Vanno dritte al piano di sopra. Sulla soglia Khan-Timir mi dà appuntamento a domenica. “Così parliamo”, e sparisce nella penombra della sala di preghiera.
Una pagina ancora aperta
I tatari popolano la Crimea da almeno sei secoli. Secondo gli ultimi dati disponibili sarebbero circa 300mila, il 16% della popolazione, con punte del 30% nelle regioni di Kerč, Feodosia e Simferopoli. Sono la terza comunità etnica della penisola dopo i russi e gli ucraini. All’indomani della rivoluzione di Euromaidan, quando l’insediamento del governo ad interim di Kiev ha acceso la miccia del separatismo russo, i tatari si sono immediatamente dichiarati a favore dell’unità dell’Ucraina. Prima del referendum, prima dell’annessione, prima ancora della comparsa degli “omini verdi”.
C’è una diffidenza di fondo di questa gente verso la Russia, una prudenza mista a timore e sospetto che corre sottopelle, storica. “Le autorità sovietiche non hanno mai riconosciuto il nostro movimento nazionale, lo hanno sempre definito antisovietico o estremista. La stessa cosa sta succedendo oggi”, ha detto uno dei leader storici della comunità, Mustafa Džemilev. La discriminazione raggiunse l’apice nel 1944 quando le autorità sovietiche deportarono in Asia centrale 200mila tatari di Crimea, lasciandone morire molti durante il lungo viaggio. Ogni anno, il 18 maggio, i discendenti di coloro che sono tornati rievocano quella pagina buia della loro storia. Una pagina che sembra ancora non chiusa del tutto. Perché per molti tatari ancora oggi il dominio russo ricorda troppo da vicino l’oppressione e le deportazioni sovietiche.
Gocce di tè
Ritrovo Khan-Temir nel centro di Leopoli, non distante dal monumento a Taras Ševčenko, il poeta ed eroe nazionale ucraino. Anche lui è un poeta, ma i suoi versi non hanno nulla di patriottico. Sono intrisi di lodi ad Allah. “Se siamo qui ci sarà una ragione, e solo Dio la saprà. Io penso che ci abbia mandato lontano da casa nostra per diffondere la sua parola. Se lascio cadere il cucchiaino in questa tazza di tè le gocce schizzeranno su tutto il tavolo. I russi sono il cucchiaino e noi siamo come le gocce di tè”.
Al di là del fatalismo, sono convinto che ci sia qualcos’altro che ha portato qualcosa come duemila persone ad abbandonare le proprie case dalla sera alla mattina per cercare un posto diverso dove vivere. Fuori dalla sala di preghiera, venerdì, altri mi hanno raccontato di intimidazioni da parte dei soldati russi. Bussavano casa per casa, anche di notte, chiedevano i documenti con le armi in mano. Qualcuno racconta di passaporti strappati, qualcun altro dice che non è vero. “Sì, sono venuti con i mitra in mano. Ci hanno minacciato. A loro non piacciono i musulmani, ci hanno fatto capire che non eravamo più ben accetti in Crimea. Ora vogliono che chi è rimasto prenda la cittadinanza russa. Molti ancora se ne andranno”. È stato allora che Khan-Temir ha radunato la famiglia, caricato in macchina tutto quello che ci stava, ed è partito per un viaggio di più di mille chilometri, fino all’altro capo del Paese.
Nella tana del leone
Nel giro di un paio di mesi sono arrivate a Leopoli tra le mille e duemila persone. Khan-Temir non lo dice, ma è singolare che questi discendenti dei turchi, di fede musulmana e lingua russa abbiano trovato rifugio proprio a Leopoli, roccaforte del partito di estrema destra Svoboda e della formazione ultranazionalista del Pravy Sektor. Il comune ha dato a molti di loro un alloggio, altri hanno trovato ospitalità in famiglia.
“Sì, ci hanno accolto a braccia aperte. Si vive bene qui, la gente è disponibile, la città è bella, ci manca solo la nostra terra dove, inshallah, un giorno torneremo”. Dico che ho incontrato quelli del Pravy Sektor poco prima di vedermi con lui, la loro sede è a un paio di isolati da noi. Khan-Temir si stringe nelle spalle: “Non incrociamo le nostre strade. Io non vado da loro, loro non vengono da me. Non ho problemi con quei ragazzi”. Eppure la propaganda russa continua a raccontare di un’Ucraina in mano alle bande neonaziste; nel sudest del Paese si parla di un’ondata di violenza russofoba e qualcuno da quelle parti mi ha persino detto che non si sentirebbe al sicuro a venire qui e parlare russo. “Sono sciocchezze. È lì che ora ci sentiamo in pericolo, non qui. È chiaro che il paragone con le deportazioni del 1944 è fuori luogo, ma è altrettanto triste che dopo settant’anni molti di noi siano di nuovo costretti ad abbandonare le loro case”.
Prima di lasciarmi, Khan-Temir ci tiene a darmi una copia di un suo libro di poesie. Ce n’è una, la prima, intitolata Sul vulcano. Khan-Temir socchiude gli occhi e recita un verso a memoria: “Mi è difficile ormai allontanarmi dalla mia strada, e di questo sono solo felice. Andando avanti nel nome di Allah, la mia vita non conoscerà ostacoli”. Riapre gli occhi e sorride. “L’ho scritta quindici anni fa”.
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