Tipologia: Notizia

Tag:

Area: Italia

Categoria:

Il lungo ’89

Il documento introduttivo alla Conferenza internazionale di Osservatorio Balcani e Caucaso

13/11/2009, Redazione -

Il-lungo-89

Introduzione

Il 1989 ha rappresentato per l’Europa una cesura storica e una promessa di pace duratura dopo i decenni della Guerra fredda, nonché di emancipazione dall’autoritarismo con l’affermazione di sistemi democratici e di riunificazione del continente con la cancellazione della Cortina di ferro.

Per i Balcani e per il Caucaso, questo processo di trasformazione è tuttora in corso: l’89 è lungo perché molte promesse sono ancora incompiute e le speranze rischiano di affievolirsi in una transizione dilazionata e logorante. A vent’anni della caduta del Muro di Berlino, Osservatorio si sofferma ad analizzare due decenni di cambiamenti e contraddizioni (1).
Nel sud-est Europa e in Caucaso, questi vent’anni sono stati dominati da crisi istituzionali, conflitti e da un drammatico processo di frammentazione statuale. Tuttavia, si è assistito a fondamentali progressi nelle condizioni di vita, politiche, sociali ed economiche.

D’altro canto, molte ambivalenze hanno caratterizzato anche l’evolvere dell’Unione Europea, impegnata in un processo di ridefinizione politica e identitaria nel contesto dei nuovi assetti post-Guerra fredda. Due visioni contrapposte di Unione hanno continuato a confrontarsi senza trovare una sintesi: l’una fondata su un progetto di Europa federale, l’altra a sostegno di un’alleanza economica tra Stati che mantengono gelosamente le prerogative della sovranità nazionale. Nonostante il notevole impegno verso l’istituzionalizzazione interna e l’allargamento a sud e ad est, il progetto politico europeo si è progressivamente indebolito e oggi l’Ue fatica ad assumersi responsabilità politiche dentro e fuori i propri confini.

Attraverso queste luci ed ombre intendiamo riflettere su ciò che ha rallentato la riunificazione del continente. Discuteremo dei profondi cambiamenti degli ultimi due decenni e di come rilanciare il progetto di Europa politica.

 

Dopo il Muro, la guerra

La fine della contrapposizione ideologica della Guerra fredda ha portato con sé un’iniziale illusione di lineare passaggio dal comunismo alla democrazia sottovalutando la complessità delle transizioni. Nel corso degli anni ’90 è diventato più evidente che gli esiti dei processi di democratizzazione dell’est Europa fossero legati alle condizioni preesistenti il crollo dei regimi comunisti e l’andamento delle transizioni è variato molto da Paese a Paese.

In Europa centrale, l’incontro fra una dissidenza organizzata e i movimenti di piazza ha favorito trasformazioni pacifiche che hanno segnato una netta rottura con il passato, l’avvio del processo di democratizzazione e un’integrazione europea più rapida.

Al contrario, i Balcani e il Caucaso, per ragioni diverse, non hanno maturato un percorso simile a quello del resto dello spazio post-comunista: che si fosse in un sistema più liberale come nel caso jugoslavo, o in regimi più repressivi come nel caso di Albania e Romania, oppure in sistemi sclerotizzati come in Unione Sovietica, nelle due regioni che qui trattiamo è mancata la presenza di una dissidenza democratica che potesse porsi come alternativa alla nomenclatura comunista e traghettare i Paesi alla democrazia. Il mancato ricambio nella classe dirigente ha perciò rappresentato un fondamentale elemento di continuità con il passato. Le vecchie élite comuniste si sono riposizionate politicamente e si sono poste alla guida della transizione ostacolando, di fatto, un processo di elaborazione collettiva del passato autoritario e il radicamento di una coscienza democratica diffusa.

Anche laddove non si sono scatenati conflitti armati, una prima fase di turbolenza politica ha contraddistinto il passaggio alla democrazia, come accaduto in Romania e Bulgaria. Nel primo caso, la transizione è iniziata con un’esplosione di violenza che ha comportato un migliaio di vittime e l’esecuzione del conducator Ceauşescu. In Bulgaria è stata istituita una Tavola rotonda affinché la dirigenza comunista negoziasse le riforme con l’opposizione. Il tentativo di riformare il sistema, tuttavia, si è rivelato debole, tardivo e inefficace ed è stato seguito da instabilità politica con tre elezioni parlamentari in quattro anni. Ciononostante, il processo di democratizzazione in entrambi i Paesi ha vissuto un nuovo impulso a metà degli anni ’90: le dirigenze locali hanno investito politicamente sull’ingresso nell’Unione Europea ed è stata evitata la deriva autoritaria e violenta che ha travolto gli altri Paesi del sud-est Europa e il Caucaso.

