Tipologia: Notizia

Tag: Seenet

Area: Serbia

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Immaginando mappe di comunità nella valle dell’Ibar

In compagnia di Adriana Stefani, consulente ecomuseale trentina, Eugenio Berra ha viaggiato da Kraljevo a Novi Pazar in cerca delle future “stanze” del neo costituito ecomuseo della valle del fiume Ibar, Serbia

03/05/2012, Eugenio Berra -

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(Tratto da Viaggiare i Balcani, pubblicato originariamente il 27 marzo 2012)

Riempita la cassetta degli attrezzi teorici – basi cognitive, approcci metodologici, esperienze virtuose in ambito italiano ed europeo – riguardante gli ecomusei e le mappe di comunità , all’interno del programma Seenet II nell’azione "Valorizzazione del turismo ambientale nei territori di Scutari, Niš, Kraljevo, Nikšić, Peć/Peja", metteremo alla prova tali strumenti abbozzando le possibili future “stanze” del neo costituito ecomuseo della valle del fiume Ibar.

L’occasione si è presentata durante un week-end di formazione a Kraljevo, sud della Serbia, destinato al multiverso di soggetti sia pubblici che privati – agenzie di promozione turistica di Kraljevo, Raška e Novi Pazar, istituzioni pubbliche, etnografi, archeologi, storici dell’arte, geografi e sociologi – futuri ideatori e partner dell’ecomuseo. Adriana Stefani, consulente di diversi ecomusei italiani, ha presentato ai partecipanti le mappe di comunità e l’importanza che esse ricoprono nelle prime fasi di apertura di un ecomuseo: le mappe, scriveva Sue Clifford, sono innanzitutto “un modo per cominciare”.

Il punto di partenza consiste nel delicato lavoro di sintesi delle innumerevoli e stratificate caratteristiche di un luogo, con l’obiettivo finale di far emergere quegli aspetti di esso che i membri della comunità hanno individuato come i più idonei a rappresentare l’identità di lungo periodo, il genius loci del territorio in cui abitano.

Il giorno precedente i laboratori formativi, in compagnia di Adriana Stefani, Lazar Nisavić (responsabile locale del progetto) e Luca Lietti (coordinatore italiano per conto del Comitato Servizi di Cooperazione con i Balcani) ho partecipato ad una visita-studio da Kraljevo a Novi Pazar in cerca di memorie materiali e immateriali, narrazioni e simboli da inserire nella futura mappa di comunità dell’ecomuseo della valle del fiume Ibar: provando a dispiegare quell’“immaginazione creativa” che precede l’ideazione di ogni mappa.      

Un primo indizio che mi guiderà durante la giornata arriva subito da Adriana: Le mappe di comunità si dividono in due grandi categorie: le mappe tematiche, che valorizzano una determinata caratteristica del territorio come per esempio quelle riguardanti un antico mestiere o tipi particolari di produzioni; abbiamo poi le mappe territoriali, che fanno perno attorno alle diverse e a volte conflittuali sfaccettature delle identità locali”. Conscio della complessità che caratterizza la valle del fiume Ibar, le diverse stratificazioni storiche e culturali depositatesi nel corso dei secoli, opto subito per la seconda tipologia di mappe. Obiettivo del viaggio sarà dunque rintracciare gli aspetti peculiari di questa valle, che diventeranno gli ambiti tematici della futura mappa e in seguito dell’ecomuseo.

Tempi di vita contadina

Il nostro viaggio inizia di prima mattina a Bogutovac, piccolo villaggio a sud di Kraljevo dove la Lopatnica si unisce all’Ibar. Il nome di questo borgo ha origini antiche: durante l’Alto medioevo, su queste colline si estendeva il ducato del Granduca Bogut, il quale aveva scelto come dimora personale un maniero in roccia e legno posto su un pendio sovrastante il piccolo fiume Lopatnica. Ben poco è rimasto del Granducato, a parte un cimitero pagano e soprattutto il nome del villaggio, Bogutovac.

