Tipologia: Intervista

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Area: Kosovo

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Il mio Kosovo

Sociologa, giornalista ed ex consulente per le Nazioni Unite, Anna di Lellio traccia un profilo del Kosovo odierno, facendo riferimenti alla storia recente e ai miti di nuova formazione, alla comunità internazionale e alla società albanese. Nostra intervista

01/07/2008, Alma Lama - Pristina

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Lei è stata per molti anni qui a Pristina, lavorando anche come consigliere dell’ex-premier Agim Ceku. Quali sono stati suoi incarichi in Kosovo?

Sono arrivata per la prima volta in Kosovo nel 1999, il primo giorno dopo la fine dei bombardamenti Nato. Il 13 giugno sono entrata con le truppe tedesche della Nato a Pristina. E’ stata un’emozione fortissima. All’epoca lavoravo col programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. Non sapevamo quale fosse la situazione in Kosovo, se la gente avesse da mangiare, quanti erano stati uccisi. Non ho mai dimenticato quel momento. Allora ho cercato di tornare. Sono venuta di nuovo nel 2000. Ho prodotto un documentario per il canale "Rai Tre" della televisione italiana e poi sono tornata ancora nel 2001. Sono stata prima Temporary Media Commissioner e poi ho lavorato con il primo ministro Agim Ceku. Da allora continuo a venire ogni anno. Sono molto attenta verso la situazione politica in Kosovo. E’ paese che amo moltissimo, ne amo la gente, secondo me così simile agli italiani.

Lei ha anche curato un libro intitolato "In favore del Kosovo". Di cosa parla?

L’idea del libro e nata dal fatto che, conoscendo bene gli albanesi e vivendo all’estero, sono sempre stata molto sorpresa e colpita dall’immagine negativa che il Kosovo e gli albanesi hanno in alcune parti del mondo. Diciamo che una propaganda molto forte li ritrae solo come musulmani, criminali e terroristi. Ho messo insieme le opinioni di accademici e studiosi più o meno noti, che hanno risposto alle mie domande sul Kosovo. In modo particolare hanno collaborato a questo libro, Noel Malcolm, Ivo Banac, Isa Blumi, Besnik Pula, autori internazionali, ma anche albanesi. E hanno detto quella che è la verità, senza esagerare dal punto di visto degli albanesi, ma la vera storia di questa parte del mondo, che è dominata per molti secoli dalla presenza albanese, non solo albanese, ma soprattutto albanese.

Lei ha scritto anche un saggio sul "mito" di Adem Jashari, che in Kosovo è stato "santificato" in seguito alla sua uccisione, insieme a 56 membri della famiglia, nella lotta per la libertà. Come vede il ruolo che questo mito gioca nella società kosovara, ma anche nella sua vita politica?

E’ un ruolo fondamentale, si può dire. La guerra è cominciata con il massacro della famiglia Jashari a Prekaz. E’ fondamentale, poi, anche il modo in cui questo massacro è stato ricordato, commemorato, e che cosa rappresenta per la libertà e l’indipendenza del Kosovo. Io mi sono interessata a questo massacro perché ho notato quanto oggi sia molto evidente l’esistenza di una lotta tra internazionali e locali nel definire la storia recente del Kosovo. La storia recente del Kosovo è una storia di lotta, di guerre e di sacrifici, di resistenza ad una presenza straniera molto brutale. Con la fine della guerra e l’arrivo dell’amministrazione internazionale, secondo me si è cercato di "resettare" la storia del Kosovo, come se questa cominciasse dal 1999. Questo rappresenta un "anno zero" per il Kosovo, a partire dal quale siamo tutti multietnici, e viene dimenticata completamente qual è stata la sofferenza degli albanesi del Kosovo, sopratutto nel decennio degli anni ’90. Per me è stato molto interessante parlare di questo episodio, del modo in cui è ricordato dagli albanesi e dagli internazionali, con tutte le differenze presenti anche all’interno dello stesso mondo albanese, perché non è la guerra l’unico periodo ad essere raccontato della storia recente, ma c’è anche la resistenza pacifica guidata da Rugova.

Questa ricerca è stata portata avanti da un punto di vista certamente originale. Quali sono le sue conclusioni su Rugova e Jashari? Quanto forte è stata la loro influenza durante questi anni?

