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Il genocidio del vicino

La giustizia internazionale appare sempre più inefficace nel favorire il confronto con il passato recente dei Balcani, come dimostra il processo per genocidio in corso all’Aja

18/04/2014, Andrea Oskari Rossini -

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In marzo Serbia e Croazia si sono affrontate di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) dell’Aja nel processo per genocidio che le vede opposte.

La causa è stata avviata il 2 luglio 1999 dalla Croazia contro l’allora Repubblica Federale di Jugoslavia (RFJ). La Serbia è considerata stato successore dell’Unione di Serbia e Montenegro, che a sua volta è succeduta alla RFJ.

Dopo inutili tentativi di composizione della controversia in via extragiudiziale, la Serbia ha rivolto una contro accusa di genocidio alla Croazia il 4 gennaio 2010.

Il processo è iniziato il 3 marzo scorso.

Il team croato, guidato da Vesna Crnić-Grotić, ha iniziato a presentare i propri argomenti per primo, seguito la settimana successiva dal team serbo, guidato da Saša Obradović. Il dibattimento si è concluso il primo aprile.

La Corte emetterà la sentenza entro la fine del 2014 o inizio del 2015.

Entrambi i paesi, che hanno arruolato eminenti esperti di diritto internazionale, si sono dichiarati certi di vincere.

Genocidio o pulizia etnica

Secondo la maggior parte degli esperti e dei giuristi che si sono espressi sulla vicenda, dalla disputa in corso non emergerà nulla.

Nel corso dei suoi 70 anni di vita – la CIG è stata fondata nel 1945 – la Corte non ha mai condannato uno stato per genocidio.

L’unica sentenza che ha accolto una tesi di genocidio è quella del febbraio 2007 su Srebrenica. In quel caso la Corte, deliberando sull’accusa rivolta da Sarajevo a Belgrado nel 1993, aveva stabilito che un genocidio era stato commesso – a Srebrenica – ma che lo stato serbo “non era responsabile”, nonostante non avesse fatto nulla per impedirlo o punire i responsabili.

In questo caso verosimilmente non verranno accolte neppure le tesi di genocidio, a meno di un imprevisto colpo di scena nello sviluppo del diritto internazionale, e dell’emergere di un’equivalenza tra i concetti di pulizia etnica e di genocidio.

Marko Milanović, professore di diritto internazionale all’università di Nottingham, ha sintetizzato il dibattito in corso dichiarando all’Economist che “a meno che la Corte non sia preda di un aneurisma collettivo il risultato del processo è già determinato. Non c’è stato nessun genocidio, chiuso il discorso.”

Un esito altrettanto probabile della causa, tuttavia, è il peggioramento delle relazioni tra Zagabria e Belgrado. Di questo sembrano essere consapevoli entrambi i governi. Entrambi tuttavia, per motivi diversi, non riescono a liberarsi dall’eredità avvelenata degli anni ’90.

Ostaggi

Il nervo scoperto, oggi come 20 anni fa, è Vukovar. La cittadina danubiana, che nel 1991 rappresentava il fronte nella guerra tra Zagabria e Belgrado, subì una lunga scia di crimini dopo la sua caduta, nel novembre di quell’anno. Circa 260 persone, prelevate dall’ospedale della città, furono uccise e gettate in fosse comuni. Alcune decine non sono ancora state ritrovate.

Nonostante la pubblica espressione di rammarico, l’espressione di scuse e il riconoscimento del crimine nel 2010 da parte dell’allora presidente serbo Boris Tadić, il clima in città è ancora difficile.

Il governo croato cerca di far rispettare la legge che prescrive il bilinguismo nelle aree dove una minoranza rappresenti almeno il 30% della popolazione, ma l’opposizione dell’estrema destra è forte.

Alcuni giorni fa, l’associazione “Quartier generale per la protezione di Vukovar croata” ha lanciato una campagna chiamando al boicottaggio di negozi e imprese gestite da serbi.

Milorad Pupovac, rappresentante della minoranza serba in Croazia e deputato al parlamento di Zagabria, ha dichiarato che si tratta di un’iniziativa che può avvenire solo “in regimi nazisti, fascisti o ustascia, e che non dovrebbe avere spazio in una democrazia europea”.

In generale, la posizione della minoranza serba in Croazia, il ritorno dei profughi e la ricerca degli scomparsi sono oggi le questioni che maggiormente potrebbero risentire di un peggioramento dei rapporti tra le due capitali.

Durante la guerra, la Serbia ha accolto sul proprio territorio circa 300.000 profughi provenienti dalla Croazia, in gran parte fuggiti a seguito dell’operazione Oluja avviata dall’esercito croato nell’agosto 1995. Tra le 30.000 e le 40.000 persone hanno invece trovato rifugio in Bosnia Erzegovina.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha da poco raccomandato che non venga più rinnovata la concessione dello status di rifugiato a questi profughi.

