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Il mestiere del traduttore

Il compito di poeti e scrittori veri è quello di amare, quello dei traduttori di trasmettere questo sentimento. Una riflessione per il Festival della letteratura di Leskovac, in Serbia, dove l’autrice sarà presente

07/10/2016, Anita Vuco -

Il-mestiere-del-traduttore

(Questo testo è stato pubblicato in contemporanea col quotidiano serbo Danas )

Unirsi è senz’altro l’unica scelta ragionevole per tutti coloro che hanno a cuore il libro e la letteratura. La letteratura, dico, e non un qualsiasi testo stampato. All’industria – ad eccezione di quei rari e onorevoli editori che, malgrado le difficoltà di ogni genere, continuano a battersi per la qualità – non serve né l’amicizia tra i traduttori né la loro collaborazione. Parlano di noi in termini di cartelle, ci misurano con il numero di libri pubblicati, con l’importanza commerciale che ha la lingua dalla quale traduciamo.

Festival della letteratura di Leskovac

Ci inquadrano con i nomi degli autori che abbiamo tradotto, universalmente riconosciuti, ovvio. All’industria editoriale serve che traduciamo qualunque cosa per un qualsiasi prezzo, meglio se il più basso possibile. Gli interminabili bestseller senza né testa né coda, possibilmente. Senza soffermarsi troppo a pensare, senza abbandonarsi alle passioni, meglio se estirpiamo da noi i nostri più profondi bisogni, se eliminiamo da noi ogni sorta di desiderio.Opportuno sarebbe operare in sostituzione del Google Translator, ma solo in quelle grigie giornate quando il poverino viene colpito da grave blackout di creatività. Si vuole, insomma, che ognuno di noi si auto-trasformi nella più banale delle merci, acquistabile in tabaccheria o in una delle tante stazioni di servizio lungo la strada.

Che non ci salti in mente, nemmeno per sbaglio, di attribuire troppa importanza a quello di cui ci occupiamo con dedizione ogni giorno. Che non ci sfiori il pensiero che letteratura sia cosa importante, l’unica, a quanto pare, ancora in grado di arginare la disfatta politica, i politici e la stessa discordia che essi sistematicamente seminano. Che non ci si monti la testa, noi traduttori, intuendo di avere in questo processo di contenimento un ruolo e una funzione di primaria importanza. Si augurano lor signori che non arriveremo mai a comprendere coscientemente quanto il nostro sereno e tranquillo agire – senza mai un’alzata di voce, contrariamente al lor vezzo più diffuso – possa arrivare lontano.

Da vera ingenua – lo penseranno in molti – continuo a credere fermamente che nelle peggiori situazioni di disperazione, là dove ogni diplomazia fallisce, oppure si vende l’anima, non restano che i veri poeti e gli scrittori veri a farvi fronte, gli unici ancora in grado di innalzare un bastione immenso e vitale tra il bene e il male. Il loro compito non può essere che quello di amare, mentre ai traduttori tocca trasmettere questo sentimento e divulgarne la forza travolgente profusa nelle loro opere. Ancora una volta una questione di prospettiva. Ogni pensiero pronunciato ad alta voce, o scritto, non può essere ucciso.

Chi almeno una volta nella vita abbia amoreggiato con il pensiero di Pasolini, con l’essenzialità del verso di Pasternak, con i funghi secchi di Puškin (Gloria a lui!), con i bidoni della spazzatura e gli strati archeologici in Kiš, con quell’eco viola attorno ad ogni sua lettera, ebbene costui non potrà più accettare facilmente i muri moderni eretti a difesa di forzati e superflui confini, né potrà far sue le cattive intenzioni altrui, né acconsentirà che gli venga impostata la fretta. Non accetterà mai nulla dell’universo kitsch che lo circonda.

Nello scambio osmotico che si viene a creare tra l’opera e il suo traduttore sta la salvezza, quella immediata, la mia, quella che ci fa dimenticare lo scorrere del tempo, le ore, i giorni interi trascorsi nel chiuso di una stanza, ma mai da soli. C’è salvezza, altresì, quando ci riuniamo, discutiamo, ridiamo insieme; quando ognuno di noi trova un valore importante nella stessa forza che noi applichiamo per far emergere dagli scritti altrui, i valori più radicati dell’Uomo. Valori e spirito d’insieme che i festival come questo a Leskovac, fanno risaltare maggiormente.

