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Imperolight. Una recensione

Non un libro contro l’imperialismo USA ma piuttosto sull’imperialismo occidentale fondato sull’ideologia dei diritti umani e sulla sua natura post-coloniale. La recensione è a cura di Claudio Bazzocchi.

21/07/2003, Redazione -

Non tragga in inganno il titolo di questo libro di Michael Ignatieff, famoso filosofo liberale di origine canadese, nonché apprezzato editorialista di vari giornali americani e divulgatore per la BBC.
Non è un libro contro l’imperialismo USA, né contro la politica estera di Gorge Bush, né tantomeno contro le guerre fatte in nome dei diritti umani.È certamente un libro sull’imperialismo occidentale fondato sull’ideologia dei diritti umani e sulla sua natura post-coloniale, da Impero light appunto, che punta più sul nation-building dei paesi in cui interviene, piuttosto che sull’occupazione militare permanente. Dell’esercizio di questo potere imperiale non si dà un giudizio negativo, anche se l’autore ne rileva le contraddizioni e gli errori; anzi si considera il potere imperiale come l’unica soluzione delle crisi nate dal disordine post-guerra fredda. Alle guerre dei failed state si può opporre – secondo Ignatieff – solo l’esercizio del potere imperiale che pone termine ai conflitti e avvia la fase di ricostruzione dello stato – nation-building – così come sarebbe avvenuto in Bosnia, Kosovo e Afghanistan, i cui tre casi vengono trattati nei tre capitoli del libro.
Le testi di questo libro non ci convincono, anche se abbiamo potuto apprezzare la schietta disamina delle contraddizioni insite nell’esercizio del potere imperiale. Anzi, ci viene un sospetto. Che il libro sia stato preparato in modo raffazzonato. È infatti il risultato della raccolta di tre saggi – pubblicati su alcuni grandi quotidiani – dedicati a Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Ebbene, sospettiamo che al tempo della pubblicazione degli articoli il nostro autore fosse ben più tiepido rispetto all’imperialismo light, di quanto non lo sia adesso, deciso assertore dell’intervento militare in Iraq. Infatti si possono notare discrepanze troppo evidenti fra il contenuto dei capitoli e quello dell’introduzione e della conclusione. Ma procediamo per punti:

L’interpretazione dell’instabilità

Il primo punto che non condividiamo è quello dell’interpretazione dell’instabilità e delle conseguenti guerre. In sostanza – ci dice Ignatieff – la guerra è l’effetto del dissolvimento di molti stati una volta finita la guerra fredda. Il nostro autore utilizza quindi l’espressione failed state – tradotta in italiano "stati fallimentari" – per significare quegli stati che non hanno saputo reggere i cambiamenti post-Ottantanove e, prima, le sfida del post-colonialismo:
"Le premesse etiche delle lotte antimperialiste di questo secolo – secondo cui tutti i popoli dovrebbero autogovernarsi – non sono errate, ma la storia non è una favola a sfondo etico. All’era degli imperi avrebbe dovuto far seguito un’epoca di stati nazione indipendenti, uguali e autogovernati. In realtà, le ha fatto invece seguito un’epoca di pulizie etniche e di fallimento dello stato. È questo il contesto in cui l’impero ha fatto ritorno: l’impero rappresenta un tentativo di soluzione della crisi dell’ordine statale che è succeduto a due decolonizzazione raffazzonate, quella derivante dalla fuoriuscita dei sovietici dall’Europa e quella successiva alla ritirata degli europei dall’Africa e dall’Asia. Questa cirsi dell’ordine statale non è circoscritta ai Balcani e all’Afghanistan, e costituisce un fenomeno di portata globale. ¼ I fallimenti sono tanti da generare una crisi persistente dell’ordine del mondo globalizzato. ¼ Sarebbe errato, anche per un fervente sostenitore dell’uguaglianza tra i popoli e del diritto all’autodeterminazione, ritenere che una popolazione possa sempre riuscire a costruire la nazione con le proprie forze. Chi si immagina un mondo che trascenda l’impero ha in mente un’idea giusta, ma non vede a che livello di prostrazione possa realmente giungere una società quando la costruzione della nazione fallisce e la guerra civile dilania. Allora, e solo allora, si impone il dominio imperiale temporaneo, che serve a fornire la forza e la volontà necessarie per trasformare il caos in ordine. (pagg. 140-143)"