La nostra prima sosta è presso la fattoria di Draga, che ci accoglie in compagnia del marito con una ricca colazione a base di uova, rakja (grappa), salumi, peperoni, pita a base di formaggio e patate, oltre ad un kajmak freschissimo preparato il mattino stesso attraverso la bollitura del latte appena munto. Draga, assieme ad altre famiglie contadine della zona, fa parte da diversi da anni della rete di turismo rurale nata all’interno di Put Vode (la strada dell’acqua) progetto di valorizzazione territoriale attivo da diversi anni nella valle dell’Ibar e animato dal Tavolo Trentino con Kraljevo , che ha fornito una preziosa base di riferimento per il progetto ecomuseale.

Oltre a vendere i propri prodotti al mercato di Kraljevo, Draga e gli altri membri della rete riforniscono i numerosi ristoranti e kafane (trattorie tipiche) della zona, oltre a ospitare turisti per pranzi e cene tradizionali. Come spesso accade, il primo “oggetto” da inserire nella mappa nasce quasi per caso, chiacchierando con la padrona di casa. L’argomento di discussione è la neve, che ogni anno ricopre per svariati mesi anche queste colline, ma come ci avverte Draga, “Mai prima del giorno di San Alempie”. La data non è affatto menzionata (veniamo poi a sapere che si tratta del 9 dicembre), solo il Santo di riferimento presente nel calendario giuliano, quello seguito dagli ortodossi. Lazar si ricorda che anche sua nonna, ogniqualvolta venga interrogata sulla propria data di nascita, suole rispondere “due giorni dopo San Nikola”. Ci siamo: la prima stanza del mio ecomuseo saranno i tempi di vita contadina di questa valle, scanditi dai grevi e barbuti volti dei santi da onorare e fissare nella memoria collettiva.    

La fortezza di Maglić: l’eredità medioevale

Lasciata la fattoria di Draga, dopo aver risalito per qualche chilometro il corso dell’Ibar ci fermiamo sul ciglio della strada per ammirare la fortezza di Maglić, che domina la vallata grazie alla sua posizione strategica in cima ad un’alta roccia tagliata a picco.

Luca ci spiega le diverse funzioni che ricoprirà la fortezza una volta finiti i lavori di ristrutturazione previsti all’interno del progetto Seenet: “Accanto agli interventi materiali, l’idea di fondo è restituire il castello alla gente del luogo: sino ad oggi infatti non è stato vissuto dagli abitanti a causa della presenza di zone pericolanti e poco sicure. In futuro sarà adibito a diverse funzioni. Per scopi educativi e didattici come gite scolastiche per far conoscere la storia non solo della fortezza ma più in generale di questa regione; fattorie didattiche per scoprire tradizioni legate alla terra e alla vita rurale; infine, luogo per eventi di tipo culturale come spettacoli teatrali all’aperto. L’obiettivo principale è in ogni caso farlo diventare un’attrazione turistica sia regionale che a livello europeo. A questo proposito, abbiamo già ricevuto un’offerta da un ristorante della zona che si è reso disponibile ad organizzare in futuro delle “cene medioevali” nei boschi attorno alla fortezza, unendo cibo tradizionale e narrazioni riguardanti storie e leggende della valle”.

La fortezza era un importante avamposto militare (riconoscibile al suo interno dalla piccola chiesa di San Giorgio, protettore dei militari), eretta nel tredicesimo secolo a difesa del confine settentrionale del regno medioevale serbo guidato dalla dinastia dei Nemanja. I possedimenti del regno, che alla metà del quattordicesimo secolo (sotto la guida del re Dušan) spaziavano dal Danubio sino all’Adriatico e all’Egeo, avevano come nucleo originario proprio la valle dell’Ibar, dove si trovava anche la capitale del regno Ras, nei pressi dell’odierna Novi Pazar. 