Unus mundus è il potenziale che ci portiamo dentro, al quale non bisogna rinunciare. È cieco ogni traduttore che traduce da lingue cosiddette “minori” e pensa che da solo potrà destare l’interesse dei lettori. Non basta la singola buona volontà. Nel nostro campo ogni aiuto diventa prezioso, ogni idea non ancora sviluppata, ogni suggerimento, persino se giunge da coloro che praticano una lingua molto lontana dalla nostra. Ogni altro traduttore, potenzialmente simile a me, almeno in parte, in sintonia con la mia posizione, o grazie alla sua diversità, contribuisce alla mia personale ricchezza di donna che traduce.

Per questo diventa particolarmente prezioso potersi confrontare, scambiarsi dati ed esperienze, raccontarsi eventuali omissioni o “soluzioni interessanti” da altri escogitate, in modo che io possa riuscire, soprattutto dopo il lungo lavoro sull’edizione italiana del romanzo Var di S. Stojanović, Ensemble Edizioni – opera ravvivata da una certa naturale e contestualizzata volgarità linguistica, la cui non facile accettazione e comprensione da parte mia sono state imprescindibili per portare a termine la traduzione – a smuovere il lettore italiano, a non lasciarlo indifferente, nemmeno di fronte al riso o pianto di uno zingaro.

La traduzione del romanzo Put za Jerihon [La strada per Gerico] in corso di stesura, mi risulta ancora più complessa di Var, perché dopo la lettura dell’originale mi rendo conto quanto sarà impegnativo abbattere i pregiudizi, e non uno solo ma tanti, ben radicati oggigiorno nella società di cui facciamo parte, riguardo la minoranza gitana e la sua lingua. E di proposito non parlo qui della minoranza Rom, non abbiatene a male, perché molto tempo fa mi è stato insegnato che nel termine “zingaro” non c’è nulla di dispregiativo, tutt’altro. Il pregiudizio si nasconde nell’intenzionalità offensiva di chi lo pronuncia, chiusa parentesi.

Lasciatemi dire che qui, oggi, e non suoni per nessuno dei partecipanti di questa decima edizione giubilare del Festival, come una mia generica sottovalutazione dei presenti, sono particolarmente lieta di poter ascoltare la testimonianza di Barbara Delfino, la traduttrice italiana dal polacco, che da decenni, è impegnata nella ricerca di quegli elementi chiave ai quali ogni singolo traduttore dovrà prestare maggiore attenzione, affinché in Italia la richiesta e l’accoglienza delle opere tradotte dalle lingue slave migliori.

Sviluppo positivo da augurarsi per una qualsiasi delle lingue slave: “Tutti noi potremmo essere comprensibili per il resto del mondo” –, metteva in rilievo Danilo Kiš nell’intervista Značaj dobrog i odanog čitaoca [I meriti di un lettore buono e fedele], del 1983 – “se soltanto la nostra letteratura riuscisse a presentarsi con una buona selezione, in modo comunitario, come un’entità centro europea e slava. Così come, in primo luogo, si è presentata all’Europa degli inizi del secolo, la letteratura nordica, o come poco tempo addietro fece quella sudamericana, con il suo felice esordio. Il che significa – presentando ciò che in esse vi è di meglio.”

Trentatré anni dopo, i suoi auspici visionari non si sono ancora realizzati. Ciò nonostante, io credo fermamente nella necessità e possibilità di una loro concreta attuazione, qualora si riesca ad accostarsi alla traduzione con un approccio che privilegi la nostra unione e consapevolezza, a partire dal mio attivo contributo.

Mi chiedo, in conclusione, come ottenere che le opere dei nostri scrittori già tradotti non rimangano soltanto dei titoli nei cataloghi degli editori stranieri? È molto semplice: tradurre di più, tradurre conoscendosi, tradurre avendo fiducia nei colleghi da considerare non come “concorrenza”, bensì alleati e complici nella stessa identica missione.

Voglio ringraziare Saša Stojanović, l’organizzatore di Think Tank Town, che con il suo sincero impegno, oramai decennale, ci consente di incontrarci e di dialogare tra noi. E che questo confronto non sia solo un buon inizio ma il primo gradino per l’edificio collettivo da costruire insieme. Grazie.

 

Si ringrazia Renato Martino Bruno per la gentile revisione del testo in italiano

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