Dobbiamo così inserire Ignatieff nella schiera di tutti coloro che in Occidente – e sono la maggioranza – vedono l’instabilità e la guerra come una sorta di failure of modernità, fallimento della modernità, cioè un’esplosione premoderna di violenza che ha bisogno di essere incanalata e domata dai rappresentanti dell’Occidente che, in virtù della propria tradizione democratica, avrebbero gli strumenti per insegnare ai popoli delle aree instabili come si costruisce uno stato stabile e democratico.
Le nuove guerre – che Ignatieff definisce un problema di proporzioni globali – sono invece, a nostro avviso, conflitti per la costruzione di nuove forme statuali e di nuovi sistemi politici, in cui cambia il rapporto fra cittadini e potere, non più mediato dalle regole dello stato di diritto e dalle garanzie sociali del welfare, ma dall’appartenenza etnonazionale e dal paternalismo autoritario, in un quadro economico di creazione della ricchezza, tramite l’instabilità diffusa e network affaristico-mafiosi che controllano il commercio transfrontaliero.
Queste guerre non possono così essere considerate né il prodotto di odi secolari, né il risultato dell’avidità di pochi e corrotti leader politici. Riteniamo che i conflitti delle nuove guerre creino infatti stati che non possono essere definiti "weak" o "failed" in senso tradizionale, ma adattamenti flessibili e di lungo periodo alla globalizzazione.
Nel Sud la crisi dello stato nazionale moderno viene affrontata con l’emergere di economie grigie e informali, assieme alla crescita di progetti politici di lungo periodo che ridefiniscono le forme dello stato e del potere. E sbaglieremmo a pensare di essere in presenza di fenomeni tipici di ogni guerra, destinati a scomparire con il raggiungimento della pace. Tali forme di traffici illeciti portano infatti alla creazione di un insieme di relazioni sociali di tipo predatorio che rimodellano le strutture statali e le relazioni fra il cittadino e chi lo governa. Anche dopo la fine degli scontri armati più violenti, le società "uscite" dal conflitto rimangono in balia di un clima di violenza diffuso che le permea ad ogni livello – politico sociale ed economico – e le consegna al controllo di estesi network politico-mafiosi.Per Ignatieff le guerre in Bosnia e in Kosovo non sono invece altro che conflitti dovuti allo scontro fra etnie o fra progetti nazionalistici contrapposti. Il suo racconto delle vicende bosniache e kosovare è un susseguirsi di lotte fra popoli, liberazione di minoranze e maggioranze oppresse, dittatori sanguinari da fermare ecc… Mancano le classi sociali, l’analisi della razionalità dei processi in corso, il quadro economico e il contesto geopolitico. Per Ignatieff il problema dell’instabilità e della violenza e la sua risoluzione risiedono nella capacità – da parte del potere imperiale – di ricostruire i failed state e di portare i valori e le istituzioni dell’Occidente. L’esercizio di tale potere configura un impero diverso da quelli tradizionali, anche da quelli coloniali, che avevano nell’occupazione tout-court e nella permanenza la loro ragion d’essere. Ignatieff definisce dunque quello odierno come un impero light.
Un impero light
La leggerezza del potere imperiale starebbe quindi nel fatto che oggi l’impero assolve al suo compito di mantenimento dell’ordine ristabilendo le istituzioni democratiche e i valori occidentali tramite un’occupazione temporanea, ottenuta sì con il dispiegamento della potenza militare ma mantenuta dal lavoro umanitario di ricostruzione, dispiegato dalle varie organizzazioni governative e non governative, nonché multilaterali. A ulteriore supporto alla tesi dell’Impero light Ignatieff ricorda che proprio tutta l’opera umanitaria di ricostruzione materiale, dei valori e delle istituzioni viene affidata dalla capitale dell’impero, Washington, alle altre capitali satelliti: quelle dell’Europa occidentale e del Giappone. È suggestiva certamente l’immagine di un impero light, ma non del tutto appropriata. Essa infatti coglie alcune caratteristiche originali dell’esercizio del nuovo potere imperiale, ma non le sottopone ad accurata critica. Insomma la natura leggera dell’impero starebbe a delinearne la sua democraticità, o comunque il suo spirito di servizio a favore della democrazia. Ci pare che Ignatieff sbagli a non voler approfondire più di tanto il lato ideologico di tale "presentabilità" democratica, che comunque in Iraq ha mostrato il suo vero volto, aldilà di qualsiasi "leggerezza".
Secondo noi il nuovo paradigma occidentale dell’ordine e della sicurezza è in sostanza il risultato di un’operazione ideologica e politica volta a scardinare il principio della sovranità degli stati e l’idea di sviluppo come distribuzione di risorse nell’ambito di un quadro statuale. I governi occidentali hanno voluto infatti garantirsi la possibilità di imporre i piani di aggiustamento strutturale – e quindi affossare definitivamente l’idea classica di sviluppo – e di potere intervenire con tutti gli strumenti possibili, dal militare al civile passando per le compagnie private, per intraprendere la riforma delle mentalità e dei comportamenti in stati non più considerati sovrani, ma corpi sociali da stabilizzare.
Tale riforma delle mentalità e dei comportamenti si ottiene dispiegando il sistema dell’aiuto umanitario che va dall’elemento militare a quello civile delle ONG, passando per le agenzie delle Nazioni Unite ed il coinvolgimento diretto anche delle imprese multinazionali. Il sistema occidentale dell’aiuto umanitario è caratterizzato così da un sempre più marcato ruolo di attori non statali, che hanno il compito di imporre in modo cooperativo e ideologico il sistema di valori dell’Occidente, tramite le politiche di emergenza e di cooperazione.
Questo modello di sicurezza ottiene il risultato fondamentale di depoliticizzare le grandi questioni dello sviluppo e delle cause della povertà che fino agli anni Ottanta avevano caratterizzato l’attività delle ONG e dei grandi movimenti progressisti, compreso il blocco dei paesi non allineati. Ora l’instabilità e la povertà sono viste solo in termini di cattivi comportamenti, avidità di pochi e riconosciuti dittatori, eredità dei sistemi comunisti che hanno inculcato una mentalità assistenzialista nelle popolazioni, e quindi inattitudine a vivere nei sistemi democratici e di mercato. Questa depoliticizzazione, ammantata di valori apparentemente liberal – promozione della società civile, dei diritti umani e della parità di genere, per citarne solo alcuni – diminuisce, se non annulla, il potenziale di denuncia e critica sociale che aveva caratterizzato per anni le ONG e in sostanza lascia senza difese i poveri del pianeta.
Insomma, alla faccia della leggerezza!