Adriana – nascosta dietro un ascoltare discreto, lunghi silenzi ad anticipare domande sempre in grado di spostare più in profondità il livello del nostro ragionamento – interpella Lazar circa il legame simbolico che questo luogo ha sviluppato con la comunità circostante: “La fortezza rappresenta il simbolo più evidente dell’eredità medioevale di questa regione. Specialmente negli ultimi dieci anni, grazie all’afflusso di turisti locali, anche gli abitanti si sono riavvicinati ad esso. Ma Maglić potrebbe ricoprire un’altra importante funzione. Come al periodo della sua fondazione, quando cioè apparteneva al regno di Serbia, anche oggi la sua proprietà è pubblica, comune. Se pensiamo che la maggior parte degli altri siti medioevali di questa valle sono sotto il controllo delle comunità religiose (ortodosse e musulmane), spesso in conflitto tra di loro, questo castello potrebbe rappresentare anche un simbolo del passato medioevale che unisca piuttosto che dividere”.

 Emerge qui una delle questioni più delicate riguardanti le mappe di comunità, ossia quel processo di continua ricerca di equilibrio – sempre precario e avente carattere contrattuale – tra integrazione e individualità, tra senso di appartenenza ad un contesto più ampio e necessità di autoaffermazione della propria specificità, che va sotto il nome di identità collettiva.

Forse il carattere partecipato e processuale dello strumento mappa di comunità potrà essere d’aiuto a rintracciare tracce di memoria condivisa, anche di questo lontano periodo storico. Di fondamentale importanza sarà il ruolo di Lazar, che oltre alla lettura e comprensione della propria cultura locale avrà il difficile  compito – in quanto leader e animatore dell’ecomuseo – di mediare relazioni non formali con attori istituzionali e imprenditoriali, associazioni, comunità religiose o semplici cittadini coinvolti nel percorso ecomuseale.

Ortodossia e Islam

Lasciataci alle spalle la fortezza di Maglić con la sua eredità medioevale, nella seconda metà della giornata siamo stati introdotti all’interno del patrimonio monastico ortodosso e i lasciti ottomani della regione.

Il monastero di Studenica, patrimonio Unesco dal 1986, si staglia maestoso in mezzo ad un’ampia radura tagliata in due dal fiume omonimo; tigli, querce, frassini e faggi circondano il complesso proteggendolo da occhi indiscreti.

Studenica fu fondata nel 1189 da Nemanja, sovrano della Raška (regione situata lungo la valle dell’Ibar il cui nome deriva dall’antica capitale Ras, nei pressi dell’attuale Novi Pazar) e capostipite della dinastia dei re medioevali serbi. Qualche anno prima della sua morte avvenuta nel 1199, Nemanja si diede alla vita religiosa ritirandosi in questo monastero, prima di trasferirsi sul monte Athos dove venne ordinato frate con il nome di Simeone. In seguito San Simeone-Nemanja assieme al figlio San Sava (primo arcivescovo della chiesa autocefala serba) divennero i patroni della Serbia.

Lo splendore del complesso monastico si deve però al figlio di Nemanja, Stefan “prvovenčani” ossia il primo incoronato, poiché fu il primo re serbo ad essere incoronato secondo il rito ortodosso. Stefan – controbilanciando il fervente “orientalismo” del fratello Sava – coltivò per tutta la vita un grande interesse per l’occidente: dopo essersi risposato con una nipote del doge di Venezia, mantenne buoni legami con il Papa (che nel 1217 lo fece incoronare da un suo legato secondo il rito cattolico) e si dimostrò tollerante con i fedeli del suo regno che seguivano la liturgia latina. Nonostante fosse pienamente immersa nella civiltà bizantina – dai riti al canone ecclesiastico sino alle leggi, fortemente ancorate al diritto civile di Bisanzio –, la Serbia dei Nemanjić fu sempre aperta all’Occidente, nel tentativo politico (riuscito per alcuni secoli) di imporre il predominio serbo nei Balcani sfruttando le rivalità tra Roma e Costantinopoli e il declino di Bisanzio in seguito alle crociate del XIII secolo.