Quando ho cominciato a capire che cosa aveva rappresentato il massacro di Prekaz in Kosovo, ho cominciato a fare collegamenti con la storia italiana del secondo dopoguerra, soprattutto riguardo all’occupazione nazista ed alla resistenza. In questo periodo ci sono stati massacri che hanno diviso la popolazione. Sono stati celebrati, dopo la guerra, come resistenza partigiana contro nazismo e fascismo. Ma da molti italiani, questi eventi della storia vengono ricordati in modo problematico. I problemi legati a questa doppia lettura sono poi scoppiati negli anni sessanta.
Forse sarebbe stato meglio per i kosovari albanesi pensare al massacro di Prekaz in modo critico, non per criticare Jashari, la sua famiglia ed il loro sacrificio, ma per cercare di capire perché alcuni vedevano questa partecipazione alla resistenza in un modo diverso, perché avevano preferito una resistenza non armata, che è molto importante in Kosovo, perché dà un’immagine degli albanesi che è quella vera, un’immagine complessa. Quella di una popolazione che ha vissuto sia la guerra che la coesistenza, una resistenza spirituale e morale di gente che soffre e vuole essere libera. Io penso che sia Rugova che Jashari siano fondamentali per capire come il Kosovo è arrivato ad ottenere l’indipendenza, seppure in modo diverso. Rugova e stato leader per dieci anni di un piccolo popolo straordinario, che è riuscito a vivere senza stato, anzi in un stato di polizia, senza risorse, senza economia, organizzandosi da sé, un’esperienza davvero straordinaria. Ed anche Jashari è straordinario, perché ha combattuto con tutta la famiglia, sacrificando tutto quello che un uomo può sacrificare, per la libertà e l’indipendenza del Kosovo. Tutti a due sono molti importanti.

Pensa che il loro mito eserciti ancora un’influenza sulla scena politica del Kosovo?

Forse non è solo mito il modo in cui vengono ricordati e celebrati, sono personaggi realmente esistiti e non credo che siano tanto mitizzati. Hanno un’enorme importanza nel Kosovo indipendente, perché tutti e due hanno contribuito moltissimo all’indipendenza del Kosovo, uno stato giovanissimo, perché nato lo scorso febbraio, ma con una storia lunghissima. Questi due personaggi, nella storia recente del Kosovo, danno uno spessore di profondità a quello che è il Kosovo oggi.

Ultimamente è stato deciso di escludere il 28 novembre, ricordato dagli albanesi come giorno dell’Indipendenza, nel 1912, e chiamato il giorno delle bandiere, dalla lista delle celebrazioni ufficiali in Kosovo. Lei come legge questa tendenza a svestire il Kosovo di ogni riferimento alla storia nazionale albanese?

La mia è un’opinione prettamente personale. Credo che sia un grave errore eliminare dalla lista delle celebrazioni ufficiali date che sonno così importanti per la storia del popolo albanese in Kosovo che, dopotutto, qui rappresenta la grande maggioranza. E’ molto pericoloso anche eliminare ogni celebrazione che faccia riferimento alla guerra dalla quale è nato il Kosovo indipendente. Senza la guerra, il Kosovo non sarebbe uno stato. Viene messa in atto una specie di operazione staliniana, cancellando un avvenimento storico reale. Ma non si può cancellare dalla storia, dalla vita della gente, dai sentimenti delle persone. In questi casi sarebbe molto meglio consultare anche la popolazione, sarebbe più democratico. Ma se il compromesso raggiunto prevede di eliminare completamente la storia degli albanesi, credo si tratti di una follia, e non durerà. E comunque il 28 novembre in Kosovo continuerà ad essere celebrato. E’ stato molto incoraggiante vedere come il Kosovo ha accettato la nuova bandiera, e i nuovi simboli, con spirito aperto e democratico, molto positivo, ma d’altra parte non si può eliminare un simbolo nazionale ritenuto così caro e per cui in tanti hanno dato la vita.

Questa decisione è stata incoraggiata dagli internazionali, che, a mio parere, sembrano esercitare una pressione abnorme per dimenticare il passato e creare una nuova identità. La pensa anche lei in questo modo?