Gli aspetti problematici dell’imperialismo umanitario
Vogliamo prendere in considerazione quelli che Ignatieff ritiene gli aspetti problematici dell’"imperialismo umanitario", così come lui stesso definisce l’esercizio light del potere imperiale.
Nella disamina degli aspetti problematici Ignatieff usa un modo di procedere realistico e mette in guardia sia i sostenitori dei diritti umani e del globalismo giuridico, sia gli oppositori. Ai primi dice di non farsi illusioni, poiché il globalismo giuridico non potrà mai essere l’architrave filosofico della pace perpetua, poiché alla base di ogni intervento per far rispettare i diritti umani ci sarà d’ora in avanti sempre lo strapotere militare degli USA, senza il quale non sarebbe possibile dipanare le controversie nelle nuove aree calde del pianeta. Agli oppositori del sistema dei diritti umani il nostro autore fa presente che non esiste altro modo per riportare l’ordine e la stabilità, che non sia la costruzione di istituzioni democratiche basate sui valori occidentali e i diritti umani.
Certo l’Impero light ha le sue contraddizioni e Ignatieff le mette tutte in fila, per riconoscere comunque che non c’è via d’uscita che non sia il farci i conti in modo pragmatico giorno per giorno.
Per esempio Ignatieff, riflettendo su ciò che potrà significare la ricostruzione del ponte di Mostar in termini simbolici, giudica la fretta occidentale di vedere riconciliati i popoli bosniaci come irrispettosa del loro dolore. Inoltre «è un errore imperiale presupporre che possiamo mutare il loro cuore e la loro mente». Infatti:

"La memoria e i traumi sono loro, non nostri, e l’intervento non è una terapia. Possiamo aiutarli a ricostruire il ponte, ma saranno loro a stabilire se usarlo per guarire una città (pag. 53)".