Tra gli influssi giunti dall’altra sponda dell’Adriatico, di particolare importanza fu l’azione svolta da architetti, artigiani e artisti provenienti dalle scuole italiane, che contribuirono a forgiare monumenti, sculture decorative e affreschi delle grandi chiese di Žiča, Sopoćani, Gračanica o Dečani. Anche Studenica rappresenta un chiaro esempio di questo incontro e confluenza di stili tra Oriente e Occidente: qui nasce lo stile Raška, punto di riferimento per i successivi duecento anni di architettura nei Balcani, basato sull’incrocio tra lo stile greco-bizantino e quello romanico.

Giotto nei Balcani e gli intagliatori di pietra

Nel 1204, a seguito del saccheggio di Costantinopoli durante la Quarta Crociata, molti artisti bizantini trovarono rifugio in Serbia alla corte dei Nemanja. Finalmente liberi dai rigidi stili iconografici imposti dalle alte cariche bizantine, nei monasteri serbi poterono esprimere il proprio genio creativo a lungo represso. Gli affreschi presenti all’interno della Chiesa della Vergine sono annoverati tra i punti più alti di questa rinascita artistica, considerati da molti i precursori del Rinascimento d’Oriente. Mentre ammiriamo l’Ultima Cena situata nella parte centrale del tempio Luca si ricorda di uno dei primi viaggi organizzati in Serbia da Viaggiare i Balcani in collaborazione con l’associazione Sodalis e il Tavolo Trentino con Kraljevo : “Del gruppo di turisti faceva parte anche un docente di Storia dell’arte, penso dell’università di Venezia. Quando lo portammo qui a Studenica, rimase talmente colpito da questi affreschi che all’uscita dalla chiesa mi disse: ‘ma questo è Giotto centocinquanta anni prima di Giotto!”. La lunga tavolata, con le sedie vuote ai margini in segno di apertura alla comunità dei fedeli e ricolma di frutta e verdure di ogni tipo riporta ancora una volta a Bisanzio, laddove l’iconografia cattolica raffigura sempre una tavola bandita unicamente di pane e vino, simboli del rito eucaristico.

Nella chiesa della Vergine – parte del complesso monastico assieme alla chiesa Reale (che ospita affreschi di Michele Astrapas e Eutychios, due artisti greci di Tessalonica ai quali tra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 i regnanti serbi, oramai sotto il controllo ottomano, avevano commissionato numerosi lavori tra Serbia e Macedonia), la piccola chiesa di San Nikola, il refettorio del XIII secolo e una foresteria dove è possibile pernottare la notte in compagnia dei monaci – sono conservate anche le spoglie del re Stefan e dei suoi genitori, Nemanja ed Ana. Il legame tra la dinastia regnante e la Chiesa fu sempre molto forte: a partire da Nemanja il modello di vita di tutti i regnanti, quantunque impostato sull’idealtipo del condottiero militare, fu sempre permeato dallo spirito monastico, che implicava una prossimità e dipendenza reciproca tra vita terrena e ultraterrena. Lazar ci racconta che il sarcofago di Stefan è spesso uscito dalle mura di questa chiesa, viaggiando al seguito di eserciti e destini del popolo serbo: anche durante le guerre balcaniche, un ufficiale dell’esercito se lo portava sul campo di battaglia come amuleto e portafortuna”.

Un altro elemento che rende l’arte di Studenica (e più in generale dello stile Raška) pressoché unica in tutto il mondo ortodosso sono gli elementi scultorei, laddove le uniche decorazioni ammesse erano gli affreschi su muro. Forse la ragione di questo allontanamento dai canoni decorativi classici si cela nella lunga tradizione di intagliatori di pietra (specialmente marmo) presente nella zona, che ha reso possibile la costruzione di gran parte degli edifici e del muro di cinta del monastero. Lazar ci parla della famiglia Kandić, che da generazioni svolge questo mestiere e potrebbe essere coinvolta all’interno del percorso eco-museale in quanto custode di un antico sapere da valorizzare e preservare. Sempre da un punto di vista storico-culturale, questo luogo è di importanza cruciale poiché fu sede della prima scuola pubblica di pittura di icone, nonché del primo ospedale “moderno” suddiviso per reparti, dalla chirurgia alla pediatria e anestesia. Per questo l’ospedale di Kraljevo si chiama Studenica, in onore del suo vecchio antenato.