Altrove, crisi istituzionali, nazionalismo e guerre hanno invece bloccato l’avvio della ristrutturazione economica e politica. In questi casi, quello che alla fine degli anni ’80 si prospettava come l’inizio di un’era pacifica ha significato un’implosione violenta.

In Albania, la fine di uno dei più duri regimi comunisti ha dato avvio ad un periodo convulso e a tratti violento, contraddistinto da vuoto istituzionale, collasso economico e migrazioni di massa. In Jugoslavia, dove si è privilegiata la costruzione della Nazione rispetto a quella della democrazia, le forze nazionaliste hanno occupato lo spazio politico e mobilitato l’opinione pubblica facendosi interpreti del diffuso malcontento sociale dovuto alla crisi economica degli anni ’80. Un profondo sentimento di paura, alimentato dalle classi dirigenti, ha garantito ulteriore legittimazione alle politiche nazionaliste e impedito per lungo tempo l’affermazione di istituzioni democratiche nei nuovi Stati sorti dalla dissoluzione della federazione socialista.

Anche in Caucaso l’opposizione al regime comunista è stata dominata da movimenti nazionalisti e indipendentisti. Come accaduto in Jugoslavia, queste forze hanno fomentato lo scoppio di conflitti etno-territoriali che hanno causato migliaia di vittime, la migrazione forzata di oltre un milione di persone e frammentazione statuale.

Il caso più noto in Caucaso è quello delle guerre cecene ma è importante ricordare anche la violenza esplosa nei primi anni ’90 in Azerbaijan, dove una guerra segnata dalla pulizia etnica ha portato all’indipendenza de facto da Baku della regione del Nagorno Karabakh. Analogamente, il conflitto tra Georgia e Russia ha preso avvio all’inizio degli anni ’90 quando Abkhazia e Ossezia del Sud hanno ottenuto un’indipendenza de facto, formalmente riconosciuta loro dalla Russia solo dopo il conflitto dell’estate del 2008. Insieme ai processi di frammentazione, l’evidente debolezza statuale è stata tra gli elementi cruciali con cui le leadership giunte al potere in Caucaso durante le guerre dei primi anni ’90 si sono scontrate al momento dell’avvio delle riforme.

In Caucaso come nei Balcani una volta aperta la strada al nazionalismo, molti Paesi si sono trovati intrappolati in una spirale: l’aspirazione alla creazione di piccole patrie o grandi nazioni ha alimentato conflitti etnici che a loro volta hanno finito per rendere impossibili le riforme politiche ed economiche così come l’affermazione di una cultura politica democratica.

Dieci anni dopo il crollo del Muro di Berlino, in molti di questi Paesi le istituzioni della democrazia erano ancora da costruire e le guerre avevano aggiunto macerie alle già difficili sfide della transizione. Nei Balcani, la ripresa post-conflitto è stata sostenuta dalla presenza dell’Unione Europea che nell’ultimo decennio ha condizionato il processo di democratizzazione, seppur in modo tardivo e contraddittorio; altrettanto non si può dire nel caso del Caucaso, dove questa presenza è stata marginale.

 

Cambiamenti e fragilità

Sia nei Balcani sia nel Caucaso a vent’anni dal 1989 si sono instaurati sistemi politici che hanno le caratteristiche formali della democrazia. In molti casi, tuttavia, fatica ad affermarsi una coscienza civica e, in particolare nell’area caucasica, elementi di autoritarismo sono tuttora evidenti.

I sistemi che si sono affermati nelle due regioni sono perlopiù democrazie deficitarie, disfunzionali, con bassi livelli di istituzionalizzazione, debole stato di diritto e un ruolo ancora marginale della società civile. Inoltre, in alcuni casi, l’ottenimento dell’indipendenza a seguito dei processi di frammentazione statuale non ha trovato corrispondenza nell’affermazione di una reale sovranità: si pensi alla Bosnia Erzegovina, al Kosovo o agli Stati de facto del Caucaso.

