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Il giorno dell’amarezza

Il tribunale dell’Aja lo ha assolto da tutte le accuse, ma nella comunità serba del Kosovo la sentenza del processo Haradinaj, che lascia aperte molte domande, è stata accolta con scetticismo, frustrazione ed amarezza

10/04/2008, Tatjana Lazarević - Mitrovica

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L’ex comandante dell’Uck ed ex primo ministro del Kosovo, Ramush Haradinaj, è tornato in Kosovo il 4 aprile scorso, un giorno dopo essere stato assolto dalle accuse di crimini di guerra da parte del tribunale dell’Aja. Il giudizio della corte ha provocato immediate e forti critiche a Belgrado, ma anche tra la popolazione serba che vive in Kosovo.

Ad aspettare Haradinaj all’aeroporto di Pristina c’erano alcune migliaia di persone, che, come hanno riferito i media di lingua albanese, lo hanno accolto al suono di tamburi e fischietti, e sventolando bandiere albanesi e del Kosovo, mentre alcuni danzavano vestiti con gli abiti tradizionali albanesi. Tra i tanti accorsi all’aeroporto c’erano anche il comandante del Kosovo Protection Force (Tmk), così come i membri del direttivo del partito di Haradinaj, l’Alleanza per il futuro del Kosovo (Aak).

Sempre i media albanesi hanno riferito che i simpatizzanti dell’Aak hanno criticato l’assenza dei rappresentanti delle istituzioni kosovare, anche se all’aeroporto di Pristina erano presenti vari membri dei due partiti di governo, il Partito Democratico del Kosovo (Pdk) e la Lega democratica del Kosovo (Ldk).

Subito dopo il suo rientro, Haradinaj ha fatto visita ad alcune famiglie di albanesi uccisi durante la guerra del 1999 in varie zone del Kosovo, alle tombe degli scomparsi, così come alla tomba dello scomparso presidente Ibrahim Rugova.

Haradinaj si è poi complimentato con i cittadini e le istituzioni kosovare, e con la comunità internazionale "per i passi in avanti fatti in Kosovo".

"L’indipendenza del Kosovo, il supporto e il riconoscimento al nuovo paese indipendente e sovrano, così come il suo essere pronto ad intraprendere il percorso di integrazione, rappresentano grandi successi", ha dichiarato ancora Haradinaj.

L’ex premier ha inviato un messaggio anche alla popolazione serba, con il quale li ha assicurati che il Kosovo è un paese che "bisogna costruire insieme, una terra con molte opportunità per tutti noi".

Rada Trajkovic, vice presidente del Consiglio nazionale sebo per il Kosovo e Metohija (SNVKiM), organizzazione che raccoglie i serbi che vivono nelle enclaves a sud del fiume Ibar, sostiene però che, nonostante la sentenza, per i serbi del Kosovo Haradinaj resta un criminale.

"La cosa peggiore, è che il nostro futuro sarà legato alla necessità di collaborare con chi ha ucciso i serbi", ha dichiarato la Trajkovic all’Osservatorio, aggiungendo che, nonostante siano state vittime, i serbi del Kosovo dovranno "cercare il compromesso con assassini, per poter continuare a vivere nelle proprie case".

Sempre per la Trajkovic, un motivo particolare di delusione, rispetto alla sentenza del tribunale dell’Aja, risiede nel fatto che la comunità internazionale in Kosovo sarebbe ampiamente a conoscenza dell’implicazione di Haradinaj nei crimini commessi contro civili serbi, albanesi e rom nell’area di Orahovac.

Oltre al libro dall’ex procuratore capo del tribunale, Carla del Ponte che, appena pubblicato, ha scosso l’opinione pubblica (nel volume si parla tra l’altro di serbi rapiti e trasportati in Albania, dove sarebbero stati utilizzati come cavie, per poterne vendere gli organi, ed essere poi uccisi), la Trajkovic ricorda anche il volume "La guerra dopo la guerra", pubblicato da Fabio Mini,ex comandante della Kfor, nel 2002.

Nel suo libro, il generale italiano indica l’Albania settentrionale come il luogo dove sono sepolti molti serbi del Kosovo.

Milorad Trifunovic, 59 anni, profugo di Vucitrn, città non lontana da Mitrovica, dove oggi non vive più nessun serbo, racconta all’Osservatorio di essere rimasto scioccato dalla notizia dell’assoluzione di Haradinaj.

"Hanno liberato un uomo che ha scannato, ucciso, rapito, torturato, venduto organi umani. E’ insieme una farsa e una tragedia. I criminali sono criminali, a prescindere dalla fede o dalla nazionalità", ha detto amareggiato Trifunovic.