Questa affermazione di Ignatieff, tratta dal capitolo sulla ricostruzione del ponte di Mostar, segna evidentemente una contraddizione. Infatti il nostro autore ammette che il sistema umanitario occidentale si muove nelle aree instabili come un terapeuta nei confronti di popolazioni considerate incapaci – per natura secondo i razzisti, per mentalità inadeguate secondo i multiculturalisti democratici – di autogovernarsi. Svela così l’essenza colonialista dell’impero occidentale, ma continua a considerarlo da un lato leggero – dimenticando quella leggerezza è solo un manto ideologico – e dall’altro come insostituibile, poiché sarebbe l’unico potere capace di "curare" i popoli inadatti alla democrazia e alla pace.
L’analisi di Ignatieff è molto acuta e nello stesso tempo contraddittoria anche quando tratteggia la figura di Bernard Kouchner, e il suo ruolo ruolo di amministratore del Kosovo per conto delle Nazioni Unite.
Egli sa bene – e lo dice – che Kouchner, fondatore dei Medici senza Frontiere, fu tra quegli operatori dell’umanitario che a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso si diedero da fare per politicizzare l’aiuto umanitario, consegnandolo nelle mani dei vari governi occidentali. Nello stesso periodo gli stessi governi occidentali avevano interesse a scardinare il principio dell’intangibilità della sovranità degli stati, per far passare i piani di aggiustamento strutturale e affossare definitivamente l’idea che l’aiuto ai paesi più poveri passasse per l’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, inteso come forma di redistribuzione della ricchezza mondiale nel quadro di economie di sviluppo controllate dallo stato. E bene fa Ignatieff a ricordare uno dei momenti di svolta nella storia dell’umanitarismo: la crisi dei profughi kurdi del 1991:

"Kouchner era tra chi sosteneva che il tentativo di ripulire l’umanitarismo dalla politica e dal potere statale era un’illusione. In primo luogo quasi tutte le organizzazioni umanitarie dipendevano dai finanziamenti statali per la propria sopravvivenza e, per quanto avessero il diritto di opporre resistenza alle direttive statali e di tentare di salvaguardare uno spazio quanto più ampio possibile non potevano mancare di rispettare almeno in parte gli interessi dei donatori. Ciò che importava era che quegli interessi fossero moralmente giustificabili, vale a dire coerenti con i principi umanitari fondamentali. Un problema più consistente, rilevava Kouchner, era che nel mondo si verificavano alcune "crisi umanitarie" che in realtà erano politiche e si potevano risolvere solo attraverso un decisivo esercizio del potere statale. Quando, nel 1991, Saddam Hussein perseguitò i curdi nelle montagne dell’Iraq settentrionale e uccise tutti quelli che riuscì a trovare con i suoi elicotteri da combattimento, il disastro che ne seguì non fu affatto una "crisi umanitaria", bensì un crimine cui si poteva rispondere esclusivamente creando rifugi sicuri per i ivili attraverso il ricorso alle forze aeree alleate.
L’operazione effettuata in Kurdistan nel 1991 indusse Kouchmer e altri membri del governo Mitterand a coniare l’espressione "droit d’ingérance humanitaire", il diritto degli stati a intervenire, quando uno stato opprime i propri stessi cittadini."
Fu un documento dell’Assemblea generale dell’ONU del 1991 a mettere in discussione per la prima volta il principio della sovranità degli stati. A seguito della crisi dei rifugiati kurdi nel 1991, l’Assemblea delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 46/182, che cercò di migliorare il coordinamento delle Nazioni Unite nelle operazioni di emergenza e di sostenere un intervento umanitario, reso possibile dall’operazione "cieli sicuri" nel kurdistan iracheno. Nella risoluzione si legge significativamente:
"L’integrità territoriale sovrana e l’unità nazionale degli stati deve essere totalmente rispettata in accordo con la Carta delle Nazioni Unite. In questo contesto l’assistenza umanitaria dovrebbe essere fornita con il consenso dei paesi in cui si interviene, e in linea di principio sulla base di un appello del paese in difficoltà."

È facile capire che il verbo dovrebbe e l’espressione in linea di principio lasciano intendere che la regola può anche non essere rispettata in alcuni casi. Ignatieff conosce bene queste vicende e lo dimostra quando definisce Kouchner come il rappresentante del lungo percorso tortuoso della storia del moderno umanitarismo e del suo matrimonio di convenienza con il potere statale e la forza militare. Secondo noi proprio quel matrimonio è stato deleterio poiché ha contribuito a depoliticizzare le grandi questioni dello sviluppo, della povertà e dell’instabilità nel pianeta. Anche Ignatieff sembra molto perplesso da questo matrimonio fra umanitario e potere statale. Le espressioni di diffidenza nei confronti di Kouchner lo starebbero a dimostrare, anche se non lo afferma in modo esplicito.