Bisogna capire lo spirito della comunità internazionale. Che è fatta di persone, governi e di interessi. Rispetto al Kosovo la comunità internazionale ha avuto quasi sempre l’atteggiamento dello scienziato che fa esperimenti. Ma questo processo, chiamato in inglese "state building", è comprensibile. Quando si comincia ad impegnarsi in un’impresa del genere si ridisegnano a tavolino stati, confini, e bandiere, e questo crea problemi. Per la comunità internazionale è importante definire uno stato multietnico, integrato in Europa, e l’impressione è che eliminando la storia passata albanese sia più facile raggiungere questo obiettivo. Secondo me è un errore, e la pressione esercitata sulla leadership del Kosovo potrebbe nel futuro portare a conseguenze negative.

Quali saranno le conseguenze del fatto che tutti i processi più importanti, simboli, costituzione, pacchetto Ahtisaari sono stati imposti dagli internazionali, tutti approvati senza il dibattito, e senza la partecipazione del popolo, sull’idea di democrazia in Kosovo?

Bisogna distinguere le cose. Se si eliminano feste e simboli nazionali, queste saranno celebrate ugualmente, ma diventeranno parte di una subcultura. Rafforzeranno lo spirito nazionalista che non è parte dello stato a livello istituzionale. Questo non sarà positivo nel lungo periodo. L’altra questione, riguarda invece la democrazia. Democrazia non significa solamente elezioni libere, che in Kosovo esistono, ma significa anche che i rappresentanti eletti dal popolo sono responsabili nei confronti del popolo stesso, e che governano questo paese. In Kosovo abbiamo una situazione legale molto complicata e molto confusa, con diversi livelli di governo, il governo del Kosovo, l’Unmik, l’Eulex e l’Ufficio Civile Internazionale, che si deve occupare dell’implementazione del piano Ahtisaari. In questo momento tutte queste burocrazie internazionali sono impegnate a ostruirsi a vicenda, perché ancora non si capisce bene chi praticamente avrà il Kosovo sotto supervisione, perché questa è un’indipendenza condizionata, sappiamo tutti che non è una vera e piena indipendenza. Quindi, in questo caso non ci può essere democrazia, perché le decisioni che vengono prese dal governo sono discusse con queste burocrazie internazionali. Fanno riferimento a un piano che doveva essere un compromesso tra il Kosovo e la Serbia, e che invece è un accordo tra il Kosovo e la comunità internazionale. E così tutto questo confonde e non definisce il Kosovo come un paese democratico.

Il 17 febbraio il Kosovo ha proclamato l’indipendenza, ma ben poco è cambiato da allora per quanto riguarda indipendenza politica, il poter essere uno stato con confini chiari che prende in modo autonomo le proprie decisioni. E’ d’accordo con questa valutazione?

La mia impressione, dopo il 17 febbraio, è sopratutto quella che il Kosovo ha acquistato maggiore sicurezza di sé. Io vedo questo fattore psicologico parlando con la gente. Esiste una certa soddisfazione e una certa sicurezza, che sarà molto importante per gli albanesi del Kosovo per affrontare le difficoltà future. Anche i problemi con la minoranza serba nel Kosovo settentrionale non sono così gravi adesso che il popolo albanese si sente più sicuro, meno indifeso. Grandi cambiamenti in senso politico non li vedo.

Come si deve comportare la classe politica del Kosovo in questa situazione molto complicata, specialmente nei confronti dell’Unmik?

La leadership kosovara si trova in una situazione molto difficile, perché ci sono delle situazioni che sono completamente fuori dal suo controllo. L’Unmik dipende dal Consiglio di Sicurezza, che nella legislazione internazionale è l’organo supremo che prende decisioni a riguardo. Nel Consiglio di Sicurezza sia la Russia che la Cina hanno il potere di veto. Quindi una decisione sull’Unmik, che viene presa dal Consiglio di Sicurezza, sarà sempre ostacolata dalla Russia e dalla Cina, finché queste non decideranno di riconoscere il Kosovo. Quindi per la leadership kosovara e molto difficile rapportarsi con l’Unmik. Il mio consiglio, anche questo strettamente personale, è di avere un atteggiamento un po’ più attivo ed indipendente. Io capisco che la leadership kosovara deve collaborare con le organizzazioni internazionali e con i paesi amici. Ma se questo è uno stato, deve cominciare a pensare come uno stato. Uno stato decide autonomamente. Per il Kosovo ci sono ancora dei passi da fare prima di arrivare a questo stadio, ma secondo me la leadership deve cominciare a pensare a se stessa come la leadership di uno stato indipendente.

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