Anche l’attuale struttura economica, frutto del passaggio all’economia di mercato, non è priva di fragilità in entrambe le regioni. La caduta dei regimi comunisti era stata accompagnata da una diffusa aspettativa di superamento delle ristrettezze dell’economia socialista e di affermazione di migliori condizioni di vita. Nella speranza delle opinioni pubbliche, il libero mercato e la libera circolazione delle merci avrebbero portato ad un benessere generalizzato. Nei primi anni della transizione, dunque, le riforme liberali e le privatizzazioni hanno trovato un consenso sociale molto ampio, nonostante l’erosione dello stato sociale.

La successiva disillusione delle aspettative di benessere in ampie fasce della popolazione, unitamente all’aggravarsi delle diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, ha portato talvolta a una rivalutazione nostalgica e idealizzata del passato, soprattutto da parte delle generazioni che hanno vissuto in prima persona lo shock della trasformazione del sistema economico. In molti casi, inoltre, le conseguenze dell’economia di guerra e le privatizzazioni segnate da alti livelli di corruzione e deregolamentazione del sistema produttivo hanno aggravato il già difficile processo di trasformazione dall’economia pianificata a quella di mercato.

Malgrado innegabili debolezze, evidenti progressi sono stati compiuti verso la democratizzazione delle istituzioni e della società di molti di questi Paesi. Se nel caso romeno, bulgaro e sloveno questo sviluppo ha trovato riconoscimento con l’ingresso nell’Unione Europea, anche il resto della regione mostra segnali positivi.

Nei Balcani Occidentali, il pericolo di nuovi conflitti armati su vasta scala si può dire superato. Tra i fattori stabilizzanti vanno individuati indubbiamente una sensibile crescita democratica della società e delle istituzioni, così come i condizionamenti esterni quali la presenza internazionale e le aspirazioni all’integrazione europea. Accanto a ciò, non si può tralasciare che, tragicamente, il minor rischio di contrapposizioni violente risiede nell’avvenuto raggiungimento di molti degli obiettivi che le politiche nazionaliste dei primi anni Novanta si erano poste dando vita a Stati quasi omogenei dal punto di vista etnico.

In Caucaso, al contrario, il rischio di guerra è ancora attuale e l’evidente aumento nelle spese militari che ha caratterizzato tutti i Paesi della regione negli ultimi anni è tutt’altro che rassicurante. Solo un anno fa, il conflitto tra gli eserciti di Georgia e Russia in seguito a crescenti tensioni riguardanti Ossezia del Sud e Abkhazia ha portato a centinaia di vittime, episodi di pulizia etnica e decine di migliaia di nuovi rifugiati. La retorica della guerra rimane presente anche nel dibattito politico in Azerbaijan, dove di frequente si avanza la possibilità di riconquistare con le armi il Nagorno Karabakh, regione de facto indipendente abitata prevalentemente da popolazione armena.

In molti Paesi dei Balcani, nonostante col passare degli anni la violenza e la retorica nazionalista si siano attenuate, lo spazio pubblico risulta ancora fortemente condizionato da gruppi estremisti, spesso violenti nei confronti delle minoranze, siano esse etniche o di altro tipo. Fra le questioni più attuali, si riscontra il persistere dell’intolleranza nei confronti delle minoranze sessuali, in gran misura costrette all’invisibilità nel tentativo di evitare discriminazioni e violenze. Il recente caso del Gay Pride belgradese, previsto lo scorso 20 settembre e sospeso a causa di intimidazioni, ha dimostrato quanto i gruppi estremisti siano ancora in grado di tenere in scacco le istituzioni. Minacce e scontri si sono verificati anche durante il Gay Pride di Sofia, mostrando che nemmeno l’ingresso nell’Unione mette al riparo da fenomeni di grave intolleranza.

Nel lungo processo di cambiamento che, tra luci ed ombre, ha attraversato i Balcani e il Caucaso negli ultimi vent’anni, la società civile ha ricoperto un ruolo rilevante, sebbene essa rimanga fragile, elitaria e dipendente dall’esterno. Alcune organizzazioni non governative in Bosnia Erzegovina, Serbia e Croazia, ad esempio, hanno assunto un ruolo attivo nella crescita democratica dei Paesi successori della Jugoslavia. Il loro lavoro ha stimolato il confronto con il drammatico passato degli anni ’90, ha sostenuto la diffusione di una coscienza civile e, in qualche misura, ha dato un contributo alla riconciliazione inter-etnica. Analogamente, in Caucaso alcune organizzazioni si occupano di diritti umani nello spazio post-sovietico, denunciando abusi e violenze perpetrati a partire dalle guerre degli anni ’90. Va sottolineato, tuttavia, che le istanze espresse da organizzazioni di questo tipo faticano ancora ad emergere nel dibattito pubblico. Anche in Paesi come Romania e Bulgaria, nonostante i molti progressi e l’ingresso nell’Ue, la società civile fatica a costruire una massa critica e porsi come interlocutore nei confronti delle istituzioni.