Conclusioni
Come abbiamo notato all’inizio di questa recensione, ci pare che ci sia qualcosa che non torni in questo libro, frutto del lavoro di raccolta di alcuni reportage effettuati da Ignatieff in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Negli articoli infatti Ignatieff ci sembra non essere così disponibile nei confronti dell’impero light, quanto lo è invece nell’introduzione e nella conclusione, scritte recentemente – alcuni anni dopo i reportage – in un momento in cui Ignatieff si è schierato decisamente a favore della guerra preventiva, come abbiamo potuto leggere sui quotidiani statunitensi.
E così nell’introduzione Ignatieff ci può dire candidamente che il mondo attuale non è certo quello che avevano pensato gli attivisti liberal per i diritti umani all’indomani della caduta del Muro di Berlino, i quali speravano in un ordine giuridico ed economico transnazionale incentrato sull’ONU e sul Tribunale penale internazionale per la difesa dei diritti umani.

"Un nuovo ordine internazionale sta nascendo, ma è articolato per favorire gli obiettivi imperiali degli Stati Uniti e non immobilizzare Gulliver a terra con qualche migliaio di cordicelle giuridiche. L’impero sottoscrive i documenti dell’ordine giuridico transnazionale che rispondono ai suoi scopi (l’Organizzazione mondiale del commercio, per fare un esempio), mentre ignora o addirittura sabota quelli che non gli convengono (il tribunale penale internazionale o il protocollo di Kyoto)".
Lo stesso aiuto umanitario perde la propria autonomia e non può essere certo considerato il braccio operativo del globalismo giuridico così come speravano quindici anni fa gli stessi attivisti per i diritti umani:
"Una nuova forma di impero con pretese umanitarie – in cui le potenze occidentali, capitanate dagli Stati Uniti, fanno fronte unito per ricostruire l’ordine statale e per ricostituire le società dilaniate dalla guerra in nome della stabilità e della sicurezza globali – pone le organizzazioni umanitarie di fronte al dilemma si come impedire che i progetti umanitari siano subornati dagli interessi imperiali. Queste organizzazioni – l’UNICEF, l’ACNUR, il Comitato internazionale della Croce Rossa, il PAM – dipendono dai governi occidentali per i finanziamenti, ma lottano per conservare un margine d’azione che gli consenta di soccorrere i bisogni umanitari prescindendo dai desideri politici dei loro sponsor. Tuttavia i soccorsi umanitari non si possono tenere distinti dai progetti imperiali, quantomeno perché, in molti casi, le azioni umanitarie risultano possibili solo se prima gli eserciti imperiali ripuliscono il campo rendendolo sicuro per l’arrivo delle organizzazioni umanitarie. … Gli operatori umanitari sanno che per alcuni problemi umanitari esistono esclusivamente soluzioni imperiali e questo li costringe a diventare, proprio come gli stati europei, complici riluttanti e scontenti del progetto imperiale."

Insomma il nostro autore ci vuole dire che lui stesso è convinto che per certe situazioni di instabilità nel mondo non esistono altro che soluzioni imperiali. Certo – ammette Ignatieff nelle conclusioni – è ben strano che liberali come lui, che hanno lottato per anni per i diritti umani e l’autodeterminazione dei popopoli, appoggino i progetti imperiali. Ma – conclude in sostanza – riportare l’ordine e la democrazia è un "lavoro sporco" e qualcuno lo deve pur fare.
Per quanto ci riguarda possiamo dire che questo libro ci fa ragionare nei capitoli centrali e ci vuole invece convincere a stare dalla parte dell’impero e delle sue guerre nell’introduzione e nella conclusione. Sicuramente anche Ignatieff ha avuto tutto il diritto di cambiare idea rispetto a qualche anno fa, quando i capitoli sui Balcani sono stati scritti. Quello che lascia perplessi è l’operazione editoriale in cui si mettono assieme articoli di momenti diversi del pensiero di Ignatieff, senza neppure segnalarlo, anzi con un’introduzione e una conclusione dello stesso autore, che cerca di tenere assieme tutto. A nostro parere Ignatieff non riesce a tenere assieme le sue considerazioni sui Balcani con l’esaltazione dell’Impero light e delle sue guerre.
Claudio Bazzocchi

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