Suo fratello Miroslav, minatore, è stato rapito il 22 giugno 1998, insieme ad altri otto colleghi, mentre lavoravano nella miniera di Belacevac.

Milorad oggi è il coordinatore dell’Unione delle Famiglie dei Rapiti e degli Scomparsi per il Kosovo del nord. Trifunovic afferma che le famiglie dell’associazione, fino alla liberazione dei detenuti albanesi dalle carceri serbe, nel 2001, hanno ricevuto chiari segnali da parte albanese che i propri cari erano vivi, e che si trovavano probabilmente in Albania settentrionale.

"Oggi, con la liberazione di Haradinaj, è come se ci avessero ucciso, noi e le nostre famiglie, ancora una volta", ha dichiarato Trifunovic.

Il segretario dell’unione, Olgica Bozanic, di Orahovac, città che durante le operazioni belliche ricadeva nella zona di operazioni delle truppe guidate da Haradinaj, afferma che nelle liste dell’associazione figurano 551 persone di cui non si conosce il destino.

Nella fossa comune di Volujak, nei pressi di Orahovac, scoperta nel 2005, tra i resti di ventuno cadaveri sono stati identificati undici membri della famiglia Kostic (famiglia di origine di Olga Bozanic) e quattro membri della famiglia Bozanic, quella di suo marito. Tutti vivevano nei villaggi di Opterusa e Retinje, nei dintorni di Orahovac.

Olgica oggi è una profuga. Vive in un appartamento in affitto a Pancevo, nei pressi di Belgrado. Continua a cercare i resti di altri tre membri della propria famiglia, e trascorre tutto il suo tempo nella sede dell’unione a Belgrado, dove colleziona informazioni sulla sorte dei serbi del Kosovo scomparsi.

Con una sua lettera, spedita all’allora procuratore Carla del Ponte nell’agosto del 2005, pochi mesi dopo la scoperta della fossa comune di Volujak, la Bozanic ha richiesto che l’accusa a Ramus Haradinaj venissero allargate anche a questo caso. Dall’Aja, però, le venne risposto che il mandato del tribunale era ormai scaduto, e che quindi la richiesta non poteva essere accolta. L’Unione delle Famiglie dei Rapiti e degli Scomparsi si è allora rivolta all’Unmik, chiedendo che venisse indagata la responsabilità di Haradinaj per crimini commessi nell’area sotto il suo comando.

"Ci aspettavamo comunque una condanna leggera, conoscendo la forza dimostrata dalla lobby pro-Haradinaj durante l’intera durata del processo, ma non che venisse addirittura assolto", ha detto amareggiata la Bozanic, aggiungendo che le famiglie dei serbi uccisi e scomparsi si sentono umiliate, non sapendo più cosa fare perché giustizia venga fatta.

Forti reazioni alla notizia dell’assoluzione di Haradinaj si sono fatte sentire anche tra i serbi che vivono nelle enclavi. A Velika Hoca, villaggio situato a qualche chilometro fuori da Orahovac, e conosciuto per il vino le numerose chiese, dei 1800 serbi che qui vivevano prima della guerra ne sono rimasti 700.

Jovan Djuricic, 56 anni, dice di essere rimasto sorpreso dalle notizie provenienti dall’Aja. Djuricic è almeno per le istituzioni di Belgrado, il sindaco di Velika Hoca. Secondo lui, con questa assoluzione, il tribunale dell’Aja "ha confermato di essere un’istituzione nata per punire i serbi, ed ha inviato il messaggio che non c’è giustizia".

"Nonostante tutto speravo che fosse condannato, anche in modo lieve, ma no, in questo ‘nuovo paese’ torna da eroe. E’ uno scandalo", ha detto ancora Djuricic, aggiungendo che in paese, così come in tutta l’opinione pubblica serba, a prevalere è il senso di amarezza.

Durante l’intero processo ad Haradinaj, l’opinione pubblica serba si è preparata ad un verdetto simile a quello poi emesso, visto il costo e la forza degli avvocati difensori, il supporto all’imputato proveniente da influenti circoli internazionali, oltre alle minacce ricevute da molti testimoni. Molti non si sono presentati in aula, mentre alcuni sono morti ancor prima di arrivarci, in circostante rimaste poco chiare.

Nonostante tutto ciò, i serbi del Kosovo e le famiglie degli scomparsi e degli uccisi non si aspettavano un’assoluzione completa per l’uomo che, nel suo libro autobiografico, intitolato "Un racconto di guerra e libertà", ha scritto: "Attaccavamo costantemente le forze serbe. In ogni luogo. Giorno e notte. Senza nasconderci. Ogni giorno uccidevamo poliziotti serbi…".

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