La strada dell’acqua e l’eredità ottomana

Put Vode, la strada dell’acqua. Così è stato chiamato il progetto di valorizzazione territoriale e turismo responsabile attivo da diversi anni nella valle dell’Ibar, stimolato e in seguito sostenuto dall’associazione Sodalis in collaborazione con il Tavolo Trentino con Kraljevo. La ragione è semplice: l’acqua è presenza costante di questi luoghi, dal fiume Ibar ai suoi numerosi affluenti, i laghi alpini, e soprattutto le terme e le sorgenti minerali a cui gli abitanti del luogo attribuiscono leggendarie proprietà curative.

Dopo aver lasciato Studenica, ci fermiamo a visitare la Josanica Banja, un vecchio hamam ancora funzionante sebbene sia attualmente usato dai contadini della zona che vengono a darsi una rinfrescata al termine della giornata di lavoro nei campi di cereali che puntellano le colline circostanti. Lazar mi parla di un progetto di restauro promosso dalla municipalità di Raška, purtroppo bloccato da alcune difficoltà burocratiche: “L’hamam è sotto la protezione dell’Istituto nazionale per la tutela dei beni culturali. Questo significa che la municipalità dovrà pagare direttamente gli architetti
i restauratori che verranno da Belgrado, non prima però di aver attraversato un lungo e costoso – sia in termini di tempo che di denaro – iter burocratico. Il paradosso però è un altro: questi istituti, sia quello nazionale che le diverse sedi regionali, sono istituzioni pubbliche, finanziate dallo Stato e dalle municipalità. Ovviamente nei loro programmi sono previste attività di questo tipo come la ristrutturazione e ricostruzione di antichi siti di interesse nazionale. Tuttavia, se una municipalità vuole operare su siti che non rientrano tra le priorità programmatiche dell’istituto, deve pagare. Qui subentra il paradosso: perché una municipalità, quindi un’istituzione pubblica, deve pagare un altro ente pubblico che oltretutto è finanziato dalle municipalità stesse? Si giunge così a veri e propri blocchi normativi e bracci di ferro tra le municipalità e l’istituto per la protezione dei beni culturali, che al contrario dovrebbero lavorare in sinergia spinti dal medesimo interesse per il bene comune. Un altro esempio è la fortezza di Maglić: dal momento che i progetti di restauro possono essere fatti solo dall’istituto regionale per la tutela dei beni culturali, quest’ultimo si è sentito in diritto di avanzare la richiesta di circa cinquemila euro alla municipalità di Kraljevo, la quale si è opposta in quanto è già tra i finanziatori dell’istituto.. a pagare come sempre è il patrimonio storico-culturale, visto che molti siti rimangono abbandonati al loro destino di lento e inesorabile degrado”.

La visita dell’hamam è una buona introduzione all’ultima tappa del nostro viaggio-studio: Novi Pazar, la piccola Sarajevo della Serbia sud-occidentale, con il suo variegato tessuto etnico-religioso – accanto alla maggioranza Bosgnacco-Musulmana convivono da secoli serbi-ortodossi, e poi Gorani, Macedoni, Kosovaro-Albanesi – è la metafora perfetta di un ecomuseo ad alta complessità cognitiva, palcoscenico su cui schegge di innumerevoli epoche si accumulano strato su strato, segno su segno, frammento su frammento, costruendo una ricchezza che, nel momento in cui viene riconosciuta, può essere letta e valorizzata. Il tempo a disposizione è purtroppo poco, dopo una breve camminata nella čaršija in compagnia del direttore dell’APT cittadino e una sosta in kafana per uno spuntino a base di ćevapi si risale in macchina per tornare a Kraljevo.

Il tragitto sarà segnato da rade parole e sguardi persi nelle regioni della propria mappa di comunità, ancora opache e indefinite. Con l’aiuto di Adriana, in futuro si dovrà fare una sintesi dei numerosi frammenti raccolti, l’intreccio di narrazioni, memorie e valori… tracciando confini di significati condivisi all’interno dei quali poter viaggiare.  

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