Secondo l’UNHCR, infatti, 20 anni dopo la fine della guerra “le condizioni che hanno provocato quegli spostamenti di popolazione sono cambiate. La cooperazione regionale è intensificata, […] è sempre più visibile il progresso sia in termini politici che economici.”

La visione ottimista delle Nazioni Unite implica che i circa 50.000 rifugiati serbi di Croazia, ancora registrati come tali, entro breve non lo saranno più, non beneficeranno più della protezione prevista dal diritto internazionale e dovranno cercare di integrarsi stabilmente dove la guerra li ha cacciati 20 anni fa.

Si tratta di una prospettiva rosea che spesso non coincide con la realtà sul terreno che, al contrario, necessita ancora di forti segnali di incoraggiamento e di sostegno al ritorno dei profughi. Questi segnali non possono che emergere da una rafforzata cooperazione tra i due paesi, proprio il contrario di quanto sta andando in scena all’Aja.

Il processo di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia, infine, potrebbe avere effetti negativi sul comune futuro europeo di Serbia e Croazia. Zagabria è paese membro dell’UE dal primo luglio 2013. Belgrado, dopo la firma del cosiddetto accordo di Bruxelles sul Kosovo , ha da poco visto accogliere la propria candidatura. Per proseguire nel percorso di integrazione europea, tuttavia, Belgrado ha bisogno del consenso di tutti i paesi UE.

Andrej Plenković, eurodeputato dell’Unione Democratica Croata (HDZ) e capolista alle prossime europee, ha invece recentemente dichiarato che “la Serbia deve cambiare tono all’Aja se vuole il nostro sostegno”.

Simili affermazioni dovrebbero incontrare una ferma reazione da parte delle istituzioni europee. L’integrazione europea dei Balcani occidentali, infatti, non può essere subordinata alla soluzione di dispute bilaterali che nulla hanno a che fare con il processo di allargamento.

Tribunali e confronto con il passato

La giustizia internazionale si sta dimostrando sempre più inefficace nel favorire un processo di confronto con il passato, utile ad avvicinare le divergenti narrazioni sulla storia recente della regione.

I verdetti vengono accolti dalle opinioni pubbliche in termini di vittoria o sconfitta, come una partita di calcio, senza che ci sia vero dibattito pubblico su quanto avvenuto o sulla sua ricostruzione.

Nonostante importanti successi nell’accertamento dei fatti e di alcune responsabilità per singoli episodi (Srebrenica, e non solo), è fallito il tentativo di far emergere la dimensione individuale delle responsabilità. Al termine della partita di calcio, la squadra che ha perso viene incolpata collettivamente, anche se paga solo il capitano.

Alcune recenti sentenze di assoluzione pronunciate dal Tribunale Penale per la ex Jugoslavia, inoltre, hanno peggiorato la situazione. In particolare, l’incapacità di trovare le responsabilità per i crimini avvenuti durante l’operazione Oluja o di provare il collegamento tra i servizi di Belgrado e i crimini commessi da militari e paramilitari serbi in Croazia e Bosnia Erzegovina, hanno reso ancora più incomprensibile alle vittime il lavoro dei giudici.

I (pochi) processi svoltisi di fronte alle corti locali, infine, presentano un’imbarazzante asimmetria. In prevalenza, ognuno giudica i crimini commessi dagli altri. La causa in corso di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia è l’apoteosi di questo atteggiamento. Il genocidio è sempre quello del vicino.

Levar, Reihl-Kir e la famiglia Zec

L’elaborazione del passato passa attraverso il riconoscimento dei propri crimini, non di quelli degli altri. Da anni alcuni attivisti della società civile, sia in Serbia che in Croazia, lavorano in questo senso. La posizione di Sonja Biserko, direttrice del Comitato Helsinki per i Diritti Umani, che ha deciso di partecipare al processo come testimone per la Croazia, è un atto di coraggio che va in questa direzione, forse l’unico elemento positivo di questo processo.

La recente iniziativa di alcune organizzazioni non governative croate, che hanno chiesto al proprio governo di intitolare tre strade della capitale rispettivamente a Milan Levar, a Josip Reihl-Kir e alla famiglia Zec, vittime innocenti che hanno cercato di opporsi all’ingiustizia e alla guerra, è altrettanto importante.

Invece di affrontarsi in Tribunale per dimostrare di essere stati vittime, Zagabria e Belgrado dovrebbero accordarsi su come indennizzare le vittime, spiegare ai propri cittadini come sia stato possibile che quei crimini si siano verificati ed erigere monumenti a quanti si sono opposti alla violenza. Sarebbe un processo da cui l’Europa trarrebbe enorme beneficio, proprio nel momento in cui una nuova guerra sembra presentarsi alle sue porte.

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