Anche il panorama dei mass media è uno specchio rilevante dei cambiamenti avvenuti negli ultimi due decenni. Nella ex Jugoslavia, quotidiani, radio e network televisivi controllati dalle élite nazionaliste durante la fine degli anni Ottanta e per tutto il periodo bellico hanno avuto il ruolo di cassa di risonanza dei regimi di allora, fomentando odio e incitando alla guerra. Allo stesso tempo, si sono radicate esperienze di segno opposto, con media indipendenti (2) che hanno contrastato la degenerazione culturale e politica che accompagnava il nazionalismo. Se molti di questi media di orientamento democratico sono sopravvissuti alla repressione dei regimi nazionalisti a cui si opponevano, oggi alcuni di essi paradossalmente sono costretti a chiudere. Il pubblico a cui si rivolgono rappresenta una ristretta minoranza e non permette loro di competere contro mezzi di informazione politicamente meno scomodi. Purtroppo, la situazione dell’informazione non è facile nemmeno in Paesi già membri dell’Unione: anche in Bulgaria non sono mancati omicidi e minacce nei confronti di giornalisti e il grado di indipendenza di molti media appare limitato.

In Caucaso, sono invece le stesse autorità al potere a fare pressioni dirette per chiudere o cercare di cambiare la linea editoriale di importanti canali televisivi (3) o ad intervenire negando le frequenze a fonti di informazione alternative (4). La situazione è ancora più problematica nel Caucaso settentrionale, dove alle pressioni si aggiunge la violenza, e giornalisti indipendenti come Anna Politkovskaja hanno pagato con la vita il loro impegno professionale.

Se nei Balcani prendono forma società più articolate, in cui crescono gradualmente gli anticorpi contro derive repressive ed autoritarie, in Caucaso il percorso verso una maggiore garanzia dei diritti è ancora tutt’altro che lineare. Qui gli anni ’90 e i regimi precedenti hanno lasciato in eredità pericolosi intrecci tra criminalità e politica, una corruzione endemica, sindacati deboli e una magistratura fragile.

 

Quale Europa?

Accanto alle celebrazioni, il ventennale della caduta del Muro di Berlino porta con sé un’amara riflessione sulle occasioni mancate. Il ‘ritorno all’Europa’ della parte orientale del continente non è ancora completo e il processo di costruzione di un’Europa politica si è fermato. Secondo Rada Iveković, con il 1989 l’Europa "ha avuto un’occasione storica per divenire un soggetto più forte, ma questa occasione non è stata colta. Il momento per una soggettività forte europea, a livello internazionale, evidentemente non è ancora giunto" (5).

È importante non sottovalutare i traguardi degli allargamenti del 2004 e 2007, così come il fondamentale risultato dell’introduzione della moneta unica e l’apertura di molti confini tra gli stati membri. Tuttavia, l’Europa che oggi si confronta con l’approvazione del Trattato costituzionale di Lisbona è un’Europa di Stati che difendono con decisione le proprie prerogative nazionali. Lo slancio ideale verso la riunificazione, la ‘casa comune euro
ea’ invocata da Michail Gorbačëv, si è indebolito scontrandosi con ‘la fatica da allargamento’; accanto a ciò, la paura di un’Europa più estesa e insicura ha eretto un nuovo muro, quello di Schengen.

La liberalizzazione dei visti viene discussa proprio in questi giorni al Parlamento Europeo e ci auguriamo trovi in breve tempo un ampio consenso e nuove aperture. Nel corso degli anni, infatti, le restrizioni alla mobilità imposte dai Paesi membri ai cittadini dei Balcani Occidentali hanno avuto l’effetto di isolare ulteriormente queste società e di scoraggiare gli elementi democratici che vi maturavano. In altre parole, l’Ue non è stata in grado di sostenere il valore positivo dell’incontro e del transnazionalismo e si è progressivamente trasformata in un club esclusivo.

Se gli anni Novanta nei Balcani sono stati per l’Ue una ‘decade persa’, a causa di politiche incoerenti e riconoscimenti in ordine sparso da parte dei Paesi membri verso gli Stati successori della Jugoslavia, è altrettanto vero che a partire dal 1999 l’Europa ha inaugurato una politica più incisiva nella regione. Bruxelles ha elaborato una strategia di lungo periodo che investisse su una prospettiva credibile di integrazione quale sprone alla stabilizzazione e alla democratizzazione.

L’aspettativa realistica di ingresso nell’Unione, abbinata al sistema delle condizionalità, ha sortito effetti positivi in Romania, ad esempio, dove ha rafforzato la tutela dei diritti delle minoranze, dell’infanzia e dei lavoratori. In Bulgaria, il processo di avvicinamento alle istituzioni europee è stato uno degli elementi cruciali nel ricomporre la ferita determinata dall’espulsione della minoranza turca dal Paese che ha segnato gli anni Ottanta. La stessa comunità, in parte rientrata, è oggi integrata nel sistema politico bulgaro.

In Croazia e in Serbia, Paesi ancora esclusi, ha contribuito a moderare le forze nazionaliste, sostenendo la collaborazione con il Tribunale dell’Aja e favorendo progressi nella democratizzazione della politica. Sebbene un senso di delusione rispetto alla prolungata attesa si stia facendo strada, il sostegno delle opinioni pubbliche locali in merito all’integrazione è tuttora maggioritario e la prospettiva europea emerge come principale elemento di consenso nei Balcani Occidentali. Non va trascurato però che un ulteriore rallentamento del processo di allargamento rischia di minare la credibilità delle istituzioni europee e il loro impatto sui processi di democratizzazione.

Nel Caucaso, dopo anni di presenza debole, l’Ue propone attualmente una strategia più attiva. D’altra parte, il consolidamento del suo impegno in direzione della pace e della stabilizzazione dell’area dovrà affermarsi anche in assenza di una prospettiva di adesione all’Unione da parte dei Paesi dell’area. Nella regione, infatti, l’integrazione nelle istituzioni europee, al contrario di quanto accaduto in Europa Centrale e Orientale, potrebbe rappresentare un fattore destabilizzante in assenza di un rafforzato dialogo con la Russia.
Così come i Balcani e il Caucaso, l’Unione Europea fatica a confrontarsi con la pluralità interna. Il rilancio del progetto politico europeo dipende oggi dalla capacità dell’Ue di proporsi quale forma di governo delle diversità, dalla volontà di ricoprire un ruolo incisivo nel mutato contesto internazionale e dalla capacità di avanzare una proposta sovranazionale in risposta ai localismi.

Questo progetto di Europa politica ha subito varie battute di arresto che hanno minato la sua spinta ideale. Con le parole di Fatos Lubonja, "L’Europa dell’89 era più forte … Non perché fosse forte in sé, ma perché la fiducia in quel progetto era più forte". (6)

 

Note

(1) Nel 2009 Osservatorio Balcani e Caucaso ha raccontato vent’anni di cambiamenti nei Balcani e nel Caucaso attraverso interviste, articoli, analisi e materiali multimediali raccolti nel dossier "Il lungo ’89", disponibile on-line sul sito www.osservatoriobalcani.org

(2) In quegli anni sono nati la Radio B92 a Belgrado, divenuta poi stazione televisiva e portale web tra i più seguiti in Serbia; in Croazia è stato fondato il settimanale Feral Tribune, i cui giornalisti hanno denunciato l’autoritarismo e i crimini del regime di Tuđman; in Bosnia Erzegovina il settimanale Dani per primo ha reso pubblici i crimini commessi da parte bosgnacca e dalle milizie di mujaheddin.

(3) È questo il caso di Imedi in Georgia, o di A1+ in Armenia.

(4) È avvenuto per Radio Free Europe e BBC in Azerbaijan.

(5) Andrea Rossini begin_of_the_skype_highlighting     end_of_the_skype_highlighting, ‘Il crollo, Intervista a Rada Ivekovic‘, Osservatorio Balcani e Caucaso, 4 marzo 2009.

(6) Marjola Rukaj e Davide Sighele, ‘Il muro e le mura. Intervista a Fatos Lubonja‘, Osservatorio Balcani e Caucaso, 4 giugno 2009.

editor's pick

latest video

news via inbox

Nulla turp dis cursus. Integer liberos  euismod pretium faucibua

Possono